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  • Memoria Autobiografia Immaginario
    Maria Immacolata Macioti - Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.10 n.2 Maggio-Agosto 2012

    L’IMMAGINARIO VISUALE DI UN QUARTIERE DI ROMA - STORIA, MEMORIA E IDENTITÀ ATTRAVERSO LE FOTOGRAFIE PRIVATE


    Marco Pasini

    paso74@libero.it
    Master Teoria e Analisi Qualitativa. Storie di vita, biografie e focus group per la ricerca sociale, il lavoro e la memoria - Università di Roma La Sapienza; Stage a Biblioteche di Roma, L’album di Roma. Fotografie private del Novecento; Ricercatore ne Le borgate di Roma come luoghi significativi della memoria urbana, come risorse umane e premessa per il superamento della dicotomia centro-periferia, diretta dalla Prof.ssa Maria Immacolata Macioti; Ricercatore presso Labos – Fondazione Laboratorio per le politiche sociali; Relatore in Conferenze italiane e europee; Autore di pubblicazioni nazionali e internazionali.

    Introduzione. La memoria

    “Se vogliamo negare o confermare qualcosa, o anche se vogliamo completare quel che sappiamo di un fatto di cui siamo già informati in qualche modo, ma di cui, nonostante tutto, ci resta ancora poco chiaro qualche aspetto, noi facciamo ricorso alle testimonianze”.

    Così il sociologo francese Maurice Halbwachs apre il suo lavoro, incompiuto e pubblicato postumo nel 1950 a Parigi, su “La memoria collettiva”, puntando l’attenzione sul ricordo e sulla memoria. La mémoire intesa come punto di intersezione del ricordo individuale con quadri di pensiero collettivi; memoria come ricostruzione, trasmissione e immaginazione; memoria che esiste grazie a una rappresentazione collettiva del tempo e dello spazio. Memoria individuale resa possibile attraverso una “mediazione sociale” con la memoria collettiva. In altre parole, l’individuo, che costruisce la propria memoria con il supporto del suo ricordo e della sua immaginazione, si trova necessariamente a dover mediare con le rappresentazioni sociali [1] e con la memoria custodita e condivisa della comunità alla quale appartiene, cioè con la memoria collettiva.

    Esiste la memoria individuale? La memoria va sempre riferita alla collettività? Le riflessioni di Maurice Halbwachs hanno costituito un terreno di studio assai importante per coloro che, molto più tardi rispetto a lui, si sono occupati di memoria sociale. I suoi lavori legati a tali tematiche, “Les cadres sociaux de la mémoire” e “La mémoire collective”, rappresentano il punto di inizio per percorrere un iter di conoscenza tra gli innumerevoli e affascinanti scritti che esistono sull’argomento. Nelle opere del sociologo francese, il rapporto tra memoria e identità collettiva è spesso sottolineato; ciò che viene messo in evidenza è che i membri di un gruppo si identificano nella collettività e che la memoria di ciascun individuo è costantemente aiutata, stimolata e sorretta dalle relazioni interpersonali che l’individuo stesso stringe con quella degli altri membri di uno stesso ambiente sociale, di una comunità.

    Halbwachs sostiene che il problema della memoria sia affrontabile unicamente intendendo la “memoria individuale come il punto di intersezione di più flussi collettivi di memoria” [2]. L’idea chiave è che ricordare significa attualizzare la memoria di un gruppo e che l’atto del ricordare non esista se non a condizione che si collochi dal punto di vista di uno o più correnti di pensiero collettivo, di fondamentale aiuto per una maggiore esattezza del vissuto sociale.

    Se per un verso la memoria collettiva trae forza e durata dal fatto che ha per supporto un insieme di uomini, d’altra parte sono gli individui stessi, in quanto membri di un gruppo, che ricordano. In questa moltitudine di ricordi comuni, che si sostengono reciprocamente, ciascuna memoria individuale è un punto di vista che cambia a seconda del posto che occupa al suo interno; a sua volta questo posto cambia a seconda delle relazioni che si intrattengono in altri ambiti sociali. Infine, i ricordi assumono senso e credibilità solo nel loro contesto: dal gruppo del vicinato alla famiglia, dal gruppo dei pari a quello della sezione politica, dall’ufficio alla parrocchia, fino alla scuola.

    Henry Bergson, riferimento costante di Halbwachs, analizza la memoria come fosse una funzione inconscia della psiche, riducendola a una dimensione prettamente individuale e psicologica, che può essere conservata nella coscienza in maniera netta, come se questa fosse una “tabula rasa” [3]. Al contrario, Halbwachs, ritiene priva di fondamento questa visione isolata del momento mnemonico; all’opposto, egli sostiene che il passato non si conserva affatto, ma si ricostruisce. In pratica, una volta stabilito che ogni forma di memoria è una ricostruzione parziale e selettiva del passato, la memoria collettiva è essenzialmente una ricostruzione del passato in funzione del presente; i cui punti di riferimento sono forniti dagli interessi e dalla conformazione della società presente. La memoria non sta, infatti, nello spirito né nel cervello, ma piuttosto nella società o meglio nella coscienza collettiva dei gruppi umani concreti. Nessun gruppo potrebbe del resto riprodursi nella propria identità senza produrre e conservare un’immagine del passato consolidata, almeno per alcune delle sue linee ritenute fondamentali e valide dall’insieme dei membri.

    Il problema della memoria degli individui non è affrontabile se non intendendo la memoria collettiva come l’esperienza che “costituisce l’insieme dei quadri che consentono la conservazione, lo sviluppo e l’esplicitazione dei contenuti della memoria dei singoli: non c’è memoria possibile al di fuori dei quadri di cui si servono gli uomini che vivono in società per fissare e ritrovare i propri ricordi” [4].

    L’individuo percepisce come esteriori gli eventi della vita della propria comunità, ai quali si rapporta, per comprenderne le dinamiche, uscendo da se stesso e dalla propria sfera personale. Questo gli permette di avere dei punti di riferimento dati dall’esterno, che per essere tali devono essere inerenti ad esperienze comuni, in modo da poter essere inseriti entro la cornice della memoria e non rimanere astratti.

    La memoria individuale rappresenta un punto di vista mutevole della memoria collettiva. La prima è propriamente interiore, interna, personale e soggettiva, che porta a considerare un “io” distinto da un “loro”; essa deve usare la seconda, esterna e sociale, per colmare le proprie lacune. La memoria individuale, avvolta e contenuta dalla memoria collettiva meno artificiale e garanzia di continuità dei ricordi, non può prescindere da essa in quanto, questa, conserva il passato che è ancora vivo nelle coscienze.

    In ultimo, la memoria collettiva, permette di avere dei punti fermi comuni che fissano e fanno prendere coscienza della propria identità, collegandola a quella altrui, ed aiuta a perpetuare e a definire i sentimenti della comunità di appartenenza.

    Lo spazio, ad esempio, ha dei legami con la memoria collettiva. Il ricordo può dipendere anche dagli oggetti materiali con i quali siamo in contatto, che rimangono tali e quali e ci offrono stabilità ed ordine. Nell’ambiente di ogni persona, nella propria casa o stanza, è impresso il suo marchio, grazie al quale segnala la propria presenza in quel determinato luogo, che trasforma a sua immagine e somiglianza creando una propria cornice, in cui ogni dettaglio ha un senso solo per gli appartenenti ad essa dato che corrispondono ad aspetti conosciuti unicamente da loro. In tutto questo ha molta rilevanza l’impassibilità e l’immobilità delle “pietre” (edifici, strade, vie, vicoli, mercati, muri ecc. ecc.) nei confronti dei fatti esterni, perché la loro fissità dà identicità e l’impressione di non cambiare, come gli stessi oggetti.

    Si è detto come Halbwachs sostenesse che, se la memoria non ha un rapporto di costante interazione con il gruppo, lentamente si dissolve perché si interrompe lo scambio reciproco. Deve essere tenuto presente che l’individuo rimane comunque il principale soggetto della memoria, benché essa sia connessa ai quadri sociali, cadres sociaux, collettivi che organizzano i ricordi del singolo anche se la loro stabilità non è permanente, poiché si costruiscono e si dissolvono nel tempo.

    Le teorie portanti del “filo mnemonico” sono dunque: il ricordare ha capacità e funzioni di attualizzare la memoria di un gruppo sociale cui si appartiene o si è appartenuti in passato; è un’opinione che avviene nel presente e, che dal presente dipende.

    La ricostruzione del passato corrisponde agli interessi, ai modi di pensare e ai bisogni ideali della società presente. Tuttavia, l’immagine del passato che ogni società si rappresenta è in ogni epoca determinata, qualcosa che s’accorda con i pensieri dominanti della società stessa [5].

    Già il linguaggio, di per sé, costituisce il livello più elementare di questi condizionamenti e dipendenze: “le convenzioni verbali costituiscono il quadro contemporaneamente più stabile e più elementare della memoria collettiva” [6]. In effetti, da sempre, le fonti orali rappresentano materiali documentari e informativi, spesso importanti, a volte insostituibili. Le forme di linguaggio sono informazioni elaborate dai filtri della soggettività della memoria individuale, che permettono di dialogare e di mediare un ricordo. Ci si rifà, nuovamente, alla vita di relazione, utile alla trasmissione.

    All’interno della memoria individuale, non si può non considerare la stretta connessione che esiste tra ricordo e immaginazione: la memoria individuale è sostenuta dall’immaginazione e dalla rappresentazione sociale di sé e della comunità alla quale si sente di appartenere; tutto ciò produce un’identità comune di riferimento.

    Questi i concetti teorici che fanno da sfondo al progetto di ricerca che in questa sede si descrive, seppur in modo breve e sicuramente non esaustivo; mantenendo sempre alta l’attenzione verso l’altra faccia della memoria: l’oblio [7].

    Da Maurice Halbwachs e la sua critica all’ottica Bergsoniana, ai recenti dibattiti che vedono scrittori e storici attualizzare temi che da sempre sono considerati centrali dagli studiosi delle scienze sociali, la memoria, nella molteplicità dei suoi aspetti, è interdisciplinare nel senso di non poter essere oggetto di studio di una sola disciplina; è un fenomeno controverso e contraddittorio anche all’interno delle singole discipline che se ne occupano.

    Nel caso della sociologia e più specificamente della sociologia qualitativa, la memoria assume un’importanza imprescindibile per il ricercatore; il quale si affida completamente ai ricordi delle persone. Essa può rappresentare un problema, dato che spesso risulta essere labile e può essere distorta da dimenticanze o mitizzazioni, più o meno volontarie, nei fatti ricordati. Ostacoli che derivano dal fatto che, come detto in precedenza, è un processo attivo che ricostruisce il passato con gli occhi del presente.

    Contesto di analisi

    Fot. 1. Acilia, Villaggio INA CASA - Panorama - via Fabiano Landi (1964) Fonte: Ed. Scarponi Enzo Cart

    “Adesso il maestro indica sulla mappa un puntino minuscolo, invisibile, sta parlando proprio di questi posti nostri, forse ci è arrivato dall’ultima guerra, con tutto il tempo che gli americani c’hanno messo per spostarsi da Anzio a Roma, passando pure di qui, con i bombardamenti fatti tra Malafede e Acilia. […] Durante gli scavi per fare le fondamenta hanno ritrovato sotto terra due sarcofaghi romani ancora intatti. Prima dei romani qui c’erano capanne e palafitte, basta scavare qui intorno e si troverebbe un sacco di cose antiche, tombe, pezzi di case, statuine” [8].

    Le borgate nacquero per risanare la vecchia Roma; delle dodici ufficiali sorte tra il 1924 e il 1940, le ultime quattro - Acilia, Trullo, Primavalle, Quarticciolo - erano fuori dai confini del piano regolatore del 1931. Esse sono giuridicamente “nuclei edilizi”. Tali nuclei non furono costruiti secondo dei piani, la delibera governatoriale non riconosceva loro altra legislazione che il giudizio insindacabile dell’amministrazione. Centinaia di ettari furono così sottratte a qualsiasi pianificazione urbanistica e dentro vi sorsero borgate ufficiali, baraccamenti e lottizzazioni. Tra il 1935 e il 1955 vi andarono ad abitare circa 200.000 persone. Protagonista dell’edilizia statale degli anni ’50 fu l’Ina-Casa, istituita con la legge Fanfani (28 febbraio 1949, n. 43) che utilizzò soprattutto i fondi internazionali Erp (European Reconstruction Program). Si avviò così una politica edilizia su vasta scala che comprendeva l’estrema periferia romana [9].

    Fot. 2. Lavori in corso Fonte: ONLUS Casalbernocchi

    Nell'Italia del secondo dopoguerra, obiettivo del piano era incrementare l'occupazione operaia attraverso la costruzione di case per lavoratori. Gli alloggi realizzati rispondono a un modello urbano e sociale ben preciso, quello del quartiere: articolazione tra spazio individuale e collettivo; oggetto di studio privilegiato della ricerca architettonica, urbana e sociale. A lungo ignorato dalla storiografia, in anni recenti si è assistito ad una vera e propria riscoperta del piano Ina Casa, nato per affrontare problemi ancora oggi attuali.

    Il quartiere di Casal Bernocchi è sorto in epoca recente; nasce ufficialmente nel 1961 (nel 2011 si è festeggiato il cinquantenario) con la costruzione di un complesso edilizio proprio da parte dell'INA Casa. Il suo nome attuale gli è stato assegnato posteriormente alla sua edificazione. Inizialmente e provvisoriamente denominato, appunto, “Villaggio Ina Casa”, successivamente cambia il nome in quello attuale per via della presenza di un casale di proprietà della famiglia Bernocchi. L’appellativo deriva, infatti, dalla contessa Bernocchi, rimasta vedova nel 1939 e proprietaria dell’appezzamento agricolo che cedette all’INA-CASA per farvi costruire case per lavoratori.

    Questa zona un tempo era occupata da villae romane (una di queste, del III-II sec. A. C., appartenente al senatore Lucio Fabio Cilone) e, prima ancora, da capanne di abitatori preistorici. Questi luoghi erano chiamatati “Ficana” dal fatto che vi era la coltivazione spontanea di fichi [10]. I reperti archeologici rinvenuti collocano gli eventi storici del territorio – formato dalle lacinie (promontori) Malafede e Casal Bernocchi - con i primi insediamenti di cinque popolazioni pre-latine della “cultura appenninica”, con le attività delle popolazioni latine di Alba Longa (che attraverso l’odierna via Ostiense svilupparono i commerci con gli etruschi utilizzando il corso d’acqua detto “Fosso di Malafede”), con le testimonianze della Roma monarchica, alla fondazione della città di Ostia [11]. Agli inizi del 1900, come già prospettato dallo stato Pontificio del 1700, ci fu un ampio progetto di bonifica agricola per via delle paludi che causavano malaria (da cui gli appellativi “Malafede” e “Osteria di Malpasso”), i cui segni si rilevano nei casali – di Malafede, Conti Caproni, Manzolini, Bernocchi e Giano - che ospitavano gli agricoltori [12].

    In ottemperanza alla “legge Fanfani”, sugli ex lotti agricoli, l’Ina-Casa realizza il complesso edilizio. Gli appartamenti furono assegnati, tramite concorso a punteggio, alle più disparate categorie di lavoratori e di impiegati dello Stato (Esercito, Pubblica Istruzione, Foreste, Monopòli, Italgas, operai specializzati, Poligrafico dello Stato) come pure ai senza-tetto.

    “Ma ecco che un giorno cominciarono a impiastrare di palazzi tutto lì intorno, tra le marane: era un’impresa dell’INA Case, e le case cominciarono a spuntare, sui prati, sui monta rozzi. Avevano forme strane, coi tetti a punta, terrazzette, abbaini, finestrelle rotonde e ovali. […] C’erano sei o sette palazzine, storte, di sguincio, dipinte di rosa scuro, con delle porte dove ci s’arrivava facendo 5/6 scalini, e tante balaustre a zig-zag che le univano fra loro e poi terrazzine a cui attraverso piccole scalinate si univano altre terrazzine. […] E tutt’intorno, i prati. Più in giù c’era un vecchio cascinale, e, dall’altra parte, isolata in uno spiazzetto, c’era una chiesa, piccoletta. […] Al centro dell’INA Case, una costruzione bassa ch’era il mercato. […] Tommaso ce lo sapeva che all’INA Case abitavano due tipi di persone: da una parte impiegati dello stato, che avevano avuto casa attraverso le loro aziende, tra loro anche ragionieri, geometri e gente per bene. Dall’altra parte c’erano quelli che avevano abitato nei tuguri e nelle casette, a cui ogni tanto il comune assegnava una casa, e che era tutta gente morta di fame o della mala” [13].

    Fot. 3. Acilia – Villaggio INA CASA – Mercato Coperto (1964) Fonte: Ed. Scarponi Enzo Cart. - N. 12

    Il quartiere ha un’esclusiva destinazione urbanistica “residenziale”, completata da Edifici specialistici, le strutture di servizio: la scuola Elementare e Materna “La Crociera”, la chiesa San Pier Damiani (in onore del Cardinale e Vescovo di Ostia – 1007/1072), la stazione ferroviaria, il mercato coperto. Dal punto di vista urbanistico l’insediamento, progettato su un pendio collinare, si sviluppa con un degradare degli edifici alti posti in sommità verso le case basse a valle. Singoli edifici, strade e piazze sono caratterizzati da aree verdi di pertinenza. La tipologia edilizia è costituita da case “a grappolo”, torri, case basse, edifici e case in linea [14]. Le costruzioni non presentano disegno uniforme. Furono, infatti, scelte varie gamme di volumi e di colori, in prevalenza il rosso; non furono eseguiti sbancamenti, ma venne rispettata, per quanto possibile, la conformazione fisica della collina. A ridosso del nucleo originario, nella parte alta l’INA-Casa ha fatto erigere una “zona residenziale”, composta da un centinaio di villette.

    Tab. 1. Dati descrittivi Fonte: Laboratorio di Urbanistica Paesaggio e Territorio, Università di Parma, 2009

    Situato nel XIII Municipio del Comune di Roma, oggi conta circa 15.000 abitanti su una superficie approssimativamente di 400 ettari.

    Metodologia utilizzata

    Figura 1. Territorio di Casal Bernocchi Fonte: Comune di Roma, 15° censimento della popolazione, delle abitazioni, delle industrie e dei servizi (giugno 2011)

    Ricostruire la storia, la memoria e l’identità del quartiere per mezzo del materiale visuale e biografico; interviste accompagnate dalle fotografie private e dalla documentazione storica. In questa maniera si cerca di comprendere ed interpretare l’immaginario che si ha di un determinato luogo e vissuto. Memoria e autobiografia, quindi, attraverso la visione di sé e come questa viene elaborata e raccolta in contesti culturali e sociali. Sviscerare come tali  narrazioni iconografiche vengano influenzate e l'immaginario  sociale diviene modalità di riproduzione delle rappresentazioni individui-società. Addentrarsi nel ricordo autobiografico grazie ad un approfondimento nella testualità della scrittura di sé per mezzo della luce (foto-grafia). Si intende dare un train de union micro-macro tra l’individuo e il contesto sociale, portando le storie private nello spazio pubblico.

    In sociologia l’approccio qualitativo prende in esame i documenti privati quali diari, lettere e fotografie. La research design di questo progetto di ricerca dal basso, è concentrata principalmente sulle esperienze e i costrutti dell’approccio qualitativo, più precisamente di case study, Community studies, della Sociologia visuale.

    - Lo studio di caso è uno dei diversi modi di fare ricerca delle scienze sociali. Si tratta di un intenso studio su un singolo gruppo o comunità. Piuttosto che utilizzare campioni e seguire un rigido protocollo per esaminare un numero limitato di variabili, il metodo case study analizza in profondità, longitudinalmente, un singolo evento: un caso appunto. Fornisce un modo sistematico di ricerca, per quello che concerne la raccolta dei dati, l'analisi delle informazioni, il report dei risultati. Di conseguenza, il ricercatore può ottenere una maggiore comprensione del motivo per cui il fatto è accaduto, come è accaduto e ciò che potrebbe divenire importante per averne una visione più ampia. Lo studio di caso è definito come una strategia di ricerca: l'indagine empirica che indaga su un fenomeno all'interno del suo contesto reale.

    - Gli studi di comunità rappresentano un metodo di ricerca compreso tra sociologia, antropologia sociale, etnografia. Sono considerati una loro sub-disciplina, ma anche indipendentemente; spesso interdisciplinari e orientati verso le applicazioni pratiche, piuttosto che puramente teoriche. L’ispirazione per questa categoria di studi, per cui comprendere il contesto socioculturale dell’oggetto di studio è fondamentale, fu tratta dai classici della Sociologia urbana prodotti dalla Chicago School of Sociology, da cui si sviluppò l’omonimo indirizzo di pensiero sociologico. Fondamentale, in questo filone di studi, la procedura di indagine dell’Osservazione partecipante. in cui la relazione che si crea tra osservatore e osservato è un momento privilegiato e consente una conoscenza più intima dell’“oggetto” di studio. Osservare partecipando vuol dire entrare in rapporto empatico e prendere parte alla vita di chi si osserva, allo scopo di coglierne il punto di vista, la loro visione sul loro stesso mondo. Significa altresì penetrare e cogliere dall’interno la cultura altrui. L’obiettivo principale per il quale viene adottata è proprio quello di osservare la realtà studiata, colta in ogni suo aspetto e a contatto con essa. È osservazione dall'interno dato che l'incontro avviene nel medesimo contesto significativo e rappresentativo dell’oggetto/soggetto della ricerca ed è definita dall'interazione dialogica tra osservatore-osservato, facendo emergere i vari significati in considerazione di diversi punti di vista. È un ricerca indiziaria di tracce e utile strumento di confronto tra modelli culturali in cui non sono importanti i fenomeni oggettivi, bensì i significati attribuiti a essi.

    - La fotografia. Studiare la fotografia privata significa liberarsi da giudizi estetici, preconcetti, gusti soggettivi e calarsi nei panni dello storico del periodo contemporaneo che si serve sempre più spesso di fonti non tradizionali, quali i documenti visuali. La fotografia privata è stata di recente oggetto di riscoperta e di studio, anche in riferimento all’analisi in profondità delle collezioni, che hanno permesso, in alcuni casi, di ricostruire la storia di gruppi sociali. La fotografia privata documenta infatti gruppi e persone con una identità, una storia, e un proprio mondo di relazioni. Luogo della continuità, della elaborazione del ricordo, dell’attivazione e conservazione della memoria sociale, del dialogo tra le generazioni, “è forse un caso esemplare di fonte insostituibile” (G. D’Autilia, 2005). Scatto fotografico e rievocazione si intrecciano nel processo di ridefinizione dell’identità, un processo dinamico e continuo di elaborazione, condivisione e negoziazione di senso che gli individui fanno dei propri ricordi e attraverso il quale l’individuo rinegozia la sua posizione all’interno dei gruppi sociali di appartenenza. La fotografia è un prodotto culturale e una forma di comunicazione con funzioni informative, documentarie e descrittive. Proprio per queste sue caratteristiche ha avuto, fin dalla sua nascita (approssimativamente la stessa data della sociologia, prima metà dell’800), contatti con le scienze sociali fino a far nascere l’equivalenza fotografia = documento = testimonianza [15]. Come ogni forma di conoscenza, la fotografia, è un’impresa umana, volontaria e selettiva, storicamente e socialmente determinata.

    - La Sociologia visuale, utilizzata per rilevare e far emergere le anomalie urbane delle società industriali e le contraddizioni dello sviluppo economico, prese le mosse dal Dipartimento di Sociologia dell’Università di Chicago (1892). La “Scuola di Chicago” fu uno dei primi e più riusciti tentativi di applicare l'osservazione empirica, partecipante o meno, come metodologia per studiare la comunità metropolitana. Avvalendosi spessissimo, per la prima volta in Sociologia, dell’utilizzo della fotografia. Il primo tentativo sistematico di definire la Sociologia visuale fu di Howard Becker che traccia le premesse teoriche sul possibile connubio fra sociologia e fotografia. L’esponente di spicco della Nuova Scuola di Chicago, ha dato un’identità alle tecniche visive qualificandole come qualitative [16].

    La Sociologia visuale è la registrazione, l’analisi e la comunicazione della vita sociale attraverso le rappresentazioni grafiche, le fotografie e i video. Essa si interessa alla funzione delle immagini nella società e a usare i mezzi audiovisivi come strumenti di ricerca. È un metodo orientato alla dimensione sociale dell’esperienza visiva. Per definire sociologico l’uso delle immagini bisogna essere a conoscenza di alcune informazioni fondamentali grazie alle quali è possibile valutare correttamente l’immagine: chi ha scattato la foto, in quali circostanze, con quali scopi, ma soprattutto il contesto socioculturale in cui è stata prodotta e i termini motivazionali.

    La sociologia visuale è una sociologia più visuale, è un punto di vista della sociologia che recupera la centralità della dimensione e dell’esperienza visiva nel fenomeno sociale che lavora con e sulle immagini, considerandole veri e propri dati, allo stesso modo delle parole e dei numeri, contribuendo così ad ampliare la “cassetta degli attrezzi” dello scienziato sociale.

    Anche in questa sede si è proceduto lavorando con entrambe gli approcci; la prima è l'area della ricerca vera e propria che riguarda la produzione o l'uso di immagini come dati per l'analisi dei comportamenti o come strumenti per raccogliere le informazioni. Per tentare di delinearne un profilo più preciso, è necessario indicare le tecniche utilizzate:

    - la foto-intervista (o intervista basata su foto-stimolo - photo-elicitation). Può essere considerata una variazione dell’intervista semi-strutturata, con la differenza che, rispetto a quest’ultima, si basa sulle immagini e non su una traccia di domande. L’immagine diviene il focus della comunicazione e avviene uno scambio guidato dal ricercatore, che sceglie le fotografie a suo avviso più significative e rappresentative del mondo del soggetto o delle tematiche su cui deve intervistarlo.

    Fot. 4. Il mercato di via Guido Biagi a Natale (1968)

    «Il mercato nasce nel ’62 con 4 banchi di frutteria, 2 di macelleria, 2 pane e pasta, 2 alimentari, una pescheria, un vini e oli, una merceria, un negozio di casalinghi e uno di abbigliamento. Abbiamo iniziato la nostra attività nei locali sotto i portici. Prima ancora Enza produceva direttamente verdura e fichi che vendeva al mercato della Garbatella. Nel 1964 abbiamo acquistato uno spazio all’interno del mercato per vendere la pasta all’uovo. Nel 1972 lo abbiamo trasformato in salumeria. Prima c’erano i banchi “a gabbia”, nel 1988 lo hanno rimodernato mettendo i box che sono molto meglio. Eravamo tutti mestieranti: si facevano delle salse particolari, disossavamo i prosciutti (ora lo fanno i macchinari), sfilettavamo le aringhe… Mi ricordo che sotto il periodo di Natale facevamo una grande mostra della merce, un’esposizione. Tra i banchi non si passava per la gente che si accalcava in fila, era talmente affollato che dovevamo prendere dei commessi! Nel 2000 abbiamo ceduto la licenza, quasi in concomitanza con l’apertura della GS e della conseguente diminuzione di clientela. Ultimamente ci sono entrato un paio di volte e mi viene da piangere a vederlo com’è… Forse a rovinare tutto è stata la liberalizzazione delle tabelle merceologiche, o forse il fatto che non siamo mai riusciti a creare un consorzio. Attualmente, forse, andrebbe utilizzato diversamente» [17].

    Fot. 5. Acilia (Roma), Villaggio INA CASA, Stazione di Casal Bernocchi (1974) Fonte: Ed. Scarponi Enzo Cart. Prof., Villaggio Ina Casa Acilia (Roma) - N. 15

    «Pietro Roberto Butteroni venne a vivere a Casal Bernocchi, dove gli fu assegnata la casa popolare INA CASA poi GESCAL, nel 15 agosto del 1961. Lo spirito che lo contraddistingueva lo portò a diventare presidente di quartiere ad unanimità fino al decesso (26 novembre 1979). Non c’era farmacia né mercato, nessun genere di negozi né tantomeno il campo sportivo e la scuola era situata in un garage. Si andava a piedi fino ad Acilia per fare la spesa, non c’erano gli autobus ed erano solo 10 le famiglie che possedevano una macchina. Butteroni riuscì a coinvolgere tutta la popolazione a occupare una parte dei binari: uomini e donne con bambini si sono insediati per giorni sulle rotaie bloccando il passaggio del trenino, intervennero addirittura polizia e carabinieri! Finalmente, dopo 10 anni di lunghe trafile burocratiche, danno il via ai lavori per la nostra stazione. Ma, ad uno stato ormai avanzato, questi vengono fermati dalla sopraintendenza che la dichiarò “zona archeologica” perché negli scavi fu trovato un Mammut. Così, di notte, 3 temerari (Butteroni in testa) trafugarono il reperto e come un miracolo la stazione fu inaugurata nel Natale del 1971. Le lotte per far si che le cose migliorino si vincono se c’è unione e se si vuole il bene comune! Bisogna crederci, sinnò…» [18].

    In riferimento alla sociologia sulle immagini, la ricerca non avviene con l’ausilio di queste ultime, ma si sviluppa su di esse. Gli oggetti di analisi diventano, in questo caso, la comunicazione visuale, ovvero il modo in cui i soggetti comunicano tra loro per mezzo delle immagini e, nello specifico, la funzione che queste svolgono nella società. Tecnica che utilizza le immagini come dati sociali (visuali) preesistenti al lavoro di ricerca e quindi da esso indipendenti. All’interno del disegno della ricerca, prevede uno step focalizzato esclusivamente sulla raccolta e sullo studio di materiale, in cui l’immagine non è utilizzata come strumento privilegiato d’analisi, bensì come dato da interpretare [19]. Essa agisce principalmente in due aree metodologiche:
    - l’interpretazione e l'identificazione dei significati simbolici delle immagini che sono state prodotte nel corso di un'attività sociale;
    - la spiegazione, vale a dire il processo di identificazione e analisi dei significati simbolici/culturali/storici di immagini che sono state prodotte allo scopo di raccontare una storia finalizzata a ricostruire l’esperienza di un mondo sociale.

    Fot. 6. Pubblicità

    Nel campo dell’interpretazione ha un posto rilevante la classificazione analitica delle dimensioni visuali del mondo sociale:
    * dati a due dimensioni (immagini e rappresentazioni). Rientrano qui, ad esempio, le analisi della pubblicità, delle arti visive, dei segnali stradali, delle insegne, delle illustrazioni.
    * dati tridimensionali: ambienti e oggetti nelle interazioni con le persone che ne fanno uso.
    * dati visuali vissuti, cioè i luoghi e gli ambienti in cui le persone vivono e si muovono quotidianamente: spazi domestici, giardini, spazi pubblici, negozi, istituzioni, traffico urbano. Il focus dell’analisi è l'uso di tali spazi da parte delle persone e le interazioni sociali che in esse avvengono.

    Fot. 7. Raccolta firme contro la costruzione delle “Torri”

    L’ultima tecnica visuale utilizzata è l’analisi di tipo before and after, volta a studiare il cambiamento (in ambito urbano e in rapporto a dinamiche e rituali sociali). Quando si analizzano i mutamenti risulta molto utile confrontare le immagini fotografiche del passato con quelle ricreate ad hoc per la ricerca, che consistono nel ri-fotografare gli stessi luoghi. Questa caratteristica ne fa il punto di incontro tra il lavoro su e con le fotografie; infatti il lavoro comprende analisi documentaria e del contenuto, la produzione di indicatori visivi.
    Primi risultati

    Dalle testimonianze di testimoni privilegiati e significativi emergono alcune importanti carenze strutturali, ma anche una forte identificazione territoriale da parte di un gruppo in un luogo determinato, geograficamente delimitato, «Casal Bernocchi è questa, la piazza, il mercato… con una parte l’Ostiense e dall’altra la Colombo». La stessa prima denominazione che ebbe la zona, “villaggio”, disegna un destino condiviso, un gruppo di comunità domestiche insediate in stretta vicinanza le une con le altre, costituisce il tipico gruppo di vicinato. La comunità di vicinato è il fondamento originario del comune, cioè di una formazione che viene fondata in senso pieno soltanto attraverso la relazione con un agire politico di comunità comprendente un largo numero di vicinati. Inoltre esso stesso può costituire la base di un agire politico di comunità e per via di una progressiva associazione, attrarre nell’agire di comunità, o vedersi imporre come dovere dalla comunità politica, attività di ogni specie [20].

    Fot. 8. Festa dei vicini

    Significativo il ruolo e l’apporto dell’Associazione Casal Bernocchi ONLUS, costituita nel 2002 per volontà di alcuni cittadini. Senza fine di lucro, apolitica, basata sul volontariato, ha come scopo primario quello di promuovere e sviluppare iniziative sportive e di aggregazione sociale nel quartiere. Vive il quartiere e ne è parte integrante e attiva, infatti non ha una sede; si riunisce spontaneamente nei luoghi associativi del quartiere: il centro sociale e la chiesa. Possiamo considerare Casal Bernocchi una comunità nel senso Tonniesiano, Gemeinschaft: un organizzazione sociale comunitaria, fondata sul sentimento di appartenenza e sulla partecipazione spontanea, in cui non c’è ne anonimato ne indifferenza - «c’è vita collettiva, solidarietà, rapporti umani tra le persone, condivisione dei problemi [21]… c’è ancora la piazza dove si fa una chiacchierata, si affronta un problema… ci conosciamo tutti, c’è un bel clima… più che una periferia è un oasi, è vivibile. È una comunità». Dove sono presenti l’armonia, le relazioni spontanee, la cooperazione, la coesione verso scopi comuni. Una comunità di sangue - «era nato come quartiere per famiglie numerose, ancora oggi sono presenti delle famiglie allargate che continuano a vivere nella zona» – dove ci si riconosce tutti come membri, con uguali diritti e doveri – «noi della ONLUS lavoriamo con la speranza che i giovani ci diano il cambio». Il filo rosso tracciato da queste storie ci fa avvicinare ad un altro autore molto importante quando si parla di comunità; Durkheim e la solidarietà meccanica nelle società semplici. Cioè quando i sentimenti comuni e le coscienze collettive predominano sull’individuo in via del tutto accettata e volontaria. La scelta del nome della squadra di calcio locale – Circolo Vita Nuova Casal Bernocchi - conferma tali dimensioni. Il Circolo è la figura abituale della socialità ed è in rete con l’Associazione che rappresenta uno stile culturale di continuità con le modalità dominanti di socializzazione e il tessuto sociale.

    Fot. 9. Acilia (Roma), Villaggio INA Casa, Piazza S. Pier Damiani, Centro Commerciale (1977) Fonte: N. 4 - Ed. Scarponi Enzo Cart. Prof., Villaggio Ina Casa Acilia (Roma)

    All’interno del quartiere negli ultimi anni, c’è stato un percorso parallelo tra la volontà associazionistica, la rinnovata coscienza e cultura politica, la proliferazione di eventi e di nuove forme di comunicazione e affermazione della propria presenza / esistenza (siti web e creazione di materiali audiovisivi). Insomma, sembra far breccia una generale e nuova voglia di migliorare sempre di più il luogo in cui si vive, in cui ci si incontra quotidianamente e verso cui si hanno delle aspirazioni sociali verso una politica partecipata e condivisa – «si affrontano insieme le battaglie per migliorare il quartiere, per una riqualificazione del quartiere. Perché voglio vivere bene nel mio quartiere». Tutto è nato dalla lotta costante nel costruire qualcosa di importante ed essenziale, come un campo sportivo polivalente e sussidiario in modo da «creare uno spazio sociale, un punto di ritrovo del quartiere» [22].

    La riscoperta delle peculiarità locali e la valorizzazione ideologica della dimensione comunitaria può essere, pertanto, letta ed interpretata all'interno di quella richiesta di forme di ancoraggio simbolico, anche come risorse spendibili su di un piano politico, verso una “comunità locale”, cioè una collettività stabilmente insediata su un territorio preciso; in cui la base territoriale garantisce una stabilità nel tempo [23].

    Fot. 10. Il fulcro civico, piazza San Pier Damiani durante l’annuale festa di quartiere (luglio 2011)

    Dal materiale raccolto, il rapporto con l’identità collettiva è spesso sottolineato; ciò che viene messo in evidenza è che i membri di un gruppo si identificano nella collettività e che l’identità di ciascun individuo è costantemente aiutata, stimolata e sorretta dalle relazioni interpersonali che l’individuo stesso stringe con quella degli altri membri di uno stesso ambiente sociale. Questo aiuta a perpetuare e a definire i sentimenti della comunità di appartenenza, all’auto rappresentazione sociale di sé e della comunità alla quale si sente di appartenere. Casal Bernocchi può essere definita una comunità residuale, caratterizzata da una forma tradizionale di “vicinato”, permeata di solidarietà, vissuto comune, omogeneità di origine – «se un ragazzo non ce la fa a pagare la quota popolare di iscrizione al circolo sportivo, può venire lo stesso ed è trattato alla stessa maniera di tutti. Si fa per una cosa di solidarietà, per creare un qualcosa per gli anziani, per i ragazzi con handicap…».

    L’aderenza con i concetti di comunità urbana sono riscontrabili e valutabili: la percezione determinata da una comune appartenenza – «qui proveniamo tutti dagli sventramenti del centro storico, dalle baracche o da lavori dipendenti» – dove il senso di appartenenza nasce in virtù della presenza di simboli (impassibilità e immobilità delle “pietre”) e della capacità di mobilitarsi per azioni comuni [24] sono segnali di un agire comune da cui dipende la continuità comunitaria – «si sono fatte sempre lotte importanti dove ha partecipato tutto il quartiere: per far fare la fermata del treno, per far nascere il centro sociale, il campo».

    Casal Bernocchi ha vissuto pienamente il passaggio da periferia precaria ed emarginata degli anni ’70, alla periferia del coinvolgimento e delle richieste di servizi degli ultimi anni ’80, sino a giungere ad essere una collettività con propri valori e interessi, caratterizzata dall’integrazione e da scopi esterni. Tutto ciò produce un’identità comune di riferimento, iniziata con le storie di necessità abitative similari dei primi cittadini / assegnatari.

    «Siamo impegnati in una questione sociale, non lasciare i ragazzi per strada, dare la possibilità a tutti di fare attività sportiva… per un discorso di comunità» [25].

    Considerazioni conclusive

    Perché legare l’immaginario a questo genere di ricerca? Alla fotografia viene riconosciuta una grande utilità euristica, ma per confermarla ci deve essere un uso motivato della fotografia stessa; motivazioni dettate dagli scopi e dalle intenzioni del fotografo/osservatore/ricercatore. In effetti, ciò che differenzia le immagini iconografiche non è tanto il contenuto quanto le interpretazioni e gli utilizzi che se ne fanno.

    “La realtà umana, non può trovarsi nella fotografia, ma nell'intenzione del fotografo. Se non c'è l'intenzione, cade anche il significato, cioè il criterio selettivo, il dato emergente, la variabile decisiva. Resta solo il gesto - clik [...]” [26].

    I significati che le immagini assumono, solo convenzionalmente possiamo definirli oggettivi, dato che dipendono da meccanismi percettivi interiorizzati socio-culturalmente. La fotografia, dotata della doppia natura mezzo di riproduzione e di espressione, non è l’esatta riproduzione della realtà. Non restituisce la realtà oggettiva, ma spezzoni soggettivi della realtà. Una soggettività, variabile nel tempo e nelle circostanze, che passa attraverso il fotografo e il fruitore del prodotto. La stessa didascalia suggerisce delle interpretazioni e può funzionare da rinforzo al messaggio visivo perché ne restringe il ventaglio delle possibilità.

    Da qui la polisemia dell’immagine, legata ai valori culturali della società e all’interazione fra oggetto fotografato, soggettività del fotografo e caratteristiche tecniche della macchina, cui va aggiunta la soggettività dell’osservatore. Esse sono capaci di generare molti significati ed interpretazioni nel processo di osservazione: una volta fatta, la foto si stacca da chi l'ha scattata e diventa il prodotto di una tripla interpretazione, dell'osservatore, dell’osservato e del fruitore dell’immagine.

    Il contesto socioculturale tra l’altro, in cui l’atto del fotografare e quello dell’interpretare avvengono, può porre dei limiti a tali soggettività.

    In conclusione, vorrei prestare particolare attenzione al filone degli archivi e dei centri di documentazione, che sembra aver preso molti meriti nell’ambito della Sociologia visuale. Archivio nel senso di raccogliere, conservare, catalogare e restaurare per offrire in consultazione, preservare e rendere fruibile la memoria storica visiva. Opera che concede i mezzi e i termini per il confronto di accadimenti passati e del dialogo tra le generazioni, indispensabili per la ricostruzione dell’identità. Negli ultimi anni è aumentato il riconoscimento per il trattamento descrittivo delle collezioni fotografiche, fonti d’interesse per la didattica e la ricerca. L’immagine, ai fini della ricerca storica e sociale, è utile che venga descritta e custodita per un suo recupero all’interno di un giacimento più vasto; un archivio fotografico.

    In particolare appare utile nell’analisi dei documenti, soprattutto quelli a sfondo storico, poiché, studiando il contenuto delle immagini, si può allargare la dimensione visuale e andare oltre il materiale cartaceo e il dato statistico. Il recupero degli archivi fotografici è il campo in cui la sociologia visuale dovrebbe essere applicata al fine di salvare tali fondi di memoria, ricostruzione e comprensione. L’intento principale è proprio quello di valorizzare, attraverso la componente visiva, materiale informativo importante come eredità conoscitiva e interpretativa per il futuro. In questo caso la componente visiva diviene fondamentale per facilitare l’intero lavoro

    Album quindi, come luogo della continuità, della elaborazione del ricordo, dell’attivazione e mantenimento della memoria sociale, affinché l’esperienza di vita di ognuno rimanga fissata temporalmente più a lungo.

    Funzioni degli album/archivi:
    - Appartenenza culturale
    - Interazione
    - Presentazione di sé
    - Memoria
    - Documentazione

    La fotografia privata documenta, al di là delle sue stesse intenzioni, le trasformazioni del paesaggio urbano, delle periferie, il rapporto tra città e campagna, fornisce informazioni per la storia sociale e della cultura materiale, per la storia degli ambienti della vita e del lavoro.

    Le immagini private permettono una ricostruzione dei momenti storici in una prospettiva dal basso. Sono monumenti in formato ridotto, per le quali non era previsto un uso pubblico, e per di più documenti che non prevedevano di finire nel laboratorio dello studioso; esse rappresentano un fiume sotterraneo, da esplorare e comparare e possono svelarci il volto inedito anche delle esperienze.

    L’idea che si vuole proporre è una Mnemoteca. È andata crescendo in questi anni – fenomeno impensabile anche solo un decennio fa – l’offerta di opportunità locali di racconto e di ascolto reciproco, non solo come possibilità di conservazione, ma anche come possibilità di restituzione al territorio del patrimonio memoriale, con intenti educativi. Si intende realizzare la ricostruzione della memoria individuale e di quelle diffuse sul territorio, raccoglierle, valorizzarle, rimetterle nel circuito costitutivo dei racconti di una comunità. Importante dal punto di vista culturale e politico, è il sostegno degli Enti Locali a queste iniziative, sospinte da un desiderio di rifondare il senso della cittadinanza, attraverso la memoria e il suo racconto.

    Delle “biblioteche della memoria”, veri musei vivi dello scambio di racconti memoriali, che offrono una pluralità di testimonianze, contro la selezione e l’abuso della memoria tante volte realizzata per calcoli più o meno nascosti; archivi in cui raccogliere e custodire le vicende, gli episodi, le esperienze che, nei loro molteplici significati, non vanno nascoste o stravolte, ma interpretate in modo sempre nuovo. Si tratta di luoghi collettivi, in cui coltivare e diffondere l’etica biografica e autobiografica del rispetto della pluralità, del non schiacciare le storie in una sola dimensione precostituita; esempi straordinari di racconti, che non appiattiscono le vicende esistenziali, perché una vita è sempre un coacervo di tante storie: dell’infanzia e del lavoro, dello sfruttamento e del riscatto, delle donne e degli uomini nelle lotte o nel divertimento, storia dei sentimenti familiari, dei legami d’amore, ma anche delle scelte politiche e civili, di permanenze e migrazioni. Si tratta di raccogliere e riascoltare queste storie di vita. “Vere”, perché fuoriescono dagli schemi ideologici, dalle interpretazioni prefabbricate: per questo ci parlano, colpendo direttamente la nostra emotività, le nostre coscienze, e mettono in moto la nostra immaginazione e la nostra stessa voglia di racconto. C’è da scoprire un mondo pieno di tante sfaccettature all’interno di una sola vita, perché questa riunisce innumerevoli fili che si intrecciano a molti altri. Tali storie naturalmente devono continuare ad essere rievocate e narrate, perché la vita e il suo senso vanno rinnovati nel lavoro sul passato-presente da “ri-guardare”.

    Tale percorso di ricerca-azione intende:
    - Una cultura (auto)biografica anche per riscoprire il senso dell’appartenenza ad una comunità, ricomponendolo con le trasformazioni del paesaggio urbano;
    - Conservare le memorie dei luoghi e dei loro abitanti, in un luogo fruibile da parte di cittadini, scuole, istituzioni sociali e culturali e studenti;
    - Mettere in relazione giovani e anziani di diverse generazioni in un progetto di ricostruzione della storia comune, attraverso il racconto di “storie di vita” e di “storie di luoghi”.

    Mnemoteca come luogo riconosciuto dove custodire, ordinare e consultare:
    a) autobiografie e interviste autobiografiche di persone legate al territorio;
    b) ricerche, studi e tesi di laurea che documentino e rappresentino i cambiamenti dei suoi paesaggi.

    L’obiettivo è che diventasse il luogo:
    - dove restituire alle comunità dei quartieri le autobiografie e le storie di vita raccolte, anche attraverso rappresentazioni artistiche e espressive diverse (teatro, cinema, danza, musica…);
    - in cui promuovere la formazione autobiografica e la “pedagogia della memoria”, sia con incontri specifici che con seminari, rivolta in particolare alle scuole del Municipio;
    - in cui potranno incontrarsi insegnanti, operatori sociali e culturali, per confrontarsi sui problemi del territorio ed i temi dell’educazione permanente e degli adulti;
    - in cui aiutare quanti vogliano scrivere la propria autobiografia;
    - laboratoriale per le ricerche bibliografiche, archivistiche ed iconografiche al fine di raccogliere tutto il materiale di documentazione relativo ai mutamenti del territorio.

    Fot. 11. Il “villaggio” fa da sfondo a Anna Magnani sul set del film “Mamma Roma” di P. P. Pasolini (1962) Fonte: Mostra permanente per il cinquantenario (luglio 2011)

    Il progetto nasce dall’esigenza largamente condivisa di conoscere i cambiamenti di un territorio nel corso del tempo, i modi in cui sono stati rappresentati nell’urbanistica, nella letteratura, nella pittura, nel cinema… ma, soprattutto, nelle molteplici descrizioni delle autobiografie e delle storie di vita dei suoi abitanti. Il confronto delle storie collettive con le memorie familiari ed individuali potrebbe portare alla (ri)scoperta e valorizzazione di valori morali e culturali comuni. Non solo potrebbe svilupparsi un nuovo senso di appartenenza ad una comunità, ma anche una maggiore consapevolezza per far fronte concretamente alle nuove emergenze che, sempre più spesso, affiorano nei quartieri delle grandi città. La ricognizione dovrebbe essere svolta da un associazione di quartiere, avvalendosi del partenariato dell’Istituzione delle Biblioteche di Roma, dell’adesione delle scuole materna, elementare, media locali e del patrocinio del XIII Municipio. Ad oggi, il progetto ha partecipato a livello nazionale e internazionale: a due bandi di concorso, tre convegni ed è stato oggetto di pubblicazioni.

    Note

    1 Per rappresentazioni sociali si intende un “sistema di valori, di nozioni e di pratiche con una duplice vocazione. Innanzi tutto instaurare un ordine che dia agli individui la possibilità di orientarsi nell’ambiente sociale, materiale e di dominarlo. Poi assicurare la comunicazione tra i membri di una comunità offrendo a essi un codice per denominare e classificare in maniera univoca le componenti del loro mondo e della loro storia individuale”. L. Gallino, Dizionario di sociologia, TEA, Milano 2000, p. 531.
    2 M. Halbwachs, La memoria collettiva, Edizioni Unicopli, Milano 1987, p. 20.
    3 H. Bergson, Opere, Mondadori, Milano 1986, p. 100.
    4 M. Halbwachs, I quadri sociali della memoria, Ipermedium, Napoli 1997, p. 82.
    5 Cfr. P. Jedlowski, Memoria, esperienza e modernità, Franco Angeli, Milano 2002.
    6 M. Halbwachs, I quadri sociali della memoria, Ipermedium, Napoli 1997, p. 23.
    7 Per un approfondimento: F. Ferrarotti, La tentazione dell’oblio, Laterza, Bari-Roma 1993.
    8 M. Baliani, Nel regno di Acilia, Rizzoli, Milano 2004, p. 30.
    9 Rif. I. Insolera, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica 1870-1970, Einaudi, Torino 1993.
    10 Termine che deriva dal protomediterraneo o preindoeuropeo ficus con terminazione etrusca na. Come afferma Plinio il Giovane nella descrizione che fa nel I sec. d. C., in questa parte della città c’era un terreno particolarmente favorevole, se non unico, alla coltivazione dei fichi e dei gelsi: “Si incontra una strada in certi tratti arenosa, un po’ molesta ma corta e buona per chi va a cavallo, vario e qua e là il paesaggio; a tratti il cammino è stretto a cagione dei boschi, a tratti si allarga in vastissime praterie; ci sono molte greggi ovine, mandrie di cavalli e armenti bovini” (Lettera ai familiari 2, 17). Rif. Professor Gino Zaninotto.
    11 A Casalbernocchi erano attive numerose sorgenti e sono conservate diverse grotte ad uso della transumanza. Sono stati rinvenuti pavimenti in mosaico, un’ascia di bronzo e monete del tempo di Nerone. In base ai rinvenimenti archeologici – tra cui numerose punte di freccia lavorate – qui è testimoniata la presenza dell’Uomo di Neanderthal (60.000 anni fa). Nel corso dei millenni il territorio rappresentò, con il suo pianoro ondulato, inciso da affluenti minori del Tevere (Fosso di Malafede, Fossa del Fontanile, Refolta) un habitat ideale per gli insediamenti dell’uomo. Fonte: Museo della Via Ostiense.
    12 Cfr. S. Abbadessa (a cura di), Sguardi sulla Campagna Romana, Mercanti editore, Roma 2006. Centro Giano si estende al di là della via Ostiense e vi appare più evidente l’assenza di un piano regolatore. Sul finire degli anni ‘70 Don Luigi Di Liegro sceglie di diventare pastore della nascente piccola borgata. La sua scelta nacque dalla convinzione che un prete non è tale senza una comunità da servire e a cui appartenere, e anche dalla sua inclinazione a leggere la realtà con lo sguardo di chi ne abita le periferie. Di questa comunità don Luigi rimarrà la guida spirituale, ma anche umana e sociale, fino alla fine della sua vita. Fonte: Fondazione Di Liegro.
    13 P. P. Pasolini, Una vita violenta, Garzanti, Milano 1959, p. 113. Via di Ponte Ladrone è un nome che risale almeno al Medioevo, quando il ponte romano sulla via Ostiense, sotto il quale passava il torrente Refolta, costituiva il nascondiglio per i latrones (di cui Mars Ficanus ne è il patrono) che assalivano i viandanti. “L’ingresso dalla via Ostiense è presenziato da un ricordo ingombrante: l’agguato mortale del 21 ottobre 1981 nel quale furono uccisi Francesco Straullo della Digos e l’agente Ciriaco Di Roma. A trucidarli furono i NAR, terroristi di destra, benché Casalbernocchi fosse ritenuto a lungo ‘’patria’’ di attivisti e simpatizzanti dell;ex PCI e fiancheggiatori delle BR”. R. Filibeck, Casalbernocchi, il degrado cancella anche la memoria, in Sette News Litorale, 8 maggio 2009.
    14 Rif. (a cura di) M. Guccione, M. M. Segarra Lagunes, R. Vittorini, Guida ai quartieri romani INA Casa, Gangemi Editore, Roma 2002.
    15 Cfr. F. Ferrarotti, Dal documento alla testimonianza. La fotografia nelle scienze sociali, Liguori editore, Napoli 1974.
    16 “Think of a camera as a machine that records and communicates much as a typewriter does. People use typewriters to do a million different jobs: to write ad copy designed to sell goods, to write newspaper stories, short stories, instruction booklets, lyric poems, biographies and autobiographies, history, scientific papers, letters. The neutral typewriter will do any of these things as well as the skill of its user permits. Because of the persistent myth that the camera simply records whatever is in front of it (about which I will say more below), people often fail to realize that the camera is equally at the disposal of a skilled practitioner and can do any of the above things, in its own way. Photographers have done all of the things suggested above, often in explicit analogue with the verbal model.”. H. S. Becker, 1974, Photography and Sociology, in “Studies in the Anthropology of Visual Communication”, n. 1, Chicago University Press, Chicago 1974, p. 3.
    17 14 maggio 2011, testimonianza di Enza Carosi (dipendente della contessa Bernocchi e abitante nell’omonimo casale) e Italo Albano, possessori del box n. 6 al mercato coperto di Casal Bernocchi.
    18 Mara Butteroni, 30/05/2011.
    19 La distingue dalla sociologia con le immagini il fatto che questa prevede la costruzione di immagini ad hoc nel processo di ricerca, ovvero prodotte nel corso e ai fini della ricerca stessa.
    20 Cfr. Martinelli F. (a cura di), Città e campagna: la sociologia urbana e rurale, Liguori editore, Napoli 1988.
    21 “Se non fosse per l’incuria del verde pubblica e la stragrande maggioranza dei marciapiedi fatiscenti e di alcune strade con il manto piuttosto male, il quartiere Casalbernocchi potrebbe essere quasi definito un piccolo gioiello, rispetto alle altre borgate nate spontaneamente nel cuore del XIII Municipio. Sorto nei primi anni ’60, circa un ventennio dopo la fondazione della Borgata Acilia, inizialmente era conosciuto come il Villaggio INA CASA. Questo per la presenza di molti palazzi costruiti secondo i criteri dell’edilizia economica popolare. A parte le storiche abitazioni il quartiere non fu dotato dei servizi essenziali e delle infrastrutture prima di quasi una decina di anni. Via via sono arrivati il mercato comunale, le scuole. A seguire la farmacia, la stazione (1968) e la chiesa (1970). Nonostante l’’altissimo interesse archeologico’, nulla è stato fatto per proteggere la zona. Di questi siti ritenuti di ‘potenziale pregio archeologico’ resta solo uno sbiadito ricordo e pochissimi documenti storici. Un tratto della strada che si inerpica per il quartiere è a rischio crollo e da decenni è puntellato, quasi come le macerie dei terremoti del secolo scorso. Il centro anziani e il centro sociale, che funziona a singhiozzo, sono le uniche attività comuni. Per il resto regnano incontrastati incuria e degrado. Il parco di Casalbernocchi, inaugurato nel maggio del 2007 dall’allora Sindaco Veltroni, venne dedicato alla memoria dei poliziotti trucidati a ridosso del sito. A distanza di due anni, l’area verde dotata di spazi attrezzati per il fitness e attività ludiche per i bambini si presenta già fatiscente: l’erba è alta e rende di fatto impraticabile i giardini. Pur non qualificandosi come “quartiere dormitorio”, appare una entità con cui è difficile entrare in dialogo”. R. Filibeck, Casalbernocchi, il degrado cancella anche la memoria, in Sette News Litorale, 8 maggio 2009. “A causa di un irresponsabile dei trasferimenti regionali per il 2012 la Roma – Lido rischia il collasso e l’interruzione del processo di ammodernamento. La situazione è ora insostenibile, nel corso degli ultimi tre anni la linea è decisamente peggiorata. È diminuita l’affidabilità del servizio, sono aumentati i disagi e i tempi di attesa dei treni (dai 7-8’ del 2007 agli odierni 10-15’). Il minor numero di convogli circolanti e la mancanza di personale sono la causa del disagio che i pendolari vivono ogni giorno. I numeri delle corse saltate parlano chiaro: 484 (nel 2009), 1225 (2010), 1514 (nei primi 8 mesi del 2011)”. Circolo PD Acilia e Ostia Levante, Emergenza Roma-Lido, 14 novembre 2011.
    22 L’inaugurazione ci fu l’1 novembre 2006.
    23 Rif. A. Farro, Sociologia delle comunità locali, Bulzoni editore, Roma 1993.
    24 Le feste (patronali – San Pier Damiani -, di quartiere – In piazza Insieme e Casal Bernocchi in Festa -, dei vicini), i comitati di quartiere, la ONLUS, le iniziative (Riprendiamoci il parco, Raccolte di solidarietà, Mercati di beneficienza, No alle torri, assemblee pubbliche e cittadine, questionario sulla qualità della vita e la percezione della popolazione residente.
    25 Antonio Di Bisceglia, Presidente ONLUS Casalbernocchi, 3 settembre 2008.
    26 Cfr. F. Ferrarotti, Dal documento alla testimonianza. La fotografia nelle scienze sociali, Liguori editore, Napoli 1974, p. 14.

    Bibliografia

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    Guccione M., Lagunes M. M. S., Vittoriani R. (a cura di), Guida ai quartieri romani INA Casa, Gangemi Editore, Roma 2002.
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    Macioti M. I., La disgregazione di una comunità urbana: il caso di Valle Aurelia a Roma, SIARES, Napoli 1988.
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    Portelli S., Città di parole. Storia orale da una periferia romana, Donzelli, Roma 2007.

    Convegni e Conferenze

    Living together through sport in Europe. Cross-disciplinary approaches in social sciences. 2nd Conference Agence pour l’Education par le Sport, Universitè de Strasbourg, 4/5 Novembre 2011 (Pasini M., “Living together” Casal Bernocchi)-
    Sport and Tourism. XVIth International Congress of European Committee for Sport History, Universidade Tecnica de Lisboa 12/16 October 2011 (Pasini M., History and Sport in Casal Bernocchi).
    Raccontare, ascoltare, comprendere: metodologia e ambiti di applicazione delle narrazioni nelle scienze sociali. Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale Università degli Studi di Trento, AIS, Osservatorio Processi Comunicativi, 22-23 settembre 2011.
    Sport and Leisure in Suburbs and New Towns: Communities, Identities and Interactions. Institute of Historical Research, Seminar Summer Conference, London 21/22 July 2011, (Pasini M., C.V.N. Casal Bernocchi: a neighbourhood for a team, football for a neighbourhood).
    Thinking, doing and publishing visual research. The state of the field. 25th IVSA Conference, University of Bologna, 20/22 July 2010 (Pasini M., CVN Casalbernocchi. Qualitative analysis and visual methodology for a community study).

    Concorsi

    Circolo Vita Nuova Casal Bernocchi: un quartiere per una squadra, il calcio per un quartiere, Premio Alberto Madella per la ricerca applicata allo sport, Scuola dello Sport – Coni, 2009.
    Circolo Vita Nuova Casalbernocchi: a neighbourhood for a team, football for a community, Eass Young Researcher Award “Alberto Madella”, European Association for Sociology of Sport, 2009.

    Sitografia

    www.albumdiroma.it
    www.archiviodiari.it
    www.canaledieci.it/tg/13-06-11/2pt
    www.lua.it



    Collana Quaderni M@GM@


    Volumi pubblicati

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