Memoria Autobiografia Immaginario
Maria Immacolata Macioti - Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.10 n.2 Maggio-Agosto 2012
L’IMMAGINARIO VISUALE DI UN QUARTIERE DI ROMA - STORIA, MEMORIA E IDENTITÀ ATTRAVERSO LE FOTOGRAFIE PRIVATE
Marco Pasini
paso74@libero.it
Master Teoria e Analisi Qualitativa. Storie di vita, biografie
e focus group per la ricerca sociale, il lavoro e la memoria - Università
di Roma La Sapienza; Stage a Biblioteche di Roma, L’album di Roma. Fotografie
private del Novecento; Ricercatore ne Le borgate di Roma come luoghi significativi
della memoria urbana, come risorse umane e premessa per il superamento
della dicotomia centro-periferia, diretta dalla Prof.ssa Maria Immacolata
Macioti; Ricercatore presso Labos – Fondazione Laboratorio per le politiche
sociali; Relatore in Conferenze italiane e europee; Autore di pubblicazioni
nazionali e internazionali.
Introduzione. La memoria
“Se vogliamo negare o confermare qualcosa, o anche se vogliamo completare
quel che sappiamo di un fatto di cui siamo già informati in qualche modo,
ma di cui, nonostante tutto, ci resta ancora poco chiaro qualche aspetto,
noi facciamo ricorso alle testimonianze”.
Così il sociologo francese Maurice Halbwachs apre il suo lavoro, incompiuto
e pubblicato postumo nel 1950 a Parigi, su “La memoria collettiva”, puntando
l’attenzione sul ricordo e sulla memoria. La mémoire intesa come punto
di intersezione del ricordo individuale con quadri di pensiero collettivi;
memoria come ricostruzione, trasmissione e immaginazione; memoria che
esiste grazie a una rappresentazione collettiva del tempo e dello spazio.
Memoria individuale resa possibile attraverso una “mediazione sociale”
con la memoria collettiva. In altre parole, l’individuo, che costruisce
la propria memoria con il supporto del suo ricordo e della sua immaginazione,
si trova necessariamente a dover mediare con le rappresentazioni sociali
[1] e con la memoria custodita e condivisa
della comunità alla quale appartiene, cioè con la memoria collettiva.
Esiste la memoria individuale? La memoria va sempre riferita alla collettività?
Le riflessioni di Maurice Halbwachs hanno costituito un terreno di studio
assai importante per coloro che, molto più tardi rispetto a lui, si sono
occupati di memoria sociale. I suoi lavori legati a tali tematiche, “Les
cadres sociaux de la mémoire” e “La mémoire collective”, rappresentano
il punto di inizio per percorrere un iter di conoscenza tra gli innumerevoli
e affascinanti scritti che esistono sull’argomento. Nelle opere del sociologo
francese, il rapporto tra memoria e identità collettiva è spesso sottolineato;
ciò che viene messo in evidenza è che i membri di un gruppo si identificano
nella collettività e che la memoria di ciascun individuo è costantemente
aiutata, stimolata e sorretta dalle relazioni interpersonali che l’individuo
stesso stringe con quella degli altri membri di uno stesso ambiente sociale,
di una comunità.
Halbwachs sostiene che il problema della memoria sia affrontabile unicamente
intendendo la “memoria individuale come il punto di intersezione di più
flussi collettivi di memoria” [2]. L’idea
chiave è che ricordare significa attualizzare la memoria di un gruppo
e che l’atto del ricordare non esista se non a condizione che si collochi
dal punto di vista di uno o più correnti di pensiero collettivo, di fondamentale
aiuto per una maggiore esattezza del vissuto sociale.
Se per un verso la memoria collettiva trae forza e durata dal fatto che
ha per supporto un insieme di uomini, d’altra parte sono gli individui
stessi, in quanto membri di un gruppo, che ricordano. In questa moltitudine
di ricordi comuni, che si sostengono reciprocamente, ciascuna memoria
individuale è un punto di vista che cambia a seconda del posto che occupa
al suo interno; a sua volta questo posto cambia a seconda delle relazioni
che si intrattengono in altri ambiti sociali. Infine, i ricordi assumono
senso e credibilità solo nel loro contesto: dal gruppo del vicinato alla
famiglia, dal gruppo dei pari a quello della sezione politica, dall’ufficio
alla parrocchia, fino alla scuola.
Henry Bergson, riferimento costante di Halbwachs, analizza la memoria
come fosse una funzione inconscia della psiche, riducendola a una dimensione
prettamente individuale e psicologica, che può essere conservata nella
coscienza in maniera netta, come se questa fosse una “tabula rasa” [3].
Al contrario, Halbwachs, ritiene priva di fondamento questa visione isolata
del momento mnemonico; all’opposto, egli sostiene che il passato non si
conserva affatto, ma si ricostruisce. In pratica, una volta stabilito
che ogni forma di memoria è una ricostruzione parziale e selettiva del
passato, la memoria collettiva è essenzialmente una ricostruzione del
passato in funzione del presente; i cui punti di riferimento sono forniti
dagli interessi e dalla conformazione della società presente. La memoria
non sta, infatti, nello spirito né nel cervello, ma piuttosto nella società
o meglio nella coscienza collettiva dei gruppi umani concreti. Nessun
gruppo potrebbe del resto riprodursi nella propria identità senza produrre
e conservare un’immagine del passato consolidata, almeno per alcune delle
sue linee ritenute fondamentali e valide dall’insieme dei membri.
Il problema della memoria degli individui non è affrontabile se non intendendo
la memoria collettiva come l’esperienza che “costituisce l’insieme dei
quadri che consentono la conservazione, lo sviluppo e l’esplicitazione
dei contenuti della memoria dei singoli: non c’è memoria possibile al
di fuori dei quadri di cui si servono gli uomini che vivono in società
per fissare e ritrovare i propri ricordi” [4].
L’individuo percepisce come esteriori gli eventi della vita della propria
comunità, ai quali si rapporta, per comprenderne le dinamiche, uscendo
da se stesso e dalla propria sfera personale. Questo gli permette di avere
dei punti di riferimento dati dall’esterno, che per essere tali devono
essere inerenti ad esperienze comuni, in modo da poter essere inseriti
entro la cornice della memoria e non rimanere astratti.
La memoria individuale rappresenta un punto di vista mutevole della memoria
collettiva. La prima è propriamente interiore, interna, personale e soggettiva,
che porta a considerare un “io” distinto da un “loro”; essa deve usare
la seconda, esterna e sociale, per colmare le proprie lacune. La memoria
individuale, avvolta e contenuta dalla memoria collettiva meno artificiale
e garanzia di continuità dei ricordi, non può prescindere da essa in quanto,
questa, conserva il passato che è ancora vivo nelle coscienze.
In ultimo, la memoria collettiva, permette di avere dei punti fermi comuni
che fissano e fanno prendere coscienza della propria identità, collegandola
a quella altrui, ed aiuta a perpetuare e a definire i sentimenti della
comunità di appartenenza.
Lo spazio, ad esempio, ha dei legami con la memoria collettiva. Il ricordo
può dipendere anche dagli oggetti materiali con i quali siamo in contatto,
che rimangono tali e quali e ci offrono stabilità ed ordine. Nell’ambiente
di ogni persona, nella propria casa o stanza, è impresso il suo marchio,
grazie al quale segnala la propria presenza in quel determinato luogo,
che trasforma a sua immagine e somiglianza creando una propria cornice,
in cui ogni dettaglio ha un senso solo per gli appartenenti ad essa dato
che corrispondono ad aspetti conosciuti unicamente da loro. In tutto questo
ha molta rilevanza l’impassibilità e l’immobilità delle “pietre” (edifici,
strade, vie, vicoli, mercati, muri ecc. ecc.) nei confronti dei fatti
esterni, perché la loro fissità dà identicità e l’impressione di non cambiare,
come gli stessi oggetti.
Si è detto come Halbwachs sostenesse che, se la memoria non ha un rapporto
di costante interazione con il gruppo, lentamente si dissolve perché si
interrompe lo scambio reciproco. Deve essere tenuto presente che l’individuo
rimane comunque il principale soggetto della memoria, benché essa sia
connessa ai quadri sociali, cadres sociaux, collettivi che organizzano
i ricordi del singolo anche se la loro stabilità non è permanente, poiché
si costruiscono e si dissolvono nel tempo.
Le teorie portanti del “filo mnemonico” sono dunque: il ricordare ha capacità
e funzioni di attualizzare la memoria di un gruppo sociale cui si appartiene
o si è appartenuti in passato; è un’opinione che avviene nel presente
e, che dal presente dipende.
La ricostruzione del passato corrisponde agli interessi, ai modi di pensare
e ai bisogni ideali della società presente. Tuttavia, l’immagine del passato
che ogni società si rappresenta è in ogni epoca determinata, qualcosa
che s’accorda con i pensieri dominanti della società stessa [5].
Già il linguaggio, di per sé, costituisce il livello più elementare di
questi condizionamenti e dipendenze: “le convenzioni verbali costituiscono
il quadro contemporaneamente più stabile e più elementare della memoria
collettiva” [6]. In effetti, da sempre,
le fonti orali rappresentano materiali documentari e informativi, spesso
importanti, a volte insostituibili. Le forme di linguaggio sono informazioni
elaborate dai filtri della soggettività della memoria individuale, che
permettono di dialogare e di mediare un ricordo. Ci si rifà, nuovamente,
alla vita di relazione, utile alla trasmissione.
All’interno della memoria individuale, non si può non considerare la stretta
connessione che esiste tra ricordo e immaginazione: la memoria individuale
è sostenuta dall’immaginazione e dalla rappresentazione sociale di sé
e della comunità alla quale si sente di appartenere; tutto ciò produce
un’identità comune di riferimento.
Questi i concetti teorici che fanno da sfondo al progetto di ricerca che
in questa sede si descrive, seppur in modo breve e sicuramente non esaustivo;
mantenendo sempre alta l’attenzione verso l’altra faccia della memoria:
l’oblio [7].
Da Maurice Halbwachs e la sua critica all’ottica Bergsoniana, ai recenti
dibattiti che vedono scrittori e storici attualizzare temi che da sempre
sono considerati centrali dagli studiosi delle scienze sociali, la memoria,
nella molteplicità dei suoi aspetti, è interdisciplinare nel senso di
non poter essere oggetto di studio di una sola disciplina; è un fenomeno
controverso e contraddittorio anche all’interno delle singole discipline
che se ne occupano.
Nel caso della sociologia e più specificamente della sociologia qualitativa,
la memoria assume un’importanza imprescindibile per il ricercatore; il
quale si affida completamente ai ricordi delle persone. Essa può rappresentare
un problema, dato che spesso risulta essere labile e può essere distorta
da dimenticanze o mitizzazioni, più o meno volontarie, nei fatti ricordati.
Ostacoli che derivano dal fatto che, come detto in precedenza, è un processo
attivo che ricostruisce il passato con gli occhi del presente.
Contesto di analisi
Fot. 1. Acilia, Villaggio INA CASA - Panorama - via Fabiano Landi (1964)
Fonte: Ed. Scarponi Enzo Cart
“Adesso il maestro indica sulla mappa un puntino minuscolo, invisibile,
sta parlando proprio di questi posti nostri, forse ci è arrivato dall’ultima
guerra, con tutto il tempo che gli americani c’hanno messo per spostarsi
da Anzio a Roma, passando pure di qui, con i bombardamenti fatti tra Malafede
e Acilia. […] Durante gli scavi per fare le fondamenta hanno ritrovato
sotto terra due sarcofaghi romani ancora intatti. Prima dei romani qui
c’erano capanne e palafitte, basta scavare qui intorno e si troverebbe
un sacco di cose antiche, tombe, pezzi di case, statuine” [8].
Le borgate nacquero per risanare la vecchia Roma; delle dodici ufficiali
sorte tra il 1924 e il 1940, le ultime quattro - Acilia, Trullo, Primavalle,
Quarticciolo - erano fuori dai confini del piano regolatore del 1931.
Esse sono giuridicamente “nuclei edilizi”. Tali nuclei non furono costruiti
secondo dei piani, la delibera governatoriale non riconosceva loro altra
legislazione che il giudizio insindacabile dell’amministrazione. Centinaia
di ettari furono così sottratte a qualsiasi pianificazione urbanistica
e dentro vi sorsero borgate ufficiali, baraccamenti e lottizzazioni. Tra
il 1935 e il 1955 vi andarono ad abitare circa 200.000 persone. Protagonista
dell’edilizia statale degli anni ’50 fu l’Ina-Casa, istituita con la legge
Fanfani (28 febbraio 1949, n. 43) che utilizzò soprattutto i fondi internazionali
Erp (European Reconstruction Program). Si avviò così una politica edilizia
su vasta scala che comprendeva l’estrema periferia romana [9].
Fot. 2. Lavori in corso Fonte: ONLUS Casalbernocchi
Nell'Italia del secondo dopoguerra, obiettivo del piano era incrementare
l'occupazione operaia attraverso la costruzione di case per lavoratori.
Gli alloggi realizzati rispondono a un modello urbano e sociale ben preciso,
quello del quartiere: articolazione tra spazio individuale e collettivo;
oggetto di studio privilegiato della ricerca architettonica, urbana e
sociale. A lungo ignorato dalla storiografia, in anni recenti si è assistito
ad una vera e propria riscoperta del piano Ina Casa, nato per affrontare
problemi ancora oggi attuali.
Il quartiere di Casal Bernocchi è sorto in epoca recente; nasce ufficialmente
nel 1961 (nel 2011 si è festeggiato il cinquantenario) con la costruzione
di un complesso edilizio proprio da parte dell'INA Casa. Il suo nome attuale
gli è stato assegnato posteriormente alla sua edificazione. Inizialmente
e provvisoriamente denominato, appunto, “Villaggio Ina Casa”, successivamente
cambia il nome in quello attuale per via della presenza di un casale di
proprietà della famiglia Bernocchi. L’appellativo deriva, infatti, dalla
contessa Bernocchi, rimasta vedova nel 1939 e proprietaria dell’appezzamento
agricolo che cedette all’INA-CASA per farvi costruire case per lavoratori.
Questa zona un tempo era occupata da villae romane (una di queste, del
III-II sec. A. C., appartenente al senatore Lucio Fabio Cilone) e, prima
ancora, da capanne di abitatori preistorici. Questi luoghi erano chiamatati
“Ficana” dal fatto che vi era la coltivazione spontanea di fichi [10].
I reperti archeologici rinvenuti collocano gli eventi storici del territorio
– formato dalle lacinie (promontori) Malafede e Casal Bernocchi - con
i primi insediamenti di cinque popolazioni pre-latine della “cultura appenninica”,
con le attività delle popolazioni latine di Alba Longa (che attraverso
l’odierna via Ostiense svilupparono i commerci con gli etruschi utilizzando
il corso d’acqua detto “Fosso di Malafede”), con le testimonianze della
Roma monarchica, alla fondazione della città di Ostia [11].
Agli inizi del 1900, come già prospettato dallo stato Pontificio del 1700,
ci fu un ampio progetto di bonifica agricola per via delle paludi che
causavano malaria (da cui gli appellativi “Malafede” e “Osteria di Malpasso”),
i cui segni si rilevano nei casali – di Malafede, Conti Caproni, Manzolini,
Bernocchi e Giano - che ospitavano gli agricoltori [12].
In ottemperanza alla “legge Fanfani”, sugli ex lotti agricoli, l’Ina-Casa
realizza il complesso edilizio. Gli appartamenti furono assegnati, tramite
concorso a punteggio, alle più disparate categorie di lavoratori e di
impiegati dello Stato (Esercito, Pubblica Istruzione, Foreste, Monopòli,
Italgas, operai specializzati, Poligrafico dello Stato) come pure ai senza-tetto.
“Ma ecco che un giorno cominciarono a impiastrare di palazzi tutto lì
intorno, tra le marane: era un’impresa dell’INA Case, e le case cominciarono
a spuntare, sui prati, sui monta rozzi. Avevano forme strane, coi tetti
a punta, terrazzette, abbaini, finestrelle rotonde e ovali. […] C’erano
sei o sette palazzine, storte, di sguincio, dipinte di rosa scuro, con
delle porte dove ci s’arrivava facendo 5/6 scalini, e tante balaustre
a zig-zag che le univano fra loro e poi terrazzine a cui attraverso piccole
scalinate si univano altre terrazzine. […] E tutt’intorno, i prati. Più
in giù c’era un vecchio cascinale, e, dall’altra parte, isolata in uno
spiazzetto, c’era una chiesa, piccoletta. […] Al centro dell’INA Case,
una costruzione bassa ch’era il mercato. […] Tommaso ce lo sapeva che
all’INA Case abitavano due tipi di persone: da una parte impiegati dello
stato, che avevano avuto casa attraverso le loro aziende, tra loro anche
ragionieri, geometri e gente per bene. Dall’altra parte c’erano quelli
che avevano abitato nei tuguri e nelle casette, a cui ogni tanto il comune
assegnava una casa, e che era tutta gente morta di fame o della mala”
[13].
Fot. 3. Acilia – Villaggio INA CASA – Mercato Coperto (1964) Fonte: Ed.
Scarponi Enzo Cart. - N. 12
Il quartiere ha un’esclusiva destinazione urbanistica “residenziale”,
completata da Edifici specialistici, le strutture di servizio: la scuola
Elementare e Materna “La Crociera”, la chiesa San Pier Damiani (in onore
del Cardinale e Vescovo di Ostia – 1007/1072), la stazione ferroviaria,
il mercato coperto. Dal punto di vista urbanistico l’insediamento, progettato
su un pendio collinare, si sviluppa con un degradare degli edifici alti
posti in sommità verso le case basse a valle. Singoli edifici, strade
e piazze sono caratterizzati da aree verdi di pertinenza. La tipologia
edilizia è costituita da case “a grappolo”, torri, case basse, edifici
e case in linea [14]. Le costruzioni
non presentano disegno uniforme. Furono, infatti, scelte varie gamme di
volumi e di colori, in prevalenza il rosso; non furono eseguiti sbancamenti,
ma venne rispettata, per quanto possibile, la conformazione fisica della
collina. A ridosso del nucleo originario, nella parte alta l’INA-Casa
ha fatto erigere una “zona residenziale”, composta da un centinaio di
villette.
Tab. 1. Dati descrittivi Fonte: Laboratorio di Urbanistica Paesaggio e
Territorio, Università di Parma, 2009
Situato nel XIII Municipio del Comune di Roma, oggi conta circa 15.000
abitanti su una superficie approssimativamente di 400 ettari.
Metodologia utilizzata
Figura 1. Territorio di Casal Bernocchi Fonte: Comune di Roma, 15° censimento
della popolazione, delle abitazioni, delle industrie e dei servizi (giugno
2011)
Ricostruire la storia, la memoria e l’identità del quartiere per mezzo
del materiale visuale e biografico; interviste accompagnate dalle fotografie
private e dalla documentazione storica. In questa maniera si cerca di
comprendere ed interpretare l’immaginario che si ha di un determinato
luogo e vissuto. Memoria e autobiografia, quindi, attraverso la visione
di sé e come questa viene elaborata e raccolta in contesti culturali e
sociali. Sviscerare come tali narrazioni iconografiche vengano influenzate
e l'immaginario sociale diviene modalità di riproduzione delle rappresentazioni
individui-società. Addentrarsi nel ricordo autobiografico grazie ad un
approfondimento nella testualità della scrittura di sé per mezzo della
luce (foto-grafia). Si intende dare un train de union micro-macro tra
l’individuo e il contesto sociale, portando le storie private nello spazio
pubblico.
In sociologia l’approccio qualitativo prende in esame i documenti privati
quali diari, lettere e fotografie. La research design di questo progetto
di ricerca dal basso, è concentrata principalmente sulle esperienze e
i costrutti dell’approccio qualitativo, più precisamente di case study,
Community studies, della Sociologia visuale.
- Lo studio di caso è uno dei diversi modi di fare ricerca delle scienze
sociali. Si tratta di un intenso studio su un singolo gruppo o comunità.
Piuttosto che utilizzare campioni e seguire un rigido protocollo per esaminare
un numero limitato di variabili, il metodo case study analizza in profondità,
longitudinalmente, un singolo evento: un caso appunto. Fornisce un modo
sistematico di ricerca, per quello che concerne la raccolta dei dati,
l'analisi delle informazioni, il report dei risultati. Di conseguenza,
il ricercatore può ottenere una maggiore comprensione del motivo per cui
il fatto è accaduto, come è accaduto e ciò che potrebbe divenire importante
per averne una visione più ampia. Lo studio di caso è definito come una
strategia di ricerca: l'indagine empirica che indaga su un fenomeno all'interno
del suo contesto reale.
- Gli studi di comunità rappresentano un metodo di ricerca compreso tra
sociologia, antropologia sociale, etnografia. Sono considerati una loro
sub-disciplina, ma anche indipendentemente; spesso interdisciplinari e
orientati verso le applicazioni pratiche, piuttosto che puramente teoriche.
L’ispirazione per questa categoria di studi, per cui comprendere il contesto
socioculturale dell’oggetto di studio è fondamentale, fu tratta dai classici
della Sociologia urbana prodotti dalla Chicago School of Sociology, da
cui si sviluppò l’omonimo indirizzo di pensiero sociologico. Fondamentale,
in questo filone di studi, la procedura di indagine dell’Osservazione
partecipante. in cui la relazione che si crea tra osservatore e osservato
è un momento privilegiato e consente una conoscenza più intima dell’“oggetto”
di studio. Osservare partecipando vuol dire entrare in rapporto empatico
e prendere parte alla vita di chi si osserva, allo scopo di coglierne
il punto di vista, la loro visione sul loro stesso mondo. Significa altresì
penetrare e cogliere dall’interno la cultura altrui. L’obiettivo principale
per il quale viene adottata è proprio quello di osservare la realtà studiata,
colta in ogni suo aspetto e a contatto con essa. È osservazione dall'interno
dato che l'incontro avviene nel medesimo contesto significativo e rappresentativo
dell’oggetto/soggetto della ricerca ed è definita dall'interazione dialogica
tra osservatore-osservato, facendo emergere i vari significati in considerazione
di diversi punti di vista. È un ricerca indiziaria di tracce e utile strumento
di confronto tra modelli culturali in cui non sono importanti i fenomeni
oggettivi, bensì i significati attribuiti a essi.
- La fotografia. Studiare la fotografia privata significa liberarsi da
giudizi estetici, preconcetti, gusti soggettivi e calarsi nei panni dello
storico del periodo contemporaneo che si serve sempre più spesso di fonti
non tradizionali, quali i documenti visuali. La fotografia privata è stata
di recente oggetto di riscoperta e di studio, anche in riferimento all’analisi
in profondità delle collezioni, che hanno permesso, in alcuni casi, di
ricostruire la storia di gruppi sociali. La fotografia privata documenta
infatti gruppi e persone con una identità, una storia, e un proprio mondo
di relazioni. Luogo della continuità, della elaborazione del ricordo,
dell’attivazione e conservazione della memoria sociale, del dialogo tra
le generazioni, “è forse un caso esemplare di fonte insostituibile” (G.
D’Autilia, 2005). Scatto fotografico e rievocazione si intrecciano nel
processo di ridefinizione dell’identità, un processo dinamico e continuo
di elaborazione, condivisione e negoziazione di senso che gli individui
fanno dei propri ricordi e attraverso il quale l’individuo rinegozia la
sua posizione all’interno dei gruppi sociali di appartenenza. La fotografia
è un prodotto culturale e una forma di comunicazione con funzioni informative,
documentarie e descrittive. Proprio per queste sue caratteristiche ha
avuto, fin dalla sua nascita (approssimativamente la stessa data della
sociologia, prima metà dell’800), contatti con le scienze sociali fino
a far nascere l’equivalenza fotografia = documento = testimonianza [15].
Come ogni forma di conoscenza, la fotografia, è un’impresa umana, volontaria
e selettiva, storicamente e socialmente determinata.
- La Sociologia visuale, utilizzata per rilevare e far emergere le anomalie
urbane delle società industriali e le contraddizioni dello sviluppo economico,
prese le mosse dal Dipartimento di Sociologia dell’Università di Chicago
(1892). La “Scuola di Chicago” fu uno dei primi e più riusciti tentativi
di applicare l'osservazione empirica, partecipante o meno, come metodologia
per studiare la comunità metropolitana. Avvalendosi spessissimo, per la
prima volta in Sociologia, dell’utilizzo della fotografia. Il primo tentativo
sistematico di definire la Sociologia visuale fu di Howard Becker che
traccia le premesse teoriche sul possibile connubio fra sociologia e fotografia.
L’esponente di spicco della Nuova Scuola di Chicago, ha dato un’identità
alle tecniche visive qualificandole come qualitative [16].
La Sociologia visuale è la registrazione, l’analisi e la comunicazione
della vita sociale attraverso le rappresentazioni grafiche, le fotografie
e i video. Essa si interessa alla funzione delle immagini nella società
e a usare i mezzi audiovisivi come strumenti di ricerca. È un metodo orientato
alla dimensione sociale dell’esperienza visiva. Per definire sociologico
l’uso delle immagini bisogna essere a conoscenza di alcune informazioni
fondamentali grazie alle quali è possibile valutare correttamente l’immagine:
chi ha scattato la foto, in quali circostanze, con quali scopi, ma soprattutto
il contesto socioculturale in cui è stata prodotta e i termini motivazionali.
La sociologia visuale è una sociologia più visuale, è un punto di vista
della sociologia che recupera la centralità della dimensione e dell’esperienza
visiva nel fenomeno sociale che lavora con e sulle immagini, considerandole
veri e propri dati, allo stesso modo delle parole e dei numeri, contribuendo
così ad ampliare la “cassetta degli attrezzi” dello scienziato sociale.
Anche in questa sede si è proceduto lavorando con entrambe gli approcci;
la prima è l'area della ricerca vera e propria che riguarda la produzione
o l'uso di immagini come dati per l'analisi dei comportamenti o come strumenti
per raccogliere le informazioni. Per tentare di delinearne un profilo
più preciso, è necessario indicare le tecniche utilizzate:
- la foto-intervista (o intervista basata su foto-stimolo - photo-elicitation).
Può essere considerata una variazione dell’intervista semi-strutturata,
con la differenza che, rispetto a quest’ultima, si basa sulle immagini
e non su una traccia di domande. L’immagine diviene il focus della comunicazione
e avviene uno scambio guidato dal ricercatore, che sceglie le fotografie
a suo avviso più significative e rappresentative del mondo del soggetto
o delle tematiche su cui deve intervistarlo.
Fot. 4. Il mercato di via Guido Biagi a Natale (1968)
«Il mercato nasce nel ’62 con 4 banchi di frutteria, 2 di macelleria,
2 pane e pasta, 2 alimentari, una pescheria, un vini e oli, una merceria,
un negozio di casalinghi e uno di abbigliamento. Abbiamo iniziato la nostra
attività nei locali sotto i portici. Prima ancora Enza produceva direttamente
verdura e fichi che vendeva al mercato della Garbatella. Nel 1964 abbiamo
acquistato uno spazio all’interno del mercato per vendere la pasta all’uovo.
Nel 1972 lo abbiamo trasformato in salumeria. Prima c’erano i banchi “a
gabbia”, nel 1988 lo hanno rimodernato mettendo i box che sono molto meglio.
Eravamo tutti mestieranti: si facevano delle salse particolari, disossavamo
i prosciutti (ora lo fanno i macchinari), sfilettavamo le aringhe… Mi
ricordo che sotto il periodo di Natale facevamo una grande mostra della
merce, un’esposizione. Tra i banchi non si passava per la gente che si
accalcava in fila, era talmente affollato che dovevamo prendere dei commessi!
Nel 2000 abbiamo ceduto la licenza, quasi in concomitanza con l’apertura
della GS e della conseguente diminuzione di clientela. Ultimamente ci
sono entrato un paio di volte e mi viene da piangere a vederlo com’è…
Forse a rovinare tutto è stata la liberalizzazione delle tabelle merceologiche,
o forse il fatto che non siamo mai riusciti a creare un consorzio. Attualmente,
forse, andrebbe utilizzato diversamente» [17].
Fot. 5. Acilia (Roma), Villaggio INA CASA, Stazione di Casal Bernocchi
(1974) Fonte: Ed. Scarponi Enzo Cart. Prof., Villaggio Ina Casa Acilia
(Roma) - N. 15
«Pietro Roberto Butteroni venne a vivere a Casal Bernocchi, dove gli fu
assegnata la casa popolare INA CASA poi GESCAL, nel 15 agosto del 1961.
Lo spirito che lo contraddistingueva lo portò a diventare presidente di
quartiere ad unanimità fino al decesso (26 novembre 1979). Non c’era farmacia
né mercato, nessun genere di negozi né tantomeno il campo sportivo e la
scuola era situata in un garage. Si andava a piedi fino ad Acilia per
fare la spesa, non c’erano gli autobus ed erano solo 10 le famiglie che
possedevano una macchina. Butteroni riuscì a coinvolgere tutta la popolazione
a occupare una parte dei binari: uomini e donne con bambini si sono insediati
per giorni sulle rotaie bloccando il passaggio del trenino, intervennero
addirittura polizia e carabinieri! Finalmente, dopo 10 anni di lunghe
trafile burocratiche, danno il via ai lavori per la nostra stazione. Ma,
ad uno stato ormai avanzato, questi vengono fermati dalla sopraintendenza
che la dichiarò “zona archeologica” perché negli scavi fu trovato un Mammut.
Così, di notte, 3 temerari (Butteroni in testa) trafugarono il reperto
e come un miracolo la stazione fu inaugurata nel Natale del 1971. Le lotte
per far si che le cose migliorino si vincono se c’è unione e se si vuole
il bene comune! Bisogna crederci, sinnò…» [18].
In riferimento alla sociologia sulle immagini, la ricerca non avviene
con l’ausilio di queste ultime, ma si sviluppa su di esse. Gli oggetti
di analisi diventano, in questo caso, la comunicazione visuale, ovvero
il modo in cui i soggetti comunicano tra loro per mezzo delle immagini
e, nello specifico, la funzione che queste svolgono nella società. Tecnica
che utilizza le immagini come dati sociali (visuali) preesistenti al lavoro
di ricerca e quindi da esso indipendenti. All’interno del disegno della
ricerca, prevede uno step focalizzato esclusivamente sulla raccolta e
sullo studio di materiale, in cui l’immagine non è utilizzata come strumento
privilegiato d’analisi, bensì come dato da interpretare [19].
Essa agisce principalmente in due aree metodologiche:
- l’interpretazione e l'identificazione dei significati simbolici delle
immagini che sono state prodotte nel corso di un'attività sociale;
- la spiegazione, vale a dire il processo di identificazione e analisi
dei significati simbolici/culturali/storici di immagini che sono state
prodotte allo scopo di raccontare una storia finalizzata a ricostruire
l’esperienza di un mondo sociale.
Fot. 6. Pubblicità
Nel campo dell’interpretazione ha un posto rilevante la classificazione
analitica delle dimensioni visuali del mondo sociale:
* dati a due dimensioni (immagini e rappresentazioni). Rientrano qui,
ad esempio, le analisi della pubblicità, delle arti visive, dei segnali
stradali, delle insegne, delle illustrazioni.
* dati tridimensionali: ambienti e oggetti nelle interazioni con le persone
che ne fanno uso.
* dati visuali vissuti, cioè i luoghi e gli ambienti in cui le persone
vivono e si muovono quotidianamente: spazi domestici, giardini, spazi
pubblici, negozi, istituzioni, traffico urbano. Il focus dell’analisi
è l'uso di tali spazi da parte delle persone e le interazioni sociali
che in esse avvengono.
Fot. 7. Raccolta firme contro la costruzione delle “Torri”
L’ultima tecnica visuale utilizzata è l’analisi di tipo before and after,
volta a studiare il cambiamento (in ambito urbano e in rapporto a dinamiche
e rituali sociali). Quando si analizzano i mutamenti risulta molto utile
confrontare le immagini fotografiche del passato con quelle ricreate ad
hoc per la ricerca, che consistono nel ri-fotografare gli stessi luoghi.
Questa caratteristica ne fa il punto di incontro tra il lavoro su e con
le fotografie; infatti il lavoro comprende analisi documentaria e del
contenuto, la produzione di indicatori visivi.
Primi risultati
Dalle testimonianze di testimoni privilegiati e significativi emergono
alcune importanti carenze strutturali, ma anche una forte identificazione
territoriale da parte di un gruppo in un luogo determinato, geograficamente
delimitato, «Casal Bernocchi è questa, la piazza, il mercato… con una
parte l’Ostiense e dall’altra la Colombo». La stessa prima denominazione
che ebbe la zona, “villaggio”, disegna un destino condiviso, un gruppo
di comunità domestiche insediate in stretta vicinanza le une con le altre,
costituisce il tipico gruppo di vicinato. La comunità di vicinato è il
fondamento originario del comune, cioè di una formazione che viene fondata
in senso pieno soltanto attraverso la relazione con un agire politico
di comunità comprendente un largo numero di vicinati. Inoltre esso stesso
può costituire la base di un agire politico di comunità e per via di una
progressiva associazione, attrarre nell’agire di comunità, o vedersi imporre
come dovere dalla comunità politica, attività di ogni specie [20].
Fot. 8. Festa dei vicini
Significativo il ruolo e l’apporto dell’Associazione Casal Bernocchi ONLUS,
costituita nel 2002 per volontà di alcuni cittadini. Senza fine di lucro,
apolitica, basata sul volontariato, ha come scopo primario quello di promuovere
e sviluppare iniziative sportive e di aggregazione sociale nel quartiere.
Vive il quartiere e ne è parte integrante e attiva, infatti non ha una
sede; si riunisce spontaneamente nei luoghi associativi del quartiere:
il centro sociale e la chiesa. Possiamo considerare Casal Bernocchi una
comunità nel senso Tonniesiano, Gemeinschaft: un organizzazione sociale
comunitaria, fondata sul sentimento di appartenenza e sulla partecipazione
spontanea, in cui non c’è ne anonimato ne indifferenza - «c’è vita collettiva,
solidarietà, rapporti umani tra le persone, condivisione dei problemi
[21]… c’è ancora la piazza dove si
fa una chiacchierata, si affronta un problema… ci conosciamo tutti, c’è
un bel clima… più che una periferia è un oasi, è vivibile. È una comunità».
Dove sono presenti l’armonia, le relazioni spontanee, la cooperazione,
la coesione verso scopi comuni. Una comunità di sangue - «era nato come
quartiere per famiglie numerose, ancora oggi sono presenti delle famiglie
allargate che continuano a vivere nella zona» – dove ci si riconosce tutti
come membri, con uguali diritti e doveri – «noi della ONLUS lavoriamo
con la speranza che i giovani ci diano il cambio». Il filo rosso tracciato
da queste storie ci fa avvicinare ad un altro autore molto importante
quando si parla di comunità; Durkheim e la solidarietà meccanica nelle
società semplici. Cioè quando i sentimenti comuni e le coscienze collettive
predominano sull’individuo in via del tutto accettata e volontaria. La
scelta del nome della squadra di calcio locale – Circolo Vita Nuova Casal
Bernocchi - conferma tali dimensioni. Il Circolo è la figura abituale
della socialità ed è in rete con l’Associazione che rappresenta uno stile
culturale di continuità con le modalità dominanti di socializzazione e
il tessuto sociale.
Fot. 9. Acilia (Roma), Villaggio INA Casa, Piazza S. Pier Damiani, Centro
Commerciale (1977) Fonte: N. 4 - Ed. Scarponi Enzo Cart. Prof., Villaggio
Ina Casa Acilia (Roma)
All’interno del quartiere negli ultimi anni, c’è stato un percorso parallelo
tra la volontà associazionistica, la rinnovata coscienza e cultura politica,
la proliferazione di eventi e di nuove forme di comunicazione e affermazione
della propria presenza / esistenza (siti web e creazione di materiali
audiovisivi). Insomma, sembra far breccia una generale e nuova voglia
di migliorare sempre di più il luogo in cui si vive, in cui ci si incontra
quotidianamente e verso cui si hanno delle aspirazioni sociali verso una
politica partecipata e condivisa – «si affrontano insieme le battaglie
per migliorare il quartiere, per una riqualificazione del quartiere. Perché
voglio vivere bene nel mio quartiere». Tutto è nato dalla lotta costante
nel costruire qualcosa di importante ed essenziale, come un campo sportivo
polivalente e sussidiario in modo da «creare uno spazio sociale, un punto
di ritrovo del quartiere» [22].
La riscoperta delle peculiarità locali e la valorizzazione ideologica
della dimensione comunitaria può essere, pertanto, letta ed interpretata
all'interno di quella richiesta di forme di ancoraggio simbolico, anche
come risorse spendibili su di un piano politico, verso una “comunità locale”,
cioè una collettività stabilmente insediata su un territorio preciso;
in cui la base territoriale garantisce una stabilità nel tempo [23].
Fot. 10. Il fulcro civico, piazza San Pier Damiani durante l’annuale festa
di quartiere (luglio 2011)
Dal materiale raccolto, il rapporto con l’identità collettiva è spesso
sottolineato; ciò che viene messo in evidenza è che i membri di un gruppo
si identificano nella collettività e che l’identità di ciascun individuo
è costantemente aiutata, stimolata e sorretta dalle relazioni interpersonali
che l’individuo stesso stringe con quella degli altri membri di uno stesso
ambiente sociale. Questo aiuta a perpetuare e a definire i sentimenti
della comunità di appartenenza, all’auto rappresentazione sociale di sé
e della comunità alla quale si sente di appartenere. Casal Bernocchi può
essere definita una comunità residuale, caratterizzata da una forma tradizionale
di “vicinato”, permeata di solidarietà, vissuto comune, omogeneità di
origine – «se un ragazzo non ce la fa a pagare la quota popolare di iscrizione
al circolo sportivo, può venire lo stesso ed è trattato alla stessa maniera
di tutti. Si fa per una cosa di solidarietà, per creare un qualcosa per
gli anziani, per i ragazzi con handicap…».
L’aderenza con i concetti di comunità urbana sono riscontrabili e valutabili:
la percezione determinata da una comune appartenenza – «qui proveniamo
tutti dagli sventramenti del centro storico, dalle baracche o da lavori
dipendenti» – dove il senso di appartenenza nasce in virtù della presenza
di simboli (impassibilità e immobilità delle “pietre”) e della capacità
di mobilitarsi per azioni comuni [24]
sono segnali di un agire comune da cui dipende la continuità comunitaria
– «si sono fatte sempre lotte importanti dove ha partecipato tutto il
quartiere: per far fare la fermata del treno, per far nascere il centro
sociale, il campo».
Casal Bernocchi ha vissuto pienamente il passaggio da periferia precaria
ed emarginata degli anni ’70, alla periferia del coinvolgimento e delle
richieste di servizi degli ultimi anni ’80, sino a giungere ad essere
una collettività con propri valori e interessi, caratterizzata dall’integrazione
e da scopi esterni. Tutto ciò produce un’identità comune di riferimento,
iniziata con le storie di necessità abitative similari dei primi cittadini
/ assegnatari.
«Siamo impegnati in una questione sociale, non lasciare i ragazzi per
strada, dare la possibilità a tutti di fare attività sportiva… per un
discorso di comunità» [25].
Considerazioni conclusive
Perché legare l’immaginario a questo genere di ricerca? Alla fotografia
viene riconosciuta una grande utilità euristica, ma per confermarla ci
deve essere un uso motivato della fotografia stessa; motivazioni dettate
dagli scopi e dalle intenzioni del fotografo/osservatore/ricercatore.
In effetti, ciò che differenzia le immagini iconografiche non è tanto
il contenuto quanto le interpretazioni e gli utilizzi che se ne fanno.
“La realtà umana, non può trovarsi nella fotografia, ma nell'intenzione
del fotografo. Se non c'è l'intenzione, cade anche il significato, cioè
il criterio selettivo, il dato emergente, la variabile decisiva. Resta
solo il gesto - clik [...]” [26].
I significati che le immagini assumono, solo convenzionalmente possiamo
definirli oggettivi, dato che dipendono da meccanismi percettivi interiorizzati
socio-culturalmente. La fotografia, dotata della doppia natura mezzo di
riproduzione e di espressione, non è l’esatta riproduzione della realtà.
Non restituisce la realtà oggettiva, ma spezzoni soggettivi della realtà.
Una soggettività, variabile nel tempo e nelle circostanze, che passa attraverso
il fotografo e il fruitore del prodotto. La stessa didascalia suggerisce
delle interpretazioni e può funzionare da rinforzo al messaggio visivo
perché ne restringe il ventaglio delle possibilità.
Da qui la polisemia dell’immagine, legata ai valori culturali della società
e all’interazione fra oggetto fotografato, soggettività del fotografo
e caratteristiche tecniche della macchina, cui va aggiunta la soggettività
dell’osservatore. Esse sono capaci di generare molti significati ed interpretazioni
nel processo di osservazione: una volta fatta, la foto si stacca da chi
l'ha scattata e diventa il prodotto di una tripla interpretazione, dell'osservatore,
dell’osservato e del fruitore dell’immagine.
Il contesto socioculturale tra l’altro, in cui l’atto del fotografare
e quello dell’interpretare avvengono, può porre dei limiti a tali soggettività.
In conclusione, vorrei prestare particolare attenzione al filone degli
archivi e dei centri di documentazione, che sembra aver preso molti meriti
nell’ambito della Sociologia visuale. Archivio nel senso di raccogliere,
conservare, catalogare e restaurare per offrire in consultazione, preservare
e rendere fruibile la memoria storica visiva. Opera che concede i mezzi
e i termini per il confronto di accadimenti passati e del dialogo tra
le generazioni, indispensabili per la ricostruzione dell’identità. Negli
ultimi anni è aumentato il riconoscimento per il trattamento descrittivo
delle collezioni fotografiche, fonti d’interesse per la didattica e la
ricerca. L’immagine, ai fini della ricerca storica e sociale, è utile
che venga descritta e custodita per un suo recupero all’interno di un
giacimento più vasto; un archivio fotografico.
In particolare appare utile nell’analisi dei documenti, soprattutto quelli
a sfondo storico, poiché, studiando il contenuto delle immagini, si può
allargare la dimensione visuale e andare oltre il materiale cartaceo e
il dato statistico. Il recupero degli archivi fotografici è il campo in
cui la sociologia visuale dovrebbe essere applicata al fine di salvare
tali fondi di memoria, ricostruzione e comprensione. L’intento principale
è proprio quello di valorizzare, attraverso la componente visiva, materiale
informativo importante come eredità conoscitiva e interpretativa per il
futuro. In questo caso la componente visiva diviene fondamentale per facilitare
l’intero lavoro
Album quindi, come luogo della continuità, della elaborazione del ricordo,
dell’attivazione e mantenimento della memoria sociale, affinché l’esperienza
di vita di ognuno rimanga fissata temporalmente più a lungo.
Funzioni degli album/archivi:
- Appartenenza culturale
- Interazione
- Presentazione di sé
- Memoria
- Documentazione
La fotografia privata documenta, al di là delle sue stesse intenzioni,
le trasformazioni del paesaggio urbano, delle periferie, il rapporto tra
città e campagna, fornisce informazioni per la storia sociale e della
cultura materiale, per la storia degli ambienti della vita e del lavoro.
Le immagini private permettono una ricostruzione dei momenti storici in
una prospettiva dal basso. Sono monumenti in formato ridotto, per le quali
non era previsto un uso pubblico, e per di più documenti che non prevedevano
di finire nel laboratorio dello studioso; esse rappresentano un fiume
sotterraneo, da esplorare e comparare e possono svelarci il volto inedito
anche delle esperienze.
L’idea che si vuole proporre è una Mnemoteca. È andata crescendo in questi
anni – fenomeno impensabile anche solo un decennio fa – l’offerta di opportunità
locali di racconto e di ascolto reciproco, non solo come possibilità di
conservazione, ma anche come possibilità di restituzione al territorio
del patrimonio memoriale, con intenti educativi. Si intende realizzare
la ricostruzione della memoria individuale e di quelle diffuse sul territorio,
raccoglierle, valorizzarle, rimetterle nel circuito costitutivo dei racconti
di una comunità. Importante dal punto di vista culturale e politico, è
il sostegno degli Enti Locali a queste iniziative, sospinte da un desiderio
di rifondare il senso della cittadinanza, attraverso la memoria e il suo
racconto.
Delle “biblioteche della memoria”, veri musei vivi dello scambio di racconti
memoriali, che offrono una pluralità di testimonianze, contro la selezione
e l’abuso della memoria tante volte realizzata per calcoli più o meno
nascosti; archivi in cui raccogliere e custodire le vicende, gli episodi,
le esperienze che, nei loro molteplici significati, non vanno nascoste
o stravolte, ma interpretate in modo sempre nuovo. Si tratta di luoghi
collettivi, in cui coltivare e diffondere l’etica biografica e autobiografica
del rispetto della pluralità, del non schiacciare le storie in una sola
dimensione precostituita; esempi straordinari di racconti, che non appiattiscono
le vicende esistenziali, perché una vita è sempre un coacervo di tante
storie: dell’infanzia e del lavoro, dello sfruttamento e del riscatto,
delle donne e degli uomini nelle lotte o nel divertimento, storia dei
sentimenti familiari, dei legami d’amore, ma anche delle scelte politiche
e civili, di permanenze e migrazioni. Si tratta di raccogliere e riascoltare
queste storie di vita. “Vere”, perché fuoriescono dagli schemi ideologici,
dalle interpretazioni prefabbricate: per questo ci parlano, colpendo direttamente
la nostra emotività, le nostre coscienze, e mettono in moto la nostra
immaginazione e la nostra stessa voglia di racconto. C’è da scoprire un
mondo pieno di tante sfaccettature all’interno di una sola vita, perché
questa riunisce innumerevoli fili che si intrecciano a molti altri. Tali
storie naturalmente devono continuare ad essere rievocate e narrate, perché
la vita e il suo senso vanno rinnovati nel lavoro sul passato-presente
da “ri-guardare”.
Tale percorso di ricerca-azione intende:
- Una cultura (auto)biografica anche per riscoprire il senso dell’appartenenza
ad una comunità, ricomponendolo con le trasformazioni del paesaggio urbano;
- Conservare le memorie dei luoghi e dei loro abitanti, in un luogo fruibile
da parte di cittadini, scuole, istituzioni sociali e culturali e studenti;
- Mettere in relazione giovani e anziani di diverse generazioni in un
progetto di ricostruzione della storia comune, attraverso il racconto
di “storie di vita” e di “storie di luoghi”.
Mnemoteca come luogo riconosciuto dove custodire, ordinare e consultare:
a) autobiografie e interviste autobiografiche di persone legate al territorio;
b) ricerche, studi e tesi di laurea che documentino e rappresentino i
cambiamenti dei suoi paesaggi.
L’obiettivo è che diventasse il luogo:
- dove restituire alle comunità dei quartieri le autobiografie e le storie
di vita raccolte, anche attraverso rappresentazioni artistiche e espressive
diverse (teatro, cinema, danza, musica…);
- in cui promuovere la formazione autobiografica e la “pedagogia della
memoria”, sia con incontri specifici che con seminari, rivolta in particolare
alle scuole del Municipio;
- in cui potranno incontrarsi insegnanti, operatori sociali e culturali,
per confrontarsi sui problemi del territorio ed i temi dell’educazione
permanente e degli adulti;
- in cui aiutare quanti vogliano scrivere la propria autobiografia;
- laboratoriale per le ricerche bibliografiche, archivistiche ed iconografiche
al fine di raccogliere tutto il materiale di documentazione relativo ai
mutamenti del territorio.
Fot. 11. Il “villaggio” fa da sfondo a Anna Magnani sul set del film “Mamma
Roma” di P. P. Pasolini (1962) Fonte: Mostra permanente per il cinquantenario
(luglio 2011)
Il progetto nasce dall’esigenza largamente condivisa di conoscere i cambiamenti
di un territorio nel corso del tempo, i modi in cui sono stati rappresentati
nell’urbanistica, nella letteratura, nella pittura, nel cinema… ma, soprattutto,
nelle molteplici descrizioni delle autobiografie e delle storie di vita
dei suoi abitanti. Il confronto delle storie collettive con le memorie
familiari ed individuali potrebbe portare alla (ri)scoperta e valorizzazione
di valori morali e culturali comuni. Non solo potrebbe svilupparsi un
nuovo senso di appartenenza ad una comunità, ma anche una maggiore consapevolezza
per far fronte concretamente alle nuove emergenze che, sempre più spesso,
affiorano nei quartieri delle grandi città. La ricognizione dovrebbe essere
svolta da un associazione di quartiere, avvalendosi del partenariato dell’Istituzione
delle Biblioteche di Roma, dell’adesione delle scuole materna, elementare,
media locali e del patrocinio del XIII Municipio. Ad oggi, il progetto
ha partecipato a livello nazionale e internazionale: a due bandi di concorso,
tre convegni ed è stato oggetto di pubblicazioni.
Note
1 Per rappresentazioni sociali
si intende un “sistema di valori, di nozioni e di pratiche con una duplice
vocazione. Innanzi tutto instaurare un ordine che dia agli individui la
possibilità di orientarsi nell’ambiente sociale, materiale e di dominarlo.
Poi assicurare la comunicazione tra i membri di una comunità offrendo
a essi un codice per denominare e classificare in maniera univoca le componenti
del loro mondo e della loro storia individuale”. L. Gallino, Dizionario
di sociologia, TEA, Milano 2000, p. 531.
2 M. Halbwachs, La memoria collettiva,
Edizioni Unicopli, Milano 1987, p. 20.
3 H. Bergson, Opere, Mondadori,
Milano 1986, p. 100.
4 M. Halbwachs, I quadri sociali
della memoria, Ipermedium, Napoli 1997, p. 82.
5 Cfr. P. Jedlowski, Memoria,
esperienza e modernità, Franco Angeli, Milano 2002.
6 M. Halbwachs, I quadri sociali
della memoria, Ipermedium, Napoli 1997, p. 23.
7 Per un approfondimento: F. Ferrarotti,
La tentazione dell’oblio, Laterza, Bari-Roma 1993.
8 M. Baliani, Nel regno di Acilia,
Rizzoli, Milano 2004, p. 30.
9 Rif. I. Insolera, Roma moderna.
Un secolo di storia urbanistica 1870-1970, Einaudi, Torino 1993.
10 Termine che deriva dal protomediterraneo
o preindoeuropeo ficus con terminazione etrusca na. Come afferma Plinio
il Giovane nella descrizione che fa nel I sec. d. C., in questa parte
della città c’era un terreno particolarmente favorevole, se non unico,
alla coltivazione dei fichi e dei gelsi: “Si incontra una strada in certi
tratti arenosa, un po’ molesta ma corta e buona per chi va a cavallo,
vario e qua e là il paesaggio; a tratti il cammino è stretto a cagione
dei boschi, a tratti si allarga in vastissime praterie; ci sono molte
greggi ovine, mandrie di cavalli e armenti bovini” (Lettera ai familiari
2, 17). Rif. Professor Gino Zaninotto.
11 A Casalbernocchi erano attive
numerose sorgenti e sono conservate diverse grotte ad uso della transumanza.
Sono stati rinvenuti pavimenti in mosaico, un’ascia di bronzo e monete
del tempo di Nerone. In base ai rinvenimenti archeologici – tra cui numerose
punte di freccia lavorate – qui è testimoniata la presenza dell’Uomo di
Neanderthal (60.000 anni fa). Nel corso dei millenni il territorio rappresentò,
con il suo pianoro ondulato, inciso da affluenti minori del Tevere (Fosso
di Malafede, Fossa del Fontanile, Refolta) un habitat ideale per gli insediamenti
dell’uomo. Fonte: Museo della Via Ostiense.
12 Cfr. S. Abbadessa (a cura
di), Sguardi sulla Campagna Romana, Mercanti editore, Roma 2006. Centro
Giano si estende al di là della via Ostiense e vi appare più evidente
l’assenza di un piano regolatore. Sul finire degli anni ‘70 Don Luigi
Di Liegro sceglie di diventare pastore della nascente piccola borgata.
La sua scelta nacque dalla convinzione che un prete non è tale senza una
comunità da servire e a cui appartenere, e anche dalla sua inclinazione
a leggere la realtà con lo sguardo di chi ne abita le periferie. Di questa
comunità don Luigi rimarrà la guida spirituale, ma anche umana e sociale,
fino alla fine della sua vita. Fonte: Fondazione Di Liegro.
13 P. P. Pasolini, Una vita
violenta, Garzanti, Milano 1959, p. 113. Via di Ponte Ladrone è un nome
che risale almeno al Medioevo, quando il ponte romano sulla via Ostiense,
sotto il quale passava il torrente Refolta, costituiva il nascondiglio
per i latrones (di cui Mars Ficanus ne è il patrono) che assalivano i
viandanti. “L’ingresso dalla via Ostiense è presenziato da un ricordo
ingombrante: l’agguato mortale del 21 ottobre 1981 nel quale furono uccisi
Francesco Straullo della Digos e l’agente Ciriaco Di Roma. A trucidarli
furono i NAR, terroristi di destra, benché Casalbernocchi fosse ritenuto
a lungo ‘’patria’’ di attivisti e simpatizzanti dell;ex PCI e fiancheggiatori
delle BR”. R. Filibeck, Casalbernocchi, il degrado cancella anche la memoria,
in Sette News Litorale, 8 maggio 2009.
14 Rif. (a cura di) M. Guccione,
M. M. Segarra Lagunes, R. Vittorini, Guida ai quartieri romani INA Casa,
Gangemi Editore, Roma 2002.
15 Cfr. F. Ferrarotti, Dal documento
alla testimonianza. La fotografia nelle scienze sociali, Liguori editore,
Napoli 1974.
16 “Think of a camera as a machine
that records and communicates much as a typewriter does. People use typewriters
to do a million different jobs: to write ad copy designed to sell goods,
to write newspaper stories, short stories, instruction booklets, lyric
poems, biographies and autobiographies, history, scientific papers, letters.
The neutral typewriter will do any of these things as well as the skill
of its user permits. Because of the persistent myth that the camera simply
records whatever is in front of it (about which I will say more below),
people often fail to realize that the camera is equally at the disposal
of a skilled practitioner and can do any of the above things, in its own
way. Photographers have done all of the things suggested above, often
in explicit analogue with the verbal model.”. H. S. Becker, 1974, Photography
and Sociology, in “Studies in the Anthropology of Visual Communication”,
n. 1, Chicago University Press, Chicago 1974, p. 3.
17 14 maggio 2011, testimonianza
di Enza Carosi (dipendente della contessa Bernocchi e abitante nell’omonimo
casale) e Italo Albano, possessori del box n. 6 al mercato coperto di
Casal Bernocchi.
18 Mara Butteroni, 30/05/2011.
19 La distingue dalla sociologia
con le immagini il fatto che questa prevede la costruzione di immagini
ad hoc nel processo di ricerca, ovvero prodotte nel corso e ai fini della
ricerca stessa.
20 Cfr. Martinelli F. (a cura
di), Città e campagna: la sociologia urbana e rurale, Liguori editore,
Napoli 1988.
21 “Se non fosse per l’incuria
del verde pubblica e la stragrande maggioranza dei marciapiedi fatiscenti
e di alcune strade con il manto piuttosto male, il quartiere Casalbernocchi
potrebbe essere quasi definito un piccolo gioiello, rispetto alle altre
borgate nate spontaneamente nel cuore del XIII Municipio. Sorto nei primi
anni ’60, circa un ventennio dopo la fondazione della Borgata Acilia,
inizialmente era conosciuto come il Villaggio INA CASA. Questo per la
presenza di molti palazzi costruiti secondo i criteri dell’edilizia economica
popolare. A parte le storiche abitazioni il quartiere non fu dotato dei
servizi essenziali e delle infrastrutture prima di quasi una decina di
anni. Via via sono arrivati il mercato comunale, le scuole. A seguire
la farmacia, la stazione (1968) e la chiesa (1970). Nonostante l’’altissimo
interesse archeologico’, nulla è stato fatto per proteggere la zona. Di
questi siti ritenuti di ‘potenziale pregio archeologico’ resta solo uno
sbiadito ricordo e pochissimi documenti storici. Un tratto della strada
che si inerpica per il quartiere è a rischio crollo e da decenni è puntellato,
quasi come le macerie dei terremoti del secolo scorso. Il centro anziani
e il centro sociale, che funziona a singhiozzo, sono le uniche attività
comuni. Per il resto regnano incontrastati incuria e degrado. Il parco
di Casalbernocchi, inaugurato nel maggio del 2007 dall’allora Sindaco
Veltroni, venne dedicato alla memoria dei poliziotti trucidati a ridosso
del sito. A distanza di due anni, l’area verde dotata di spazi attrezzati
per il fitness e attività ludiche per i bambini si presenta già fatiscente:
l’erba è alta e rende di fatto impraticabile i giardini. Pur non qualificandosi
come “quartiere dormitorio”, appare una entità con cui è difficile entrare
in dialogo”. R. Filibeck, Casalbernocchi, il degrado cancella anche la
memoria, in Sette News Litorale, 8 maggio 2009. “A causa di un irresponsabile
dei trasferimenti regionali per il 2012 la Roma – Lido rischia il collasso
e l’interruzione del processo di ammodernamento. La situazione è ora insostenibile,
nel corso degli ultimi tre anni la linea è decisamente peggiorata. È diminuita
l’affidabilità del servizio, sono aumentati i disagi e i tempi di attesa
dei treni (dai 7-8’ del 2007 agli odierni 10-15’). Il minor numero di
convogli circolanti e la mancanza di personale sono la causa del disagio
che i pendolari vivono ogni giorno. I numeri delle corse saltate parlano
chiaro: 484 (nel 2009), 1225 (2010), 1514 (nei primi 8 mesi del 2011)”.
Circolo PD Acilia e Ostia Levante, Emergenza Roma-Lido, 14 novembre 2011.
22 L’inaugurazione ci fu l’1
novembre 2006.
23 Rif. A. Farro, Sociologia
delle comunità locali, Bulzoni editore, Roma 1993.
24 Le feste (patronali – San
Pier Damiani -, di quartiere – In piazza Insieme e Casal Bernocchi in
Festa -, dei vicini), i comitati di quartiere, la ONLUS, le iniziative
(Riprendiamoci il parco, Raccolte di solidarietà, Mercati di beneficienza,
No alle torri, assemblee pubbliche e cittadine, questionario sulla qualità
della vita e la percezione della popolazione residente.
25 Antonio Di Bisceglia, Presidente
ONLUS Casalbernocchi, 3 settembre 2008.
26 Cfr. F. Ferrarotti, Dal documento
alla testimonianza. La fotografia nelle scienze sociali, Liguori editore,
Napoli 1974, p. 14.
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community study).
Concorsi
Circolo Vita Nuova Casal Bernocchi: un quartiere per una squadra, il calcio
per un quartiere, Premio Alberto Madella per la ricerca applicata allo
sport, Scuola dello Sport – Coni, 2009.
Circolo Vita Nuova Casalbernocchi: a neighbourhood for a team, football
for a community, Eass Young Researcher Award “Alberto Madella”, European
Association for Sociology of Sport, 2009.
Sitografia
www.albumdiroma.it
www.archiviodiari.it
www.canaledieci.it/tg/13-06-11/2pt
www.lua.it
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