Raccontare Ascoltare Comprendere
Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.10 n.1 Gennaio-Aprile 2012
NARRATIVITÀ COME POTERE DI AUTORAPPRESENTAZIONE DI CONDIZIONI INVISIBILI: I LAVORATORI DELLA CONOSCENZA
Emiliana Armano
emi_armano@yahoo.it
Dottore di ricerca in Sociologia economica. Partecipa alle attività
di ricerca del Dipartimento Studi del Lavoro e del welfare dell'Università
statale di Milano. I suoi interessi riguardano i nuovi diritti nella società
dell'informazione, i modelli di welfare state, la flessibilità e la precarietà
nel mondo del lavoro. Ha collaborato con Romano Alquati e Sergio Bologna,
pionieri della ricerca sociologica in Italia. Ha pubblicato diversi saggi
in Italia e in Germania sui temi della soggettività e del lavoro.
1. Premesse teoriche
Collochiamo il nostro studio sui lavoratori/trici della conoscenza nel
passaggio da un modo di produrre fordista dominato da razionalità, programma,
astrattezza e procedure impersonali a un modo postfordista in cui l’intenzionalità
e la dimensione personale hanno più valore e diversi e incerti sono gli
esiti possibili (Bauman 1999; 2000). Una trasformazione che investe tutta
la società e mostra da un lato, processi di de-regolazione, de-standardizzazione
dei lavori, crescita del rischio (Beck, 1986; 2000a) e d’altro canto,
la liberazione (potenziale) di nuove capacità e di innovazione, di elementi
cruciali nei lavori della conoscenza (Rullani, 2004a; 2004b). Definiamo
come lavoratori della conoscenza quella componente sociale in progressiva
crescita nelle società avanzate composta da coloro che, utilizzano in
tutto o in maniera prevalente le loro facoltà cognitive, relazionali,
comunicative, in collaborazione con altri per lo svolgimento della loro
attività lavorativa (Drucker, 1994) e dunque mettono al centro del loro
lavoro l’uso combinato dei diversi saperi. Ipotizziamo che oggi, tali
saperi possano cambiare di tonalità: la soggettività del mondo socio-professionale
dei lavori della conoscenza é infatti ritenuta una delle dimensioni specchio
di questa trasformazione postfordista. L’ipotesi è che nel postfordismo,
la soggettività, intesa come intenzionalità, assuma più peso che in passato
perché minori sono i percorsi istituzionali prestabiliti e formalizzati
a cui affidarsi e pertanto più alta è la valenza dell’apporto che il soggetto
può dare ai processi sociali, anche in relazione ai saperi codificati
e specialistici.
A partire da questi presupposti riteniamo che sia importante riconoscere
e comprendere la soggettività che si genera e ridefinisce nella de-istituzionalizzazione
dei percorsi lavorativi, l’informalità delle relazioni sociali e la crescita
della relazionalità della produzione. Al centro del nostro studio è l’analisi
della soggettività dei lavoratori della conoscenza, dove per soggettività
intendiamo sia la motivazione ad agire del singolo attore sia il senso
(inter)soggettivamente attribuito (Crespi, 1982), la “connessione di senso”
(Sinneszusammenhang) di cui estesamente scrisse Max Weber (1958).
Nella formazione della soggettività postfordista un ruolo chiave è svolto
dai fattori extraeconomici di tipo sociale, storico e valoriale, le relazioni
sociali in grado di generare fiducia e capitale sociale, i repertori cognitivi
condivisi ed il ‘saper fare’ diffuso e situato. Per comprendere come la
condizione postfordista possa avere un suo peculiare statuto ed essere
contemporaneamente una fonte di ansia e uno strumento di libertà, facciamo
riferimento al pensiero di Beck; egli sostiene che l’aumento dell’incertezza
si traduce in un processo di individualizzazione che costringe gli uomini
a fare di sé stessi il centro dei propri progetti e della propria condotta
di vita e contemporaneamente amplia le loro possibilità di azione (Beck,
2000a). Il fatto che i soggetti sentano su di sé tutta la responsabilità
della definizione dei propri percorsi (e dei rischi che ne derivano) ha
una duplice valenza. Con il processo di individualizzazione, l’incertezza
da caratteristica del contesto in cui gli attori si muovono, diviene sempre
di più anche una peculiarità dei progetti che essi elaborano, assume,
cioè, una dimensione soggettiva. Posto di fronte ad un contesto altamente
mutevole, l’individuo, al suo livello, si trova dunque a dover compiere
scelte sempre più complesse e deve continuamente prendere individualmente
delle decisioni puntuali e generali senza avere un quadro preciso delle
loro conseguenze e del contesto. Proprio in questo, però, si delinea l’altro
aspetto del processo di individualizzazione, ovvero l’ampliamento degli
ambiti di decisione e di autonomia per i soggetti. Ma è un dover essere
e non una scelta.
In un contesto siffatto, in cui l’incertezza, percepita soggettivamente
è l’incertezza propria dell’attore in grado di compiere delle scelte e
di attribuire un senso alle proprie esperienze, la narrazione di sé diventa
allora una potente risorsa per sottrarsi all’invisibilità della individualizzazione.
Dal momento che è proprio il linguaggio verbale a dare corpo al pensiero,
a fare società nella inter-azione del discorso che converte l’esperienza
individuale in un’esperienza collettiva (Bruner, 1991).
2. Le domande
A partire da questo frame teorico, la nostra analisi si è incentrata sulle
costruzioni di significato con le quali i lavoratori/trici della conoscenza
rappresentano la propria condizione. Come rappresentano le loro frammentarie
esperienze lavorative? Attraverso quali narrazioni e quali categorie implicite
del pensiero raccontano il modo con cui affrontano il rischio? Ci sono
aspetti invisibili e importanti della condizione che possono essere conosciuti
attraverso il loro punto di vista, parziale, di soggetti? Queste le nostre
iniziali domande di fondo integrate poi dalle domande emerse in corso
di indagine e inerenti la formazione dei diversi saperi in relazione all’organizzazione
del lavoro. Abbiamo ritenuto che l’approccio qualitativo e narrativo fosse
più appropriato della survey o dell’utilizzo di strumenti quantitativi
per affrontare queste domande di ricerca, in relazione alla possibilità
per i partecipanti di assegnare il significato e riportare la propria
esperienza con i propri termini (Geertz, 1973) piuttosto che in categorie
preselezionate.
3. Elementi di una ricerca sul campo. L’oggetto.
La ricerca sul campo è stata realizzata attorno ad alcuni eventi della
Torino postfordista attraverso un ampio e significativo campione di interviste
in profondità a knowledge workers occupati in diverse filiere produttive,
dall’informatica alle produzioni digitali, al web, ai nuovi media, alle
arti multimediali, alle attività di formazione e ricerca. Le narrazioni
biografiche dei knowledge workers al centro di questa ricerca riportano
le loro aspirazioni e le loro paure, le loro capacità e la loro invisibilità
politica, la carica di innovazione che incorporano e quella di incertezza
che subiscono. (Armano, 2010a).
Le interviste sono state raccolte durante alcuni “eventi” torinesi tra
la fine del 2006 e l’inizio del 2007: Virtuality, Linux Day, Artissima,
Festival del Cinema [1]. Abbiamo scelto
di partecipare a questi eventi, osservando come avvengono e di intervistare
chi ne fa parte: informatici, programmatori, sviluppatori, lavoratori
delle telecomunicazioni e della ricerca universitaria, webdesigners e
web workers, artisti digitali, formatori, ricercatori, designers industriali,
giornalisti, traduttori, fotografi, video-attivisti. Esperienze di lavoro
innovativo seppure spesso anche temporaneo che richiamano e sondano quella
quota di lavoro della conoscenza che sta emergendo e si prestano bene
ad una antropologia del terziario avanzato. Le narrazioni ci parlano di
nuove soggettività del lavoro, raccontate in presa diretta sul crinale
tra autonomia e sfruttamento.
La scelta di svolgere una parte consistente delle interviste durante lo
svolgimento di eventi è legata alla considerazione che tali eventi connotano
emblematicamente la transizione postfordista di Torino, da territorio
teso principalmente alla produzione di massa di beni durevoli e tangibili
a possibile città dei servizi della conoscenza, territorio di politiche
di sviluppo delle industrie creative e culturali (Ross, 2009), e fabbrica
di nuove merci volatili e intelligenti (Maione, 2001).
Tra i casi inclusi nel “campione” vi è una componente di profili socio-economici
strutturati in forma di lavoro autonomo e microimpresa. La scelta d’includere
anche soggetti con queste caratteristiche risponde al nostro criterio
di selezione: in continuità con il filone di ricerca sviluppato da Sergio
Bologna, riteniamo che la condizione del consulente e della microimpresa
possano essere collocate in un continuum con le altre modalità di lavoro
temporaneo e rappresentino una delle tante possibili modalità di gestione
del rischio, rischio che assumiamo come elemento chiave della de-regolazione
postfordista e che se viene subito tende a individualizzare e a rendere
invisibili nel discorso pubblico i diversi soggetti lavorativi.
4. Narratività come scelta metodologica per il disegno di ricerca
Il disegno di ricerca ha tenuto conto in modo aperto e esplorativo dei
concetti alla base della ricerca – de-procedimentalizzazione postfordista,
soggettività, rischio, precarietà, invisibilità sociale, lavoro della
conoscenza - e del modo in cui tali concetti potevano essere orientativamente
impiegati nell’indagine. La scelta è stata quella di adottare una definizione
ampia e aperta di tali dimensioni e soprattutto di privilegiare un percorso
di ricerca sul campo, basato sulla progressiva implementazione della definizione
dell’”oggetto” di studio che è a sua volta parte attiva nel processo di
ricerca attraverso il “metodo” della conricerca (Alquati, 1993) e della
narrazione. Non si è trattato propriamente di scegliere un metodo, né
semplicemente di riportare un pensiero sull’esperienza, ma di un modo
di costituirla, di darle forma e di interrogarla al contempo. Un atto
interpretativo: non un semplice sapere ma già un giudizio. Le stesse situazioni
e gli stessi eventi potrebbero infatti ripetersi senza però suscitare
il pensiero. Così la situazione della generazione flessibile, della precarietà,
della invisibile rappresentanza del lavoro della conoscenza è apparsa
per lungo tempo - anche a se stessa - come un dato evidente e quasi atemporale,
fino agli anni recenti, quando il pensiero, distaccandosi dall'evidenza
dell'esperienza, non l'ha messa in questione, ne ha fatto un dato problematico
e, sottoponendola al giudizio, ne ha tracciato una rappresentazione sociale
(Allegri, Ciccarelli, 2011). Pensare e narrare l'esperienza non è dunque,
o non è solo, renderne conto, rifletterla per analizzarla, bensì superarla.
Il pensiero comporta un atto, un modo di dare forma o di ridare forma
al dato.
Il pensiero narrativo della conricerca si avvicina sì all'esperienza ma
non compie un’operazione di “voice” poiché l'esperienza stessa è mai puramente
fattuale - un'esperienza grezza. Abbiamo mai a che fare solamente con
«le cose stesse»? Pensare non è soltanto rendere conto: è sempre anche
e soprattutto giudicare in base a una intenzionalità ed a un punto di
osservazione situato, e immaginare. Inoltre, l'accesso dei soggetti all'esperienza
del pensiero passa attraverso il loro accesso alla dimensione dialogica
e narrativa. Il pensiero della conricerca è innanzitutto il pensiero di
questa esperienza che consiste nel riconoscere l'altro/a attraverso il
discorso come agente del divenire del pensiero, come depositario/a di
un momento di conoscenza. E' il costituirsi di questa relazione che fa
essere l'altro e, dando credito alla sua parola, le riconosce la capacità
di generare simbolicamente e socialmente. L'articolazione dialogica del
pensiero sembra al cuore della sua vitalità. Perché non siamo chiamati
ad allinearci al dato bensì a creare del senso e l'esperienza non è un
fatto di cui il pensiero renderebbe conto, ma è già da sempre un racconto
suscettibile di essere ripreso in una nuova narrazione. Non è tanto la
delucidazione di quel che è già ma piuttosto è il far essere quel che
non è ancora. Ci preme sottolineare la fecondità dei paradigmi interpretativi,
degli approcci comprendenti nella loro totalità e in particolare dei modelli
di analisi narrativa (Bourdieu, 1995; De Maziere e Dubar, 1997; Czarniawska
1999; Poggio, 2004; Bruni, Gherardi, 2007) a cui desideriamo affiancare
nello specifico il metodo(non metodo) dell’inchiesta sociale e della conricerca
(Alasia, Montaldi, 1960; Alquati 1993); proprio per la sua capacità di
ridurre la distanza tra “oggetto” e soggetto della ricerca ci sembra particolarmente
idoneo a indagare la soggettività e le esistenze dei lavoratori della
conoscenza.
A partire da queste scelte “metodologiche” e epistemologiche di fondo,
si è svolta la nostra ricerca sul campo. Essa ha coperto un intervallo
temporale longitudinale di tipo biografico ed è nata da interrogativi
di natura essenzialmente descrittiva che non ambiscono a produrre spiegazioni
e interpretazioni di portata generale: non si è preteso costruire un campione
di tipo rappresentativo, ci si è limitati a indagare in profondità un
segmento del lavoro, a nostro avviso rilevante per i cambiamenti in corso.
Si è proceduto alla costruzione (progressiva) del campione, il theorical
sampling (Glaser, 1978) con il procedimento dello snowballing dei casi
interessanti gli ambienti socio-professionali e gli “eventi” per via della
possibilità che questo strumento offre di accedere con facilità a cluster
di relazioni significative. Il campione così definito, si compone di 39
interviste di casi confrontabili: con caratteristiche di sufficiente omogeneità
(per via dell’appartenenza a un comune definito mondo socio professionale,
quello degli eventi ITC e Nuovi Media e/o negli ambienti connessi alle
filiere) e di adeguata variabilità (per quanto riguarda la fascia d’età,
la provenienza sociale, il genere, la tipologia contrattuale e l’ammontare
del reddito).
Per quanto riguarda i criteri di interpretazione, le interviste sono state
raccolte in quanto “recits” (Bertaux 2005: 21) e non come “storie”, dunque
la loro importanza consiste nel riportare narrazioni significative di
vissuto, con un accesso all’esperienza mediato dalla soggettività e non
come una sequenza oggettiva di fatti e di eventi. Le interviste non ci
offrono neppure il punto di vista dei soggetti quanto piuttosto la rappresentazione
che essi ci vogliono offrire nella inter-azione dialogica dell’intervista.
Per lo sviluppo della nostra ricerca ci siamo domandati quali sono le
categorie implicite che strutturano l’universo delle narrazioni raccolte
e come è possibile riconoscerle. A tal proposito, secondo DeMaziere e
Dubar occorre distinguere con molta chiarezza le categorie sostanziali
presenti nelle narrazioni dalle categorie scientifiche e queste ultime
a loro volta dalle categorie ufficiali [2].
Le categorie sostanziali sono le categorie del linguaggio sociale (naturale)
attraverso le quali i soggetti esprimono la loro logica pratica rendendo
conto delle situazioni che vivono e in esse il pensiero che emerge dalla
descrizione delle esperienze costituisce un superamento dell'esperienza
- che le dà forma.
Per quanto riguarda l’intero procedimento di elaborazione inerente l’analisi
del testo (De Maziere, Dubar, 2000), il principio ordinativo è stato quello
dei casi e non della costruzione di matrice di dati attraverso variabili
(Miles, Huberman, 1994). Si pone qui la necessità di operare una distinzione
importante sull’uso dei casi come criterio analitico principale. Se si
fa riferimento ai casi si evidenzierà il percorso, la storia di ogni specifico
caso attraverso una concatenazione tra le variabili riferite a quel caso.
L’aspetto interessante è che con questa modalità si è indagato quanto
dalle singole narrazioni, dai singoli percorsi siano estrapolabili modelli
comuni a più casi. Il vantaggio e la ricchezza di questo approccio sta
nella sua potenzialità esplorativa e consiste nel contemplare la possibile
serendipity (Ricolfi, 1997; Cardano, 2011), nel poter conoscere categorie
del discorso che emergono induttivamente dalle analogie tra i casi, categorie
non previste all’inizio dalle ipotesi.
5. L’intervista semi-strutturata narrativa come tecnica di ricerca
Abbiamo scelto di privilegiare tra le tecniche qualitative l’intervista
semi-strutturata a risposta libera che permette di cogliere i significati
dei comportamenti e le motivazioni all’agire attraverso la descrizione
che ne danno gli stessi soggetti attraverso il suo sviluppo dialogico
(Cipolla, 1998). Tematiche delicate quali la precarietà e l’invisibilità
sociale potrebbero sollevare alcune resistenze da parte degli intervistati,
resistenze che possono essere superate durante l’interazione e i punti
di svolta consentiti dall’intervista semi-strutturata grazie proprio alla
libertà di calibrare il linguaggio tenendo conto delle reazioni emotive,
della interlocuzione e del riconoscimento reciproco delle identità (Sormano,
2008).
Tutte le interviste raccolte per sviluppare la ricerca empirica sono state
realizzate predisponendo in via preliminare un unico schema-traccia di
intervista incentrato su di una serie di temi inerenti le ipotesi di ricerca.
Particolare attenzione è stata dedicata alla stesura della traccia tenendo
conto di alcune riflessioni metodologiche ed esperienze di ricerca sul
campo inerenti i modelli di intervista narrativa (Bertaux, 1999; Trentini
2000; De Maziere, Dubar, 2000; Barley, Kunda 2004; Olagnero, 2005).
Le domande della nostra traccia: alcune di esse sono le “fondamentali”,
nel senso che ci aprono le tematiche proposte all’attenzione di tutti
gli intervistati, mentre altre costituiscono più che altro degli “stimoli”
e delle possibilità di approfondimento che, di volta in volta, sono stati
percorsi a seconda dell’andamento dialogico dell’intervista. La traccia
d’intervista semi-strutturata narrativa si è posta come obiettivo di schematizzare
gli elementi utili a ricostruire l’habitus (Bourdieu, 1995) dell’intervistato,
ovvero l’insieme degli schemi di percezione, valutazione e azione - evitando
quindi di considerare il soggetto come un mero attore razionale e considerandolo
invece inserito in una trama complessa di relazioni, valori e pratiche.
Rimandiamo per il testo completo della traccia d’intervista al volume
(Armano, 2010b:16-24) che peraltro racchiude anche la trascrizione in
extenso delle interviste narrative biografiche (Armano, 2010b: 25-384).
Ci limitiamo ora a precisare i due criteri con cui la traccia è stata
redatta: la narratività e la specificità.
Sull’importanza della narratività non ci siamo soffermati abbastanza.
In un discorso sulla condizione socialmente frammentata, la scelta della
narratività consente di “ricostruire un racconto di vita a partire dai
pezzi spesso sparsi che formano l’esperienza del lavoratore” (Sennett,
2001). I racconti professionali possono servirci a “capire in che modo
l’individuo riesce a colmare questo vuoto di senso” (Sennett, 2001), poichè
la presentazione narrativa degli avvenimenti pervade e attraversa i dispositivi
sociali segnati dalle forme giuridico contrattuali.
Figura 1.1 Schema d’ intervista semi-strutturata narrativa
Sotto questo profilo e per queste ragioni l’intervista ha un andamento
narrativo, un po’ come delle brevi e più strutturate storie di vita: emergono
più esperienze, emerge il tempo che trascorre, emerge quel vissuto invisibile
e indicibile che spesso non si vuole condividere, emerge la ricostruzione
dal punto di vista del soggetto, emergono comuni recits.
Scegliere il criterio di specificità rimanda invece ad una questione di
metodo della etnosociologia. Significa calibrare il metodo a seconda dell’oggetto
e degli obiettivi. E’ necessario che, a seconda del tipo di fenomeno che
si intende affrontare, si disponga di una serie di conoscenze specifiche
su quella che é la condizione specifica di quel tipo di soggetto. E in
base alle conoscenze preliminari si rediga lo strumento di indagine. Abbiamo
deciso di redigere la traccia d’intervista con il criterio di specificità
poichè, a nostro avviso, per questa ricerca, sarebbe stato meno efficace
l’impiego di uno schema d’intervista generale (del tipo solitamente in
uso per le ricerche sulle condizioni di lavoro), ovvero uno schema sulle
condizioni generali del lavoro che indagasse su tempi, metodi, organizzazione,
orari, contratto, disagio e ripetitività.
Con il criterio di specificità abbiamo individuato alcuni puntuali nuclei
tematici per la struttura (aperta) della traccia d’intervista:
- temporary affiliation and contingent commitment: cosa comporta a livello
di soggettività la temporaneità dei lavori e il vivere le transizioni;
- task orientation: cosa comporta il lavorare per obiettivi, l’impegno
a progetto in termini di soggettività. In che misura investe la propensione
all’autorealizzazione, il gestire il rischio in proprio con selfdetermination,
ricerca di senso, creatività e senso di normalità dell’autosfruttamento;
- knowledge: come si ridefinisce il rapporto tra tecnologia/formazione
delle conoscenze/organizzazione: i diversi tipi di conoscenze che ruolo
svolgono: conoscenze formali e conoscenze eccedenti, (tacite, situate
e biografiche) come conoscenze effettivamente spendibili nel lavoro;
- tempo: come varia la rappresentazione del tempo a seconda del auto-posizionamento
del soggetto: tempo infinito, tempo limitato, tempo breve, tempo inesistente.
Come, cioè, mutano le attese in relazione all’esperienza pregressa e qual
è la percezione (individuale/collettiva) del futuro.
6. Risultati
Per quanto riguarda i risultati, la ricerca empirica ha prodotto un repertorio
di categorie sostanziali (Bertaux, 1998; De Maziere e Dubar, 2000) ricavate
dalla codificazione induttiva (Glaser e Strass, 1967a) delle narrazioni.
Le categorie sostanziali sono le categorie del linguaggio sociale attraverso
le quali i soggetti esprimono la loro logica pratica rendendo conto delle
situazioni che vivono (De Maziere e Dubar, 2000). Esse sono rilevate mediante
un’analisi interna delle produzioni linguistiche dei soggetti, appartengono
quindi all’analisi del testo in relazione ai contesti in cui i soggetti
descrivono-situano-posizionano la loro esperienza.
A ciascuna delle categorie sostanziali sono state associate alcune note
esplicative di chiarimento che facilitano l’attribuzione di stralci di
brani, parole chiave o frasi dell’intervista, alla singola categoria.
Esponiamo ora sinteticamente alcune di queste categorie sostanziali e
rimandiamo per la descrizione completa dell’interpretazione delle interviste
al rapporto di ricerca (Armano, 2010a: 95-176).
6.1 L’informalità nella gestione delle transizioni
Nelle diverse narrazioni dei knowledge workers la natura informale delle
relazioni sociali è risultata centrale per comprendere le traiettorie
individuali.
Come si esplica l’informalità delle relazioni? Cosa si intende per transizioni?
Nella pluralità di esperienze professionali, di condizioni contrattuali
e di provenienza sociale, i lavoratori della conoscenza si misurano con
un comune problema: riuscire a dare continuità al proprio lavoro e riuscire
a restare nel proprio campo professionale
“..la caratteristica predominante del lavoro che sto svolgendo in questi
ultimi tre anni: l’ interruzione. [...] ogni volta, di sei mesi in sei
mesi, [...] c’è sempre poi a fine contratto il punto interrogativo di
quale sarà il mio futuro. [Renata_38; Architetto, Cocopro]
L’interruzione, la nuova assunzione, la conclusione del contratto e del
progetto sono alcune delle possibili transizioni che assumono centralità
nelle narrazioni. Sono momenti di contrattazione e negoziazione informali,
conflitto, dialogo, crescita e apprendimento, promozione sociale, esclusione,
fuga. Dalle narrazioni si ha l’impressione che tanto, soggettivamente,
si stia giocando lì, condensato, in quei particolari momenti di svolta.
Una visione che emerge con grande forza dalle narrazioni, come punto di
vista dei soggetti e che contrasta con le coordinate standard degli studi
sul lavoro che solitamente si propongono di indagare principalmente sulle
condizioni generali del lavoro quali livello dei salari, orari, organizzazione,
ritmi di produzione, dando cioè per scontata la continuità del lavoro
la cui centralità invece appare per nulla scontata nelle rappresentazioni
soggettive dei lavori della conoscenza, spesso non standard, a tempo e
a progetto.
Decisivi allora sono i passaggi di uscita e di entrata dai ruoli lavorativi
piuttosto che la permanenza dentro i ruoli stabili del lavoro; questa
condizione lavorativa ci sembra paradigmatica della forma liquida del
lavoro postfordista (Bauman, 2000/2002) . Nei lavori della conoscenza
l’esperienza delle transizioni e della discontinuità esonda però decisamente
al di là dell’ambito contrattuale:
“Dal 2005, da quando sto lavorando con questa società sono stata assunta,
non ho (più) un contratto temporaneo, ora è un contratto a tempo indeterminato,
però comunque sono un consulente, cambio il posto da progetti a progetti,
da cliente a cliente, dipende dal progetto quanti mesi vogliono, può essere
un mese, di più, un anno.
E’ bello, da un punto di vista, perché non fai sempre lo stesso lavoro,
cambi il posto, cambi il progetto, fai delle cose interessanti, nuove,
che non hai visto, a volte fai dell’esperienza, conosci anche tante persone,
però, da un altro punto vista, è come se fossi in concorrenza, sempre
in concorrenza e poi anche come in periodo di prova. Per ogni progetto
come minimo per un paio di settimane è come se fossi in prova.…come se
non finisse mai questo periodo di prova.” [Sara_41; informatico, contratto
a tempo indeterminato in grande impresa]
L’ intervistata non stanno parlando del rinnovo del contratto, qualcosa
di più ampio e profondo del contratto o del reddito, parla di sé stessa,
dell’”essere rinnovata” come identità lavorativa e sociale, o dell’essere
respinta. Chiaro il tema tra le righe. L’esperienza della discontinuità
riguarda lo sradicamento possibile, la mancanza di una narrazione continuata
e la transizione che segna e investe il suo essere. E che può diventare
una forma mentis:
“[..] secondo me la nostra generazione l’ha assorbita proprio come forma
mentis, ci siamo formati con la concezione che tutto ha un termine, che
bisogna vivere questo momento e che di dopo non si sa…[..] non riesci
proprio ad arrivare oltre un certo limite. e’ a termine anche il pensiero”
[Valentina_26; insegnante a progetto]
Queste transizioni-discontinuità appaiono sempre in agguato; quali sono
allora i dispositivi spontanei di difesa e soggettivazione? Le modalità
di autotutela informali vengono descritte come cruciali e di vario tipo:
il network delle conoscenze lavorative e professionali costituisce l’ambiente
immediato in cui poter spendere le propria attività; e a cui ricorrere
in caso di difficoltà; mentre il network delle relazioni familiari e amicali
nell’immediato funziona come elemento di protezione sociale ma nel lungo
periodo opera in maniera molto ambivalente come elemento di selezione
sociale. L’informalità e relazionalità della produzione inizia a mostrarci
qui una delle sue facce oscure: ai giovani provenienti da contesti economici
e sociali favorenti vengono offerte possibilità di fatto negate ad altri,
un’iniquità che riduce a fatto personale la questione sociale delle opportunità.
Come viene descritto - affrontato in pratica il problema della continuità
del lavoro e del reddito? Alcuni, anche nei periodi non coperti contrattualmente,
talvolta continuano ad essere presenti gratuitamente sul lavoro. E’ necessario
- ci dicono - per poter mantenere vivo il rapporto di fiducia con il committente-datore
di lavoro, anche solo per riuscire a recuperare quanto maturato in precedenza.
6.2 Informalità e temporaneità della formazione
“.. il lavoro professionalizzato attiene a quello che so. [..] dopo un
paio d’anni in cui mi sembrava di avere imparato molte cose, mi accorgo
che, quel tipo di azienda [..] rispetto al sapere di ricerca non mi dà
niente da un pezzo.” [Alessandro_32 web content, cocopro fuorimicrofono]
Le dimensioni del contingente e dell’informalità investono anche la formazione.
La formazione acquisita nell’ambiente informale risulta un terreno fondamentale
per sopravvivere professionalmente, a fronte della sempre più veloce obsolescenza
dei saperi. Così, la formazione - in senso lato - veicolata direttamente
e indirettamente dal network di contatti e relazioni, a fronte di contratti
spesso temporanei, costituisce un’importante risorsa per non soccombere
al rischio del mercato.
I diversi intervistati ritornano spesso sul network informale come ambiente
privilegiato per l’”aggiornamento” di capacità, saperi, competenze e conoscenze.
Connessione e reti informali sono bisogni ricorrenti, non solo intese
come strumenti e tecniche, ma anche come luoghi di relazione e circolazione
di conoscenze e informazioni, luoghi di apprendimento, formazione, innovazione.
L’apprendimento informale attraverso la partecipazione al lavoro e la
frequentazione di luoghi di appartenenza é la via preferita per la possibilità
di sviluppare competenze, relazioni e contatti. Non si tratta solo di
competenze ma anche di capacità eccedenti, saperi taciti anche non immediatamente
codificabili e spendibili, attitudini personali e conoscenze di ambienti.
Saperi relazionali situati nella cooperazione e inseparabili da essa.
Dalle diverse narrazioni emerge che decisivi per poter sopravvivere in
questo mondo lavorativo sono i diversi tipi di saperi informali: saperi
taciti, saperi relazionali, (situati nella cooperazione) e saperi biografici.
Ognuno di essi meriterebbe una specifica descrizione a partire dalle narrazioni.
A proposito dei saperi biografici un’intervistata sostiene vivacemente:
“.Se uno esce dall’Università e non ha mai lavorato esce che è un rincoglionito
totale; non sei pratico, non capisci le cose, se invece qualcosa hai fatto,
riesci a essere più intuitivo a livello di relazione con le persone, che
è la prima cosa della vita.[...] Comunicare, essere intuitivi per scegliere.
Dire: “secondo me questa cosa qui va e questa non va. Scegliere per le
sensazioni che ti dà. E’ una cosa mia che sento delle cose, dico questo
si, questo no” [Patrizia 27, Promotore software, contratto di prestazione
occasionale presso software house]
E’ necessario sottolineare che la formazione diventa più importante che
in passato perché nel lavoro della conoscenza, il ruolo e la professione
altresì risiedono personalmente nel lavoratore, a differenza della tradizione
fordista che definiva puntualmente i contenuti di lavoro, le posizioni
e le competenze necessarie. E dunque decisivo diviene il ruolo della formazione
(formale e informale).
6.3 Il legame tra conoscenza e autodeterminazione
Nei network informali l’autodeterminazione risulta essere un itinerario
che richiede un continuo arricchimento di strumenti conoscitivi e relazionali;
autodeterminazione e conoscenza ci appaiono strettamente congiunte:
“posso dire che per fare questo lavoro è obbligatorio aver [..], l’attitudine
che qualsiasi cosa noi la possiamo fare o trovare qualcuno che la potrà
fare. [..] dobbiamo essere versatili. [..] “ma io questo non lo so fare!”.
“ma puoi imparare a farlo - io dico - prendi il lavoro!”. [Claudio_32
web designer, lavoratore autonomo]
E’ proprio il carattere relazionale della produzione, la disponibilità
a cambiare gli schemi cognitivi, ad attivarsi e apprendere anche di fronte
a situazioni nuove e impreviste mettendosi in gioco a metà tra saperi
sociali diffusi e conoscenze codificate che rappresenta un fondamentale
segno del nuovo lavoro e una caratteristica saliente della nuova modalità
organizzativa che la contraddistingue rispetto al passato.
La questione della combinazione dei saperi sociali diffusi è un altro
elemento di novità rispetto al passato:
“…mi sono fatta trascinare da questo modo di vivere universitario che
è impagabile. ...del Carpe Diem… di cercare di fare più cose possibili..
conoscere tante persone...anche se non uscivi… stare ore e ore a chiacchierare[..]
Poi mi appassionava, avevo imparato da sola ad usare il computer per me
era bello come un gioco. E di psicologia avevo capito che non potevo sperare
di poterci vivere, di cavarci un reddito e infatti i primi lavori che
ho cercato li ho cercati negli internet provider [...] e non come psicologa,
anche perché prima studiando è difficile e poi da noi c’è un periodo di
gavetta mal retribuito, di sfruttamento; non è assolutamente una fonte
di sussistenza. Questa mia competenza informatica all’inizio andava in
parallelo con la mia competenza psicologica, [..] poi ho imparato a fare
siti web, anche dove oggi faccio consulenze come psicologa sono entrata
per fare il loro sito web, la creazione di siti web è stata una delle
mie prime attività retribuite, non la psicologia..” [Gloria_32 Web designer,
cocopro]
Di nuovo c’è che i saperi sociali diffusi e i saperi taciti e biografici
si combinano e si intrecciano inestricabilmente con le competenze e i
saperi codificati: la capacità di apprendere nozioni secondo linguaggi
formalizzati, la condivisione dell’informazione, la capacità di collaborare
in contesti nuovi, l’abilità nel comprendere le situazioni e dedurre dai
principi la soluzione dei problemi diventa allora un tutto unico. Il lavoro
esige un elevato grado di sapere cognitivo, di capacità combinatoria,
di “creatività”, qualità quest’ultima che oggi, a differenza che nel fordismo,
non è più negata, ma anzi è favorita da una preparazione, da una conoscenza
specifica e da un ambiente a network, che la richiede. E il lavoratore
della conoscenza deve farsi attore della propria traiettoria socio-professionale
e saper(si) proporre.
6.4 Autodeterminazione
E’ sorprendente come dalle interviste il bisogno di autodeterminazione
sia emerso spontaneamente. All’inizio della ricerca ci attendevamo che
i partecipanti parlassero più facilmente del tema dei diritti, dell’instabilità
contrattuale, della rappresentanza difficile o assente. Invece abbiamo
constatato quanto emergessero ripetutamente discorsi sul valore della
realizzazione di sé nel campo professionale. E’ su di essi che ruotano
principalmente le narrazioni come elemento fondamentale dell’identità
di questi lavoratori:
“…e ci siamo messi alla prova, da soli a realizzare un prodotto, cosa
che fino ad allora mai.. eravamo sempre stati quelli che lavoravamo per
qualcuno che ci diceva cosa voleva e noi gli davamo il nostro apporto
creativo e sperimentale, ma una cosa nostra, non l’avevamo mai fatta e
quella fu forse la prima volta e realizzammo che eravamo capaci a farlo.
ecco, questo è positivo”. [Paul 50; Video maker, indipendente]
Lavorare per progetti significa lavorare con una remunerazione misurata
non più prevalentemente a tempo bensì a obiettivi. Si costituisce una
forma mentale che corrisponde a questo modo di lavorare, una mentalità
incentrata su l’immedesimazione, l’autodeterminazione, l’autonomia, la
temporaneità: l’esprit du capitalisme secondo Boltanski e Chiappello (Boltanski
e Chiappello, 1999) :
“…penso che se uno fa con piacere, è la cosa più importante. [..] è contento
e stimolato; fare due ore-cinque ore in più non pesano.
Ma fare due ore in più o anche un minuto in più di una cosa che non piace
sicuramente pesa da morire” [Fabio_29; Assegnista di ricerca, Politecnico
di Torino]
E come per un piccolo artista, la remunerazione principale sembra essere
di tipo motivazionale (per il riconoscimento del ruolo di “autore”). I
partecipanti si immedesimano fortemente nel lavoro e sono orgogliosi di
poter scegliere l’attività, di creare qualcosa e poter gestire da sé il
tempo di lavoro, il tipo di progetto e di attività, più in generale della
particolarissima condizione di “sentirsi capace”. Nelle singole esperienze
lavorative i lavoratori ambiscono ad essere “creatori di senso” (Pilmis,
2007) – ovvero ritengono rilevante, nell’ambito delle attività erogate,
la componente del significato e della creazione dei contenuti.
L’autonomia (non solo quella organizzativa) costituisce allora contradditoriamente
una caratteristica di fondo (Boltanski, Chiappello, 1999) del lavoro nella
economia della conoscenza e rappresenta proprio per questo un’attrattiva
importantissima per chi aspira ad entrare in questo mondo del lavoro,
per essa si è disposti a pagare costi altissimi; la remunerazione principale
non è economica ma motivazionale e/o di status con la rinuncia (anche
totale) ai diritti e al salario, in una dimensione che sfiora l’essere
felici e (auto)sfruttati (Formenti, 2011). L’esperienza lavorativa, le
relazioni, le modalità “a tempo” concentrate nei confini dello sviluppo
del progetto, a partire dal lavoro delineano una forma mentis, si estendono,
diventano parte del modo normale di pensare e di vivere.
6.5 La propensione a restare nel campo di attività
“Dunque, io sono nella redazione. Mi occupo di pezzi, alcuni pezzi, intervistare
galleristi, artisti e di coordinare un pochino il lavoro editoriale, redazionale.
Definire un po’ il trend della settimana, capire qual è il filone da seguire.
Per esempio per “Artissima” abbiamo fatto diversi progetti tra cui l’intervista
a tutti i galleristi presenti e in più abbiamo seguito in parallelo gli
eventi all’esterno alla Fiera. Questo è anche un po’ il mio compito, dare
un po’ il cammino da seguire a tutti gli altri. [..] Una realtà molto
giovane, interessante perchè lavora direttamente sul contemporaneo. [..]
In questo momento ho una collaborazione a progetto[Con un contratto Cocopro?
domanda] Immagino di si, al momento è ancora da definire...in realtà sono
circa due mesi e stiamo cercando di dare una forma anche un po’ strutturata
alla mia collaborazione..è tutto abbastanza generico in questo momento.[..]
Al momento dal punto di vista lavorativo vorrei crearmi io qualcosa di
parallelo a questa realtà, vorrei lavorare con istituzioni, strutture,
vorrei proporre dei progetti fattuali, pratici, anche nella didattica”
[Marta_27, “stagista” in giornalismo d’arte in un Portale web di Media
Art]
Nel corso della ricerca sul campo ci attendevamo che dalle interviste,
accanto al desiderio di autodeterminare i contenuti e l’attività emergesse
parallelamente anche la preferenza per l’autonomia contrattuale, ma le
interviste hanno smentito le nostre attese ed è apparso un elemento chiaro
di serendipity (che ha accomunato e caratterizzato i diversi profili di
lavoratore della conoscenza); più che un tipo di contratto (o di un determinato
ammontare di reddito da raggiungere o di una specifica figura professionale
e contrattuale) è invece il voler mantenere la propria attività nel campo
della knowledge economy l’elemento che ha contraddistinto la condizione
socio-professionale del knowledge worker dal punto di vista della rappresentazione
soggettiva. Il volere restare nel proprio campo di attività - anche a
costo di grandi sacrifici - prima ancora del desiderio di autonomia contrattuale.
E per riuscire restare nel network informale delle relazioni, sono stati
descritti come fondamentali, l’apprendimento continuo, una buona dose
di motivazione personale, di capacità di mantenere relazioni di fiducia
e di autodeterminazione. Il baricentro dei discorsi ruotava intorno a
questi elementi.
Su questa base è forse possibile sostenere che la tradizionale dicotomia
tra lavoro autonomo e lavoro dipendente utilizzata per indicizzare la
propensione all’autodeterminazione per molti versi non ha funzionato come
chiave interpretativa all’interno del nostro campione. La scelta per l’autonomia
contrattuale o viceversa la propensione per il lavoro dipendente sono
risultate meno significative di quanto potessimo ipotizzare inizialmente.
Come emerge dal raggruppamento dei casi, persino i discorsi dei lavoratori
con contratto dipendente sono stati investiti da aspetti che vanno nella
direzione della preferenza per il lavoro per obiettivi, il che denota
la ricerca di autonomia e la centralità assegnata al desiderio di realizzazione
nell’attività.
E riuscire a restare nel proprio campo di attività significa riuscire
a restare in questo network:
“...ho avuto la fortuna di trovare chi mi offriva delle consulenze, amici.
Persone che in verità ho conosciuto sul lavoro o in radio, e poi con le
quali poi parlando così sono nate, si sono interessate e sono nate delle
opportunità, nel momento in cui tu devi offrire un lavoro è meglio se
tu lo dai a qualcuno che sai che cosa fa. Questa è la rete. Non ho una
rete di vendita di fatto e vivo qui negli eventi. Vado possibilmente a
tutti gli eventi.
L’errore più grande che ho fatto nel 2004, che pure era anno di crisi,
fu aver tanto da lavorare per dei progetti, chiudermi in casa e far solo
quello quindi io finiti questi progetti mi trovai nudo, anche senza agganci,
la gente non sapeva che esistevo. Devo far girare il nome e funziona”.
[Claudio_32 web designer, lavoratore autonomo]
“...perché una volta che uno esce da certi giri non rientra” [Renata_38
architetto, cocopro]
6.6 Traiettorie Precarie
Nel mondo fordista la precarietà del lavoratore della conoscenza era spesso
assimilabile all’immagine dell’insegnante precario, cioè del lavoratore
che - entro un percorso di carriera ben definito - doveva essere confermato
durante la fase di accesso ma che una volta entrato a far parte di una
organizzazione aziendale avrebbe sviluppato progressivamente quella professione.
Nel mondo postfordista, invece i percorsi possibili sono molteplici e
le direzioni di sviluppo non sono definite a priori, le singole esperienze
temporanee di lavoro non traghettano necessariamente verso la continuità;
è dunque possibile intraprendere l’accesso in un percorso lavorativo e
poi vivere l’interruzione e sfociare verso un’altra esperienza collegata
ad una prospettiva differente e via di seguito in un cattivo infinito.
Il fenomeno specifico che si disegna è quello delle biografie spezzate
(Bologna, Banfi, 2011; 138) dove le transizioni segnano e segmentano le
biografie professionali e di vita: mentre si chiudono i percorsi intrapresi
si cercano possibilità verso altre direzioni e i partecipanti vivono la
convinzione (illusoria?) di dover-poter essere in grado di disporre di
se’, da sé, (Beck, 2000 a) facendo baricentro sulle proprie risorse materiali,
mentali, sociali.
Questa precarietà delle traiettorie - ovvero dei percorsi lavorativi tracciati
nella gestione delle transizioni tra vincoli e opportunità - ricorre con
estrema forza dai racconti degli intervistati.
“Finito. Subito ho cercato altro. Bisogna avere una capacità di reazione
veloce: attutire i colpi, i cambiamenti, questa è una situazione molto
legata al precariato adesso, di questo momento...” [Elena_25; archivista
digitale per Gammaservice in Rai, cocopro]
“..Tu entri come tecnico,[..] Entri con quest’idea e poi scopri da subito
che non è così, tu che magari fai il programmatore o il tecnico informatico
e sei in un’azienda che è cambiata, è diventata a forma matriciale, non
fa più sviluppo ma fa analisi e allora non fai più sviluppo, devi fare
l’analista o te ne vai.
Questo mi è successo un mucchio di volte. Se tu vuoi mantenere il tuo
ruolo cambi azienda, quindi mi è successo di fare così: per mantenere
il mio ruolo, di cambiare l’azienda, per mantenere una professionalità
spendibile o in cui io mi identifico..” [Alfredo_44, ingegnere elettronico,
data base administrator]
C’è chi racconta di essere entrato alle dipendenze di un’azienda per il
lasso di tempo sufficiente ad accumulare competenze e conoscenze che hanno
consentito lo sviluppo di un network e di una propria attività autonoma.
Chi per il tempo sufficiente ad impratichirsi e conoscere un campo per
poi spostarsi in un’altra azienda usando un ambiente ricco di conoscenze
per formarsi, come una sorta di ponte-leva per i propri progetti professionali.
Chi intende, in modo deliberato e consapevole, continuare ad applicare
questa logica di infedeltà aziendale anche nel futuro:
“…soprattutto per questi lavori a progetto, piuttosto che mettersi a discutere
la modalità, mettere magari in atto delle proteste e cose così, viene
scelto la modalità più veloce e bon. non mi piace e me ne vado da un’altra
parte”. [Elena_25; archivista digitale in Rai, cocopro]
Nelle traiettorie precarie l’infedeltà aziendale per il lavoratore della
conoscenza appare essere uno strumento e un sintomo della propria situazione.
Infatti poter cambiare azienda senza rimpianti é un vantaggio, tutto sommato,
non uno svantaggio, e la reversibilità e l’infedeltà aziendale sono gli
atteggiamenti-chiave a partire dai quali i lavoratori della conoscenza
cercano di rileggere e rovesciare la trappola della temporaneità a proprio
vantaggio facendo leva sulle proprie capacità, disponendo di autonomia
dall’azienda e ricontrattando di continuo la propria posizione per provare
a disegnare da sé la propria traiettoria.
Alle volte si tratta di percorsi “orientati” in cui i singoli combinano
originalmente sequenze di attività che permettono la crescita di capacità
ricollocabili in altri contesti lavorativi: qui vi è un chiaro elemento
di intenzionalità. E il ”navigare a vista“ si fa razionalità processuale.
In altre traiettorie risaltano di più i “ punti di svolta” in cui i singoli
sono entrati in contatto con nuovi contesti lavorativi. Altri ancora si
misurano semplicemente con la generale difficoltà di “traghettare” perchè
di questo di tratta, un percorso.
“Non ho un progetto, adesso per qualche mese vado avanti così. [..] Le
prospettive sono quelle di continuare su questa strada.” [Gianni_30, giornalista
web, freelance, multicontratto]
In generale da queste diverse narrazioni di traiettorie emerge che per
i lavoratori della conoscenza, oltre alla precarietà contrattuale, si
configura una specifica precarietà che consiste nella difficoltà a far
convivere la propria formazione e le aspirazioni alla realizzazione di
sé con le opportunità che nel lungo periodo offre effettivamente il mercato.
Per sottrarsi a questo tipo di precarietà si fa leva sulle conoscenze
incorporate e spendibili, sulle esperienze cumulative e sulla capacità
di costruire soggettivamente traiettorie lavorative orientate:
“...intendo rimanere qua ancora per un po’ perché sto imparando cose nuove
con persone competenti dopodiché cercherò di giocarmela da un’altra parte.
Se qui ancora una volta non mi danno quello che mi spetta in termini di
crescita, non solo in termini economici, è chiaro che non ci posso stare…”
[Paolo_35 consulente informatico]
La dimensione della precarietà tipica dei lavoratori della conoscenza
che li distingue dalla forza lavoro generica e indifferenziata come dai
lavori genericamente atipici, riguarda allora l’incertezza della traiettoria
(Murgia, 2010), la capacità di riuscire a costruire o meno un percorso
verso una professionalità e un’identità socialmente riconosciute. Mentre
per un lavoratore atipico generico venendo meno il contratto vengono meno
il reddito e i diritti del lavoro ma rimane pur sempre una professione
riconoscibile - per quanto modesta essa sia -, dalle narrazioni emerge
che per il lavoratore della conoscenza il venir meno del contratto e del
reddito significa spesso il venir meno di una posizione sociale e di una
identità, e poi nel concreto il dover accettare la retrocessione in attività
spesso meno remunerative e/o che non impiegano i saperi faticosamente
acquisiti. Da questi risultati emerge che nei lavori della conoscenza
gli status contrattuali e professionali non sono nettamente e stabilmente
definiti ma tendono ad essere fluidi cosicché anche il concetto di professione
(Luciano, 1987; Bologna, Banfi, 2011) sembra assumere contorni aperti,
non più definibili nettamente e la condizione lavorativa del lavoro della
conoscenza bene viene descritta soggettivamente tramite i concetti di
transizione e di traiettoria (Murgia, 2010).
7. Conclusioni: dalle categorie sostanziali alle ipotesi teoriche
passando per le narrazioni
Negli ultimi anni lo studio del lavoro della conoscenza riveste un rinnovato
interesse. Numerosi e approfonditi sono gli studi che hanno analizzato
la condizione dei knowledge workers adottando una prospettiva di tipo
quantitativo, incentrandosi sulla stratificazione sociale e sulla composizione
professionale e organizzativa. Pochi invece sono ancora gli studi accurati
sulla composizione soggettiva.
Con una ricerca sul campo di tipo qualitativo e con un approccio di tipo
narrativo e biografico abbiamo tentato di ricostruire il punto di vista
dei soggetti e di esplorare le categorie sostanziali (grounded theory)
del discorso attraverso l’analisi delle interviste. La finalità di questo
processo di ricerca è stato il confronto tra le categorie di situazione
emerse dalle narrazioni con le iniziali ipotesi teoriche volutamente formulate
in modo aperto e esplorativo (De Maziere e Dubar, 2000). Un procedimento
che potremmo definire sinteticamente di tipo analitico e euristico.
Il criterio di validità è stato quello della significatività dei casi
rispetto alle ipotesi e non della rappresentatività del campione rispetto
alla popolazione.
La “verifica” di validità si è misurata su queste domande: l’analisi delle
interviste ci dice qualcosa in più rispetto a quello che sapevamo prima
della soggettività in questione?, ovvero quali sono le categorie sostanziali
che possiamo trarre sistematicamente dalle narrazioni e in che modo queste
ultime arricchiscono ma soprattutto esplorano le nostre ipotesi teoriche
iniziali su come si compone la soggettività? Ci sono categorie di situazione
che non sono comprensibili – compatibili con le ipotesi iniziali?
La ricerca, rispetto alle letture prevalenti sulla condizione dei knowledge
workers è pervenuta ad alcuni risultati originali meritevoli di interesse.
L'esperienza soggettiva dei knowledge workers è stata descritta, nella
letteratura, prevalentemente attraverso il ricorso a modelli oppure a
categorie particolari che assumono di volta in volta singole frazioni
di lavoratori presentate come composizione generalizzata. Alcuni autori
li hanno rappresentati apologeticamente come nuova “élite” su una sorta
di e-topia un po’ mitizzata della creatività (Florida, 2006). Sul versante
opposto è proposta l'immagine dei “net slaves” o del precariato della
rete, con un’interpretazione che li mostra esclusivamente come “vittime”
delle forme de-regolamentate di funzionamento del mercato del lavoro (Lessard
e Baldwin, 2000; Sennett, 2001; 2008). La nostra ricerca ha cercato di
sondare la rappresentazione soggettiva di alcuni lavoratori in carne e
ossa mettendo così al vaglio queste opposte meta-chiavi di lettura. Restituendo
in profondità il punto di vista dei knowledge workers sulle loro esperienze,
i risultati della nostra ricerca rimandano l’idea di una condizione socio-professionale
di forte ambivalenza non risolvibile tra precarietà e innovazione (Armano,
2010; 2011).
Le nostre ipotesi: nello studio la condizione del lavoratore della conoscenza
è stata indagata a partire dall’assunzione iniziale orientativa secondo
cui il rischio (nella accezione di cui parla Beck) investe i soggetti
in più modi e in particolare rispetto ai diritti sociali e del lavoro,
con aspetti di precarietà connessa alla debolezza delle tutele formali
previste dai contratti atipici e alla peculiare condizione dei lavoratori
autonomi. Le narrazioni dei knowledge workers hanno suggerito come approfondire
e precisare questo quadro di partenza. I risultati hanno mostrato che
la percezione del rischio da parte dei lavoratori non si incentra esclusivamente
e principalmente sulla mancanza delle tutele formali e contrattuali, bensì
sul rischio che vengano meno le tutele informali. L’informalità su cui
in questo mondo socio-professionale si fa forte affidamento è la prima
dimensione inattesa emersa grazie allo strumento della narratività che
ci ha consentito di evidenziare un aspetto nascosto, oscuro, invisibile
della condizione e del senso intersoggettivo con il quale si ricostruisce
la propria realtà.
Gli intervistati non leggono soltanto l’informalità come risorsa o al
contrario, l’informalità come trappola della precarietà. L’elemento che
più colpisce nei racconti biografici dei lavoratori della conoscenza è
che l’informalità nelle sue diverse dimensioni (organizzativa, nelle relazioni
di lavoro, nella formazione) risulta indissolubilmente ambivalente come
elemento peculiare di questo segmento del lavoro (Armano, 2010a). Per
un verso è una risorsa irrinunciabile e dall’altro fonte di estrema incertezza
e inquietudine. In un campo in cui le tecnologie digitali e l'aspirazione
all'autorealizzazione dei lavoratori appaiono integrate, la conoscenza
diventa obsoleta e muta in un modo straordinariamente rapido, i nuovi
standards proliferano, le persone raccontano la necessità e la pressione
di dover restare al passo con gli standards di conoscenza e il desiderio
di restare sulla frontiera che schiaccia simultaneamente energie verso
l'impresa e verso l'autorealizzazione nel lavoro. Ciò crea una sorta di
socialità informale, compulsiva, vitale ma coattiva (Sproull e Kiesler,
1991) nella quale la persona stessa si immedesima nel lavoro e diventa
impresa (Gorz, 2001; 2003).
Un ulteriore e complementare aspetto che attraversa trasversalmente e
intensamente le narrazioni è quello della caratterizzazione contingente:
delle esperienze lavorative, delle relazioni di lavoro, dei contatti lavorativi,
delle conoscenze a rischio di obsolescenza. L’orizzonte a progetto, l’essere
immersi in una logica di task orientation, coinvolgente, temporanea e
revocabile, parte dal livello contrattuale ma investe per intero le biografie
professionali e ne modifica la tonalità riconfigurando la definizione
delle identità.
Nell’insieme, queste dimensioni concorrono a definire un nuovo senso di
autonomia in questo tipo di lavoratori, fortemente legato ai diversi tipi
di saperi, alle competenze conoscitive da incrementare e innovare e non
disgiunto quindi dal vincolo-risorsa del network, relazionale prima che
tecnologico. Per quanto concerne le traiettorie professionali ovvero i
percorsi tracciati nella gestione delle transizioni tra vincoli e opportunità,
dai racconti degli intervistati, emerge la difficoltà a pensare strategicamente
in una prospettiva temporale di lungo termine. Le identità risultano permeate
dalla pluralità delle esperienze, ovvero dalla differenziazione delle
condizioni e dalla fluidità delle condizioni che rimanda alla mutevolezza
delle posizioni temporaneamente raggiunte, cosa ben diversa dal semplice
senso del contingente.
Mentre nell’era fordista l’identità lavorativa era costituita mediante
tappe successive lentamente ascendenti che costruivano una storia continua
orientata a una meta precisa dentro una organizzazione, l'ambiente postfordista
è fluido e costituito piuttosto da networks che rendono incerto sia il
processo sia l’esito. Inoltre, al posto di legami rinveniamo connessioni
(Castells, 1996) esperibili e dismettibili immediatamente quando si rivelano
non più opportuni.
Per i lavoratori della conoscenza che vivono la temporaneità dei contratti
la maggiore sofferenza allora sembra essere legata proprio alla difficoltà
di dare forma a una narrazione orientata, di definire una storia, di riconoscere
una «trama» nelle attività svolte nonché di individuare un obiettivo riconoscibile
da raggiungere. È una sofferenza perché il non avere obiettivi a lungo
termine può rendere estremamente vulnerabili nei confronti dell'urgenza
del momento.
Con questo insieme di categorie sostanziali che permeano i racconti dei
lavoratori della conoscenza, il metodo narrativo si è rivelato efficace
nel far emergere le dimensioni invisibili della condizione a partire dal
punto di vista dei soggetti e del senso intersoggettivo. E confrontando
le categorie situate del pensiero con alcuni elementi di conoscenza teorica
presenti nella letteratura, i concetti risultano arricchiti dai risultati
della ricerca sul campo.
Note
1] Virtuality, (www.virtualityconference.it),
Linux Day (www.torinolibera.org/linuxday.php), Artissima (www.artissima.it),
Festival del Cinema (www.torinofilmfest.org)
2] De Maziere e Dubar definiscono
invece le categorie scientifiche costruzioni teoriche e concettuali attraverso
le quali i ricercatori possono esprimere i propri schemi interpretativi.
Esse sono costruite mediante analisi delle categorie sostanziali, induttivamente
mediante procedimenti analitici o mediante rielaborazione delle categorie
ufficiali. Distinguono inoltre le categorie ufficiali come le categorie
istituzionali delle codificazioni amministrative, statistiche o normative
che fungono da pre costruzioni e strutturano i discorsi degli attori istituzionali
a cui si riferiscono i soggetti. Ostacolano la comprensione delle categorie
sostanziali nonché la loro progressiva trasformazione in categorie scientifiche.
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