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    Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.10 n.1 Gennaio-Aprile 2012

    NARRATIVITÀ COME POTERE DI AUTORAPPRESENTAZIONE DI CONDIZIONI INVISIBILI: I LAVORATORI DELLA CONOSCENZA


    Emiliana Armano

    emi_armano@yahoo.it
    Dottore di ricerca in Sociologia economica. Partecipa alle attività di ricerca del Dipartimento Studi del Lavoro e del welfare dell'Università statale di Milano. I suoi interessi riguardano i nuovi diritti nella società dell'informazione, i modelli di welfare state, la flessibilità e la precarietà nel mondo del lavoro. Ha collaborato con Romano Alquati e Sergio Bologna, pionieri della ricerca sociologica in Italia. Ha pubblicato diversi saggi in Italia e in Germania sui temi della soggettività e del lavoro.

    1. Premesse teoriche

    Collochiamo il nostro studio sui lavoratori/trici della conoscenza nel passaggio da un modo di produrre fordista dominato da razionalità, programma, astrattezza e procedure impersonali a un modo postfordista in cui l’intenzionalità e la dimensione personale hanno più valore e diversi e incerti sono gli esiti possibili (Bauman 1999; 2000). Una trasformazione che investe tutta la società e mostra da un lato, processi di de-regolazione, de-standardizzazione dei lavori, crescita del rischio (Beck, 1986; 2000a) e d’altro canto, la liberazione (potenziale) di nuove capacità e di innovazione, di elementi cruciali nei lavori della conoscenza (Rullani, 2004a; 2004b). Definiamo come lavoratori della conoscenza quella componente sociale in progressiva crescita nelle società avanzate composta da coloro che, utilizzano in tutto o in maniera prevalente le loro facoltà cognitive, relazionali, comunicative, in collaborazione con altri per lo svolgimento della loro attività lavorativa (Drucker, 1994) e dunque mettono al centro del loro lavoro l’uso combinato dei diversi saperi. Ipotizziamo che oggi, tali saperi possano cambiare di tonalità: la soggettività del mondo socio-professionale dei lavori della conoscenza é infatti ritenuta una delle dimensioni specchio di questa trasformazione postfordista. L’ipotesi è che nel postfordismo, la soggettività, intesa come intenzionalità, assuma più peso che in passato perché minori sono i percorsi istituzionali prestabiliti e formalizzati a cui affidarsi e pertanto più alta è la valenza dell’apporto che il soggetto può dare ai processi sociali, anche in relazione ai saperi codificati e specialistici.

    A partire da questi presupposti riteniamo che sia importante riconoscere e comprendere la soggettività che si genera e ridefinisce nella de-istituzionalizzazione dei percorsi lavorativi, l’informalità delle relazioni sociali e la crescita della relazionalità della produzione. Al centro del nostro studio è l’analisi della soggettività dei lavoratori della conoscenza, dove per soggettività intendiamo sia la motivazione ad agire del singolo attore sia il senso (inter)soggettivamente attribuito (Crespi, 1982), la “connessione di senso” (Sinneszusammenhang) di cui estesamente scrisse Max Weber (1958).

    Nella formazione della soggettività postfordista un ruolo chiave è svolto dai fattori extraeconomici di tipo sociale, storico e valoriale, le relazioni sociali in grado di generare fiducia e capitale sociale, i repertori cognitivi condivisi ed il ‘saper fare’ diffuso e situato. Per comprendere come la condizione postfordista possa avere un suo peculiare statuto ed essere contemporaneamente una fonte di ansia e uno strumento di libertà, facciamo riferimento al pensiero di Beck; egli sostiene che l’aumento dell’incertezza si traduce in un processo di individualizzazione che costringe gli uomini a fare di sé stessi il centro dei propri progetti e della propria condotta di vita e contemporaneamente amplia le loro possibilità di azione (Beck, 2000a). Il fatto che i soggetti sentano su di sé tutta la responsabilità della definizione dei propri percorsi (e dei rischi che ne derivano) ha una duplice valenza. Con il processo di individualizzazione, l’incertezza da caratteristica del contesto in cui gli attori si muovono, diviene sempre di più anche una peculiarità dei progetti che essi elaborano, assume, cioè, una dimensione soggettiva. Posto di fronte ad un contesto altamente mutevole, l’individuo, al suo livello, si trova dunque a dover compiere scelte sempre più complesse e deve continuamente prendere individualmente delle decisioni puntuali e generali senza avere un quadro preciso delle loro conseguenze e del contesto. Proprio in questo, però, si delinea l’altro aspetto del processo di individualizzazione, ovvero l’ampliamento degli ambiti di decisione e di autonomia per i soggetti. Ma è un dover essere e non una scelta.

    In un contesto siffatto, in cui l’incertezza, percepita soggettivamente è l’incertezza propria dell’attore in grado di compiere delle scelte e di attribuire un senso alle proprie esperienze, la narrazione di sé diventa allora una potente risorsa per sottrarsi all’invisibilità della individualizzazione. Dal momento che è proprio il linguaggio verbale a dare corpo al pensiero, a fare società nella inter-azione del discorso che converte l’esperienza individuale in un’esperienza collettiva (Bruner, 1991).

    2. Le domande

    A partire da questo frame teorico, la nostra analisi si è incentrata sulle costruzioni di significato con le quali i lavoratori/trici della conoscenza rappresentano la propria condizione. Come rappresentano le loro frammentarie esperienze lavorative? Attraverso quali narrazioni e quali categorie implicite del pensiero raccontano il modo con cui affrontano il rischio? Ci sono aspetti invisibili e importanti della condizione che possono essere conosciuti attraverso il loro punto di vista, parziale, di soggetti? Queste le nostre iniziali domande di fondo integrate poi dalle domande emerse in corso di indagine e inerenti la formazione dei diversi saperi in relazione all’organizzazione del lavoro. Abbiamo ritenuto che l’approccio qualitativo e narrativo fosse più appropriato della survey o dell’utilizzo di strumenti quantitativi per affrontare queste domande di ricerca, in relazione alla possibilità per i partecipanti di assegnare il significato e riportare la propria esperienza con i propri termini (Geertz, 1973) piuttosto che in categorie preselezionate.

    3. Elementi di una ricerca sul campo. L’oggetto.

    La ricerca sul campo è stata realizzata attorno ad alcuni eventi della Torino postfordista attraverso un ampio e significativo campione di interviste in profondità a knowledge workers occupati in diverse filiere produttive, dall’informatica alle produzioni digitali, al web, ai nuovi media, alle arti multimediali, alle attività di formazione e ricerca. Le narrazioni biografiche dei knowledge workers al centro di questa ricerca riportano le loro aspirazioni e le loro paure, le loro capacità e la loro invisibilità politica, la carica di innovazione che incorporano e quella di incertezza che subiscono. (Armano, 2010a).

    Le interviste sono state raccolte durante alcuni “eventi” torinesi tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007: Virtuality, Linux Day, Artissima,  Festival del Cinema [1]. Abbiamo scelto di partecipare a questi eventi, osservando come avvengono e di intervistare chi ne fa parte: informatici, programmatori, sviluppatori, lavoratori delle telecomunicazioni e della ricerca universitaria, webdesigners e web workers, artisti digitali, formatori, ricercatori, designers industriali, giornalisti, traduttori, fotografi, video-attivisti. Esperienze di lavoro innovativo seppure spesso anche temporaneo che richiamano e sondano quella quota di lavoro della conoscenza che sta emergendo e si prestano bene ad una antropologia del terziario avanzato. Le narrazioni ci parlano di nuove soggettività del lavoro, raccontate in presa diretta sul crinale tra autonomia e sfruttamento.

    La scelta di svolgere una parte consistente delle interviste durante lo svolgimento di eventi è legata alla considerazione che tali eventi connotano emblematicamente la transizione postfordista di Torino, da territorio teso principalmente alla produzione di massa di beni durevoli e tangibili a possibile città dei servizi della conoscenza, territorio di politiche di sviluppo delle industrie creative e culturali (Ross, 2009), e fabbrica di nuove merci volatili e intelligenti (Maione, 2001).

    Tra i casi inclusi nel “campione” vi è una componente di profili socio-economici strutturati in forma di lavoro autonomo e microimpresa. La scelta d’includere anche soggetti con queste caratteristiche risponde al nostro criterio di selezione: in continuità con il filone di ricerca sviluppato da Sergio Bologna, riteniamo che la condizione del consulente e della microimpresa possano essere collocate in un continuum con le altre modalità di lavoro temporaneo e rappresentino una delle tante possibili modalità di gestione del rischio, rischio che assumiamo come elemento chiave della de-regolazione postfordista e che se viene subito tende a individualizzare e a rendere invisibili nel discorso pubblico i diversi soggetti lavorativi.

    4. Narratività come scelta metodologica per il disegno di ricerca

    Il disegno di ricerca ha tenuto conto in modo aperto e esplorativo dei concetti alla base della ricerca – de-procedimentalizzazione postfordista, soggettività, rischio, precarietà, invisibilità sociale, lavoro della conoscenza - e del modo in cui tali concetti potevano essere orientativamente impiegati nell’indagine. La scelta è stata quella di adottare una definizione ampia e aperta di tali dimensioni e soprattutto di privilegiare un percorso di ricerca sul campo, basato sulla progressiva implementazione della definizione dell’”oggetto” di studio che è a sua volta parte attiva nel processo di ricerca attraverso il “metodo” della conricerca (Alquati, 1993) e della narrazione. Non si è trattato propriamente di scegliere un metodo, né semplicemente di riportare un pensiero sull’esperienza, ma di un modo di costituirla, di darle forma e di interrogarla al contempo. Un atto interpretativo: non un semplice sapere ma già un giudizio. Le stesse situazioni e gli stessi eventi potrebbero infatti ripetersi senza però suscitare il pensiero. Così la situazione della generazione flessibile, della precarietà, della invisibile rappresentanza del lavoro della conoscenza è apparsa per lungo tempo - anche a se stessa - come un dato evidente e quasi atemporale, fino agli anni recenti, quando il pensiero, distaccandosi dall'evidenza dell'esperienza, non l'ha messa in questione, ne ha fatto un dato problematico e, sottoponendola al giudizio, ne ha tracciato una rappresentazione sociale (Allegri, Ciccarelli, 2011). Pensare e narrare l'esperienza non è dunque, o non è solo, renderne conto, rifletterla per analizzarla, bensì superarla. Il pensiero comporta un atto, un modo di dare forma o di ridare forma al dato.

    Il pensiero narrativo della conricerca si avvicina sì all'esperienza ma non compie un’operazione di “voice” poiché l'esperienza stessa è mai puramente fattuale - un'esperienza grezza. Abbiamo mai a che fare solamente con «le cose stesse»? Pensare non è soltanto rendere conto: è sempre anche e soprattutto giudicare in base a una intenzionalità ed a un punto di osservazione situato, e immaginare. Inoltre, l'accesso dei soggetti all'esperienza del pensiero passa attraverso il loro accesso alla dimensione dialogica e narrativa. Il pensiero della conricerca è innanzitutto il pensiero di questa esperienza che consiste nel riconoscere l'altro/a attraverso il discorso come agente del divenire del pensiero, come depositario/a di un momento di conoscenza. E' il costituirsi di questa relazione che fa essere l'altro e, dando credito alla sua parola, le riconosce la capacità di generare simbolicamente e socialmente. L'articolazione dialogica del pensiero sembra al cuore della sua vitalità. Perché non siamo chiamati ad allinearci al dato bensì a creare del senso e l'esperienza non è un fatto di cui il pensiero renderebbe conto, ma è già da sempre un racconto suscettibile di essere ripreso in una nuova narrazione. Non è tanto la delucidazione di quel che è già ma piuttosto è il far essere quel che non è ancora. Ci preme sottolineare la fecondità dei paradigmi interpretativi, degli approcci comprendenti nella loro totalità e in particolare dei modelli di analisi narrativa (Bourdieu, 1995; De Maziere e Dubar, 1997; Czarniawska 1999; Poggio, 2004; Bruni, Gherardi, 2007) a cui desideriamo affiancare nello specifico il metodo(non metodo) dell’inchiesta sociale e della conricerca (Alasia, Montaldi, 1960; Alquati 1993); proprio per la sua capacità di ridurre la distanza tra “oggetto” e soggetto della ricerca ci sembra particolarmente idoneo a indagare la soggettività e le esistenze dei lavoratori della conoscenza.

    A partire da queste scelte “metodologiche” e epistemologiche di fondo, si è svolta la nostra ricerca sul campo. Essa ha coperto un intervallo temporale longitudinale di tipo biografico ed è nata da interrogativi di natura essenzialmente descrittiva che non ambiscono a produrre spiegazioni e interpretazioni di portata generale: non si è preteso costruire un campione di tipo rappresentativo, ci si è limitati a indagare in profondità un segmento del lavoro, a nostro avviso rilevante per i cambiamenti in corso.

    Si è proceduto alla costruzione (progressiva) del campione, il theorical sampling (Glaser, 1978) con il procedimento dello snowballing dei casi interessanti gli ambienti socio-professionali e gli “eventi” per via della possibilità che questo strumento offre di accedere con facilità a cluster di relazioni significative. Il campione così definito, si compone di 39 interviste di casi confrontabili: con caratteristiche di sufficiente omogeneità (per via dell’appartenenza a un comune definito mondo socio professionale, quello degli eventi ITC e Nuovi Media e/o negli ambienti connessi alle filiere) e di adeguata variabilità (per quanto riguarda la fascia d’età, la provenienza sociale, il genere, la tipologia contrattuale e l’ammontare del reddito).

    Per quanto riguarda i criteri di interpretazione, le interviste sono state raccolte in quanto “recits” (Bertaux 2005: 21) e non come “storie”, dunque la loro importanza consiste nel riportare narrazioni significative di vissuto, con un accesso all’esperienza mediato dalla soggettività e non come una sequenza oggettiva di fatti e di eventi. Le interviste non ci offrono neppure il punto di vista dei soggetti quanto piuttosto la rappresentazione che essi ci vogliono offrire nella inter-azione dialogica dell’intervista.

    Per lo sviluppo della nostra ricerca ci siamo domandati quali sono le categorie implicite che strutturano l’universo delle narrazioni raccolte e come è possibile riconoscerle. A tal proposito, secondo DeMaziere e Dubar occorre distinguere con molta chiarezza le categorie sostanziali presenti nelle narrazioni dalle categorie scientifiche e queste ultime a loro volta dalle categorie ufficiali [2].

    Le categorie sostanziali sono le categorie del linguaggio sociale (naturale) attraverso le quali i soggetti esprimono la loro logica pratica rendendo conto delle situazioni che vivono e in esse il pensiero che emerge dalla descrizione delle esperienze costituisce un superamento dell'esperienza - che le dà forma.

    Per quanto riguarda l’intero procedimento di elaborazione inerente l’analisi del testo (De Maziere, Dubar, 2000), il principio ordinativo è stato quello dei casi e non della costruzione di matrice di dati attraverso variabili (Miles, Huberman, 1994). Si pone qui la necessità di operare una distinzione importante sull’uso dei casi come criterio analitico principale. Se si fa riferimento ai casi si evidenzierà il percorso, la storia di ogni specifico caso attraverso una concatenazione tra le variabili riferite a quel caso. L’aspetto interessante è che con questa modalità si è indagato quanto dalle singole narrazioni, dai singoli percorsi siano estrapolabili modelli comuni a più casi. Il vantaggio e la ricchezza di questo approccio sta nella sua potenzialità esplorativa e consiste nel contemplare la possibile serendipity (Ricolfi, 1997; Cardano, 2011), nel poter conoscere categorie del discorso che emergono induttivamente dalle analogie tra i casi, categorie non previste all’inizio dalle ipotesi.

    5. L’intervista semi-strutturata narrativa come tecnica di ricerca

    Abbiamo scelto di privilegiare tra le tecniche qualitative l’intervista semi-strutturata a risposta libera che permette di cogliere i significati dei comportamenti e le motivazioni all’agire attraverso la descrizione che ne danno gli stessi soggetti attraverso il suo sviluppo dialogico (Cipolla, 1998). Tematiche delicate quali la precarietà e l’invisibilità sociale potrebbero sollevare alcune resistenze da parte degli intervistati, resistenze che possono essere superate durante l’interazione e i punti di svolta consentiti dall’intervista semi-strutturata grazie proprio alla libertà di calibrare il linguaggio tenendo conto delle reazioni emotive, della interlocuzione e del riconoscimento reciproco delle identità (Sormano, 2008).

    Tutte le interviste raccolte per sviluppare la ricerca empirica sono state realizzate predisponendo in via preliminare un unico schema-traccia di intervista incentrato su di una serie di temi inerenti le ipotesi di ricerca. Particolare attenzione è stata dedicata alla stesura della traccia tenendo conto di alcune riflessioni metodologiche ed esperienze di ricerca sul campo inerenti i modelli di intervista narrativa (Bertaux, 1999; Trentini 2000; De Maziere, Dubar, 2000; Barley, Kunda 2004; Olagnero, 2005).

    Le domande della nostra traccia: alcune di esse sono le “fondamentali”, nel senso che ci aprono le tematiche proposte all’attenzione di tutti gli intervistati, mentre altre costituiscono più che altro degli “stimoli” e delle possibilità di approfondimento che, di volta in volta, sono stati percorsi a seconda dell’andamento dialogico dell’intervista. La traccia d’intervista semi-strutturata narrativa si è posta come obiettivo di schematizzare gli elementi utili a ricostruire l’habitus (Bourdieu, 1995) dell’intervistato, ovvero l’insieme degli schemi di percezione, valutazione e azione - evitando quindi di considerare il soggetto come un mero attore razionale e considerandolo invece inserito in una trama complessa di relazioni, valori e pratiche. Rimandiamo per il testo completo della traccia d’intervista al volume (Armano, 2010b:16-24) che peraltro racchiude anche la trascrizione in extenso delle interviste narrative biografiche (Armano, 2010b: 25-384). Ci limitiamo ora a precisare i due criteri con cui la traccia è stata redatta: la narratività e la specificità.

    Sull’importanza della narratività non ci siamo soffermati abbastanza. In un discorso sulla condizione socialmente frammentata, la scelta della narratività consente di “ricostruire un racconto di vita a partire dai pezzi spesso sparsi che formano l’esperienza del lavoratore” (Sennett, 2001). I racconti professionali possono servirci a “capire in che modo l’individuo riesce a colmare questo vuoto di senso” (Sennett, 2001), poichè la presentazione narrativa degli avvenimenti pervade e attraversa i dispositivi sociali segnati dalle forme giuridico contrattuali.

    Figura 1.1 Schema d’ intervista semi-strutturata narrativa

    Sotto questo profilo e per queste ragioni l’intervista ha un andamento narrativo, un po’ come delle brevi e più strutturate storie di vita: emergono più esperienze, emerge il tempo che trascorre, emerge quel vissuto invisibile e indicibile che spesso non si vuole condividere, emerge la ricostruzione dal punto di vista del soggetto, emergono comuni recits.

    Scegliere il criterio di specificità rimanda invece ad una questione di metodo della etnosociologia. Significa calibrare il metodo a seconda dell’oggetto e degli obiettivi. E’ necessario che, a seconda del tipo di fenomeno che si intende affrontare, si disponga di una serie di conoscenze specifiche su quella che é la condizione specifica di quel tipo di soggetto. E in base alle conoscenze preliminari si rediga lo strumento di indagine. Abbiamo deciso di redigere la traccia d’intervista con il criterio di specificità poichè, a nostro avviso, per questa ricerca, sarebbe stato meno efficace l’impiego di uno schema d’intervista generale (del tipo solitamente in uso per le ricerche sulle condizioni di lavoro), ovvero uno schema sulle condizioni generali del lavoro che indagasse su tempi, metodi, organizzazione, orari, contratto, disagio e ripetitività.

    Con il criterio di specificità abbiamo individuato alcuni puntuali nuclei tematici per la struttura (aperta) della traccia d’intervista:
    - temporary affiliation and contingent commitment: cosa comporta a livello di soggettività la temporaneità dei lavori e il vivere le transizioni;
    - task orientation: cosa comporta il lavorare per obiettivi, l’impegno a progetto in termini di soggettività. In che misura investe la propensione all’autorealizzazione, il gestire il rischio in proprio con selfdetermination, ricerca di senso, creatività e senso di normalità dell’autosfruttamento;
    - knowledge: come si ridefinisce il rapporto tra tecnologia/formazione delle conoscenze/organizzazione: i diversi tipi di conoscenze che ruolo svolgono: conoscenze formali e conoscenze eccedenti, (tacite, situate e biografiche) come conoscenze effettivamente spendibili nel lavoro;
    - tempo: come varia la rappresentazione del tempo a seconda del auto-posizionamento del soggetto: tempo infinito, tempo limitato, tempo breve, tempo inesistente. Come, cioè, mutano le attese in relazione all’esperienza pregressa e qual è la percezione (individuale/collettiva) del futuro.

    6. Risultati

    Per quanto riguarda i risultati, la ricerca empirica ha prodotto un repertorio di categorie sostanziali (Bertaux, 1998; De Maziere e Dubar, 2000) ricavate dalla codificazione induttiva (Glaser e Strass, 1967a) delle narrazioni. Le categorie sostanziali sono le categorie del linguaggio sociale attraverso le quali i soggetti esprimono la loro logica pratica rendendo conto delle situazioni che vivono (De Maziere e Dubar, 2000). Esse sono rilevate mediante un’analisi interna delle produzioni linguistiche dei soggetti, appartengono quindi all’analisi del testo in relazione ai contesti in cui i soggetti descrivono-situano-posizionano la loro esperienza.

    A ciascuna delle categorie sostanziali sono state associate alcune note esplicative di chiarimento che facilitano l’attribuzione di stralci di brani, parole chiave o frasi dell’intervista, alla singola categoria.

    Esponiamo ora sinteticamente alcune di queste categorie sostanziali e rimandiamo per la descrizione completa dell’interpretazione delle interviste al rapporto di ricerca (Armano, 2010a: 95-176).

    6.1 L’informalità nella gestione delle transizioni

    Nelle diverse narrazioni dei knowledge workers la natura informale delle relazioni sociali è risultata centrale per comprendere le traiettorie individuali.
    Come si esplica l’informalità delle relazioni? Cosa si intende per transizioni? Nella pluralità di esperienze professionali, di condizioni contrattuali e di provenienza sociale, i lavoratori della conoscenza si misurano con un comune problema: riuscire a dare continuità al proprio lavoro e riuscire a restare nel proprio campo professionale

    “..la caratteristica predominante del lavoro che sto svolgendo in questi ultimi tre anni: l’ interruzione. [...] ogni volta, di sei mesi in sei mesi, [...] c’è sempre poi a fine contratto il punto interrogativo di quale sarà il mio futuro. [Renata_38; Architetto, Cocopro]

    L’interruzione, la nuova assunzione, la conclusione del contratto e del progetto sono alcune delle possibili transizioni che assumono centralità nelle narrazioni. Sono momenti di contrattazione e negoziazione informali, conflitto, dialogo, crescita e apprendimento, promozione sociale, esclusione, fuga. Dalle narrazioni si ha l’impressione che tanto, soggettivamente, si stia giocando lì, condensato, in quei particolari momenti di svolta. Una visione che emerge con grande forza dalle narrazioni, come punto di vista dei soggetti e che contrasta con le coordinate standard degli studi sul lavoro che solitamente si propongono di indagare principalmente sulle condizioni generali del lavoro quali livello dei salari, orari, organizzazione, ritmi di produzione, dando cioè per scontata la continuità del lavoro la cui centralità invece appare per nulla scontata nelle rappresentazioni soggettive dei lavori della conoscenza, spesso non standard, a tempo e a progetto.

    Decisivi allora sono i passaggi di uscita e di entrata dai ruoli lavorativi piuttosto che la permanenza dentro i ruoli stabili del lavoro; questa condizione lavorativa ci sembra paradigmatica della forma liquida del lavoro postfordista (Bauman, 2000/2002) . Nei lavori della conoscenza l’esperienza delle transizioni e della discontinuità esonda però decisamente al di là dell’ambito contrattuale:

    “Dal 2005, da quando sto lavorando con questa società sono stata assunta, non ho (più) un contratto temporaneo, ora è un contratto a tempo indeterminato, però comunque sono un consulente, cambio il posto da progetti a progetti, da cliente a cliente, dipende dal progetto quanti mesi vogliono, può essere un mese, di più, un anno.
    E’ bello, da un punto di vista, perché non fai sempre lo stesso lavoro, cambi il posto, cambi il progetto, fai delle cose interessanti, nuove, che non hai visto, a volte fai dell’esperienza, conosci anche tante persone, però, da un altro punto vista, è come se fossi in concorrenza, sempre in concorrenza e poi anche come in periodo di prova. Per ogni progetto come minimo per un paio di settimane è come se fossi in prova.…come se non finisse mai questo periodo di prova.” [Sara_41; informatico, contratto a tempo indeterminato in grande impresa]

    L’ intervistata non stanno parlando del rinnovo del contratto, qualcosa di più ampio e profondo del contratto o del reddito, parla di sé stessa, dell’”essere rinnovata” come identità lavorativa e sociale, o dell’essere respinta. Chiaro il tema tra le righe. L’esperienza della discontinuità riguarda lo sradicamento possibile, la mancanza di una narrazione continuata e la transizione che segna e investe il suo essere. E che può diventare una forma mentis:

    “[..] secondo me la nostra generazione l’ha assorbita proprio come forma mentis, ci siamo formati con la concezione che tutto ha un termine, che bisogna vivere questo momento e che di dopo non si sa…[..] non riesci proprio ad arrivare oltre un certo limite. e’ a termine anche il pensiero” [Valentina_26; insegnante a progetto]

    Queste transizioni-discontinuità appaiono sempre in agguato; quali sono allora i dispositivi spontanei di difesa e soggettivazione? Le modalità di autotutela informali vengono descritte come cruciali e di vario tipo: il network delle conoscenze lavorative e professionali costituisce l’ambiente immediato in cui poter spendere le propria attività; e a cui ricorrere in caso di difficoltà; mentre il network delle relazioni familiari e amicali nell’immediato funziona come elemento di protezione sociale ma nel lungo periodo opera in maniera molto ambivalente come elemento di selezione sociale. L’informalità e relazionalità della produzione inizia a mostrarci qui una delle sue facce oscure: ai giovani provenienti da contesti economici e sociali favorenti vengono offerte possibilità di fatto negate ad altri, un’iniquità che riduce a fatto personale la questione sociale delle opportunità.

    Come viene descritto - affrontato in pratica il problema della continuità del lavoro e del reddito? Alcuni, anche nei periodi non coperti contrattualmente, talvolta continuano ad essere presenti gratuitamente sul lavoro. E’ necessario - ci dicono - per poter mantenere vivo il rapporto di fiducia con il committente-datore di lavoro, anche solo per riuscire a recuperare quanto maturato in precedenza.

    6.2 Informalità e temporaneità della formazione

    “.. il lavoro professionalizzato attiene a quello che so. [..] dopo un paio d’anni in cui mi sembrava di avere imparato molte cose, mi accorgo che, quel tipo di azienda [..] rispetto al sapere di ricerca non mi dà niente da un pezzo.” [Alessandro_32 web content, cocopro fuorimicrofono]

    Le dimensioni del contingente e dell’informalità investono anche la formazione. La formazione acquisita nell’ambiente informale risulta un terreno fondamentale per sopravvivere professionalmente, a fronte della sempre più veloce obsolescenza dei saperi. Così, la formazione - in senso lato - veicolata direttamente e indirettamente dal network di contatti e relazioni, a fronte di contratti spesso temporanei, costituisce un’importante risorsa per non soccombere al rischio del mercato.

    I diversi intervistati ritornano spesso sul network informale come ambiente privilegiato per l’”aggiornamento” di capacità, saperi, competenze e conoscenze. Connessione e reti informali sono bisogni ricorrenti, non solo intese come strumenti e tecniche, ma anche come luoghi di relazione e circolazione di conoscenze e informazioni, luoghi di apprendimento, formazione, innovazione.

    L’apprendimento informale attraverso la partecipazione al lavoro e la frequentazione di luoghi di appartenenza é la via preferita per la possibilità di sviluppare competenze, relazioni e contatti. Non si tratta solo di competenze ma anche di capacità eccedenti, saperi taciti anche non immediatamente codificabili e spendibili, attitudini personali e conoscenze di ambienti. Saperi relazionali situati nella cooperazione e inseparabili da essa. Dalle diverse narrazioni emerge che decisivi per poter sopravvivere in questo mondo lavorativo sono i diversi tipi di saperi informali: saperi taciti, saperi relazionali, (situati nella cooperazione) e saperi biografici. Ognuno di essi meriterebbe una specifica descrizione a partire dalle narrazioni. A proposito dei saperi biografici un’intervistata sostiene vivacemente:

    “.Se uno esce dall’Università e non ha mai lavorato esce che è un rincoglionito totale; non sei pratico, non capisci le cose, se invece qualcosa hai fatto, riesci a essere più intuitivo a livello di relazione con le persone, che è la prima cosa della vita.[...] Comunicare, essere intuitivi per scegliere. Dire: “secondo me questa cosa qui va e questa non va. Scegliere per le sensazioni che ti dà. E’ una cosa mia che sento delle cose, dico questo si, questo no” [Patrizia 27, Promotore software, contratto di prestazione occasionale presso software house]

    E’ necessario sottolineare che la formazione diventa più importante che in passato perché nel lavoro della conoscenza, il ruolo e la professione altresì risiedono personalmente nel lavoratore, a differenza della tradizione fordista che definiva puntualmente i contenuti di lavoro, le posizioni e le competenze necessarie. E dunque decisivo diviene il ruolo della formazione (formale e informale).

    6.3 Il legame tra conoscenza e autodeterminazione

    Nei network informali l’autodeterminazione risulta essere un itinerario che richiede un continuo arricchimento di strumenti conoscitivi e relazionali; autodeterminazione e conoscenza ci appaiono strettamente congiunte:

    “posso dire che per fare questo lavoro è obbligatorio aver [..], l’attitudine che qualsiasi cosa noi la possiamo fare o trovare qualcuno che la potrà fare. [..] dobbiamo essere versatili. [..] “ma io questo non lo so fare!”. “ma puoi imparare a farlo - io dico - prendi il lavoro!”. [Claudio_32 web designer, lavoratore autonomo]

    E’ proprio il carattere relazionale della produzione, la disponibilità a cambiare gli schemi cognitivi, ad attivarsi e apprendere anche di fronte a situazioni nuove e impreviste mettendosi in gioco a metà tra saperi sociali diffusi e conoscenze codificate che rappresenta un fondamentale segno del nuovo lavoro e una caratteristica saliente della nuova modalità organizzativa che la contraddistingue rispetto al passato.
    La questione della combinazione dei saperi sociali diffusi è un altro elemento di novità rispetto al passato:

    “…mi sono fatta trascinare da questo modo di vivere universitario che è impagabile. ...del Carpe Diem… di cercare di fare più cose possibili.. conoscere tante persone...anche se non uscivi… stare ore e ore a chiacchierare[..] Poi mi appassionava, avevo imparato da sola ad usare il computer per me era bello come un gioco. E di psicologia avevo capito che non potevo sperare di poterci vivere, di cavarci un reddito e infatti i primi lavori che ho cercato li ho cercati negli internet provider [...] e non come psicologa, anche perché prima studiando è difficile e poi da noi c’è un periodo di gavetta mal retribuito, di sfruttamento; non è assolutamente una fonte di sussistenza. Questa mia competenza informatica all’inizio andava in parallelo con la mia competenza psicologica, [..] poi ho imparato a fare siti web, anche dove oggi faccio consulenze come psicologa sono entrata per fare il loro sito web, la creazione di siti web è stata una delle mie prime attività retribuite, non la psicologia..” [Gloria_32 Web designer, cocopro]

    Di nuovo c’è che i saperi sociali diffusi e i saperi taciti e biografici si combinano e si intrecciano inestricabilmente con le competenze e i saperi codificati: la capacità di apprendere nozioni secondo linguaggi formalizzati, la condivisione dell’informazione, la capacità di collaborare in contesti nuovi, l’abilità nel comprendere le situazioni e dedurre dai principi la soluzione dei problemi diventa allora un tutto unico. Il lavoro esige un elevato grado di sapere cognitivo, di capacità combinatoria, di “creatività”, qualità quest’ultima che oggi, a differenza che nel fordismo, non è più negata, ma anzi è favorita da una preparazione, da una conoscenza specifica e da un ambiente a network, che la richiede. E il lavoratore della conoscenza deve farsi attore della propria traiettoria socio-professionale e saper(si) proporre.

    6.4 Autodeterminazione

    E’ sorprendente come dalle interviste il bisogno di autodeterminazione sia emerso spontaneamente. All’inizio della ricerca ci attendevamo che i partecipanti parlassero più facilmente del tema dei diritti, dell’instabilità contrattuale, della rappresentanza difficile o assente. Invece abbiamo constatato quanto emergessero ripetutamente discorsi sul valore della realizzazione di sé nel campo professionale. E’ su di essi che ruotano principalmente le narrazioni come elemento fondamentale dell’identità di questi lavoratori:

    “…e ci siamo messi alla prova, da soli a realizzare un prodotto, cosa che fino ad allora mai.. eravamo sempre stati quelli che lavoravamo per qualcuno che ci diceva cosa voleva e noi gli davamo il nostro apporto creativo e sperimentale, ma una cosa nostra, non l’avevamo mai fatta e quella fu forse la prima volta e realizzammo che eravamo capaci a farlo. ecco, questo è positivo”. [Paul 50; Video maker, indipendente]

    Lavorare per progetti significa lavorare con una remunerazione misurata non più prevalentemente a tempo bensì a obiettivi. Si costituisce una forma mentale che corrisponde a questo modo di lavorare, una mentalità incentrata su l’immedesimazione, l’autodeterminazione, l’autonomia, la temporaneità: l’esprit du capitalisme secondo Boltanski e Chiappello (Boltanski e Chiappello, 1999) :

    “…penso che se uno fa con piacere, è la cosa più importante. [..] è contento e stimolato; fare due ore-cinque ore in più non pesano.
    Ma fare due ore in più o anche un minuto in più di una cosa che non piace sicuramente pesa da morire” [Fabio_29; Assegnista di ricerca, Politecnico di Torino]

    E come per un piccolo artista, la remunerazione principale sembra essere di tipo motivazionale (per il riconoscimento del ruolo di “autore”). I partecipanti si immedesimano fortemente nel lavoro e sono orgogliosi di poter scegliere l’attività, di creare qualcosa e poter gestire da sé il tempo di lavoro, il tipo di progetto e di attività, più in generale della particolarissima condizione di “sentirsi capace”. Nelle singole esperienze lavorative i lavoratori ambiscono ad essere “creatori di senso” (Pilmis, 2007) – ovvero ritengono rilevante, nell’ambito delle attività erogate, la componente del significato e della creazione dei contenuti.

    L’autonomia (non solo quella organizzativa) costituisce allora contradditoriamente una caratteristica di fondo (Boltanski, Chiappello, 1999) del lavoro nella economia della conoscenza e rappresenta proprio per questo un’attrattiva importantissima per chi aspira ad entrare in questo mondo del lavoro, per essa si è disposti a pagare costi altissimi; la remunerazione principale non è economica ma motivazionale e/o di status con la rinuncia (anche totale) ai diritti e al salario, in una dimensione che sfiora l’essere felici e (auto)sfruttati (Formenti, 2011). L’esperienza lavorativa, le relazioni, le modalità “a tempo” concentrate nei confini dello sviluppo del progetto, a partire dal lavoro delineano una forma mentis, si estendono, diventano parte del modo normale di pensare e di vivere.

    6.5 La propensione a restare nel campo di attività

    “Dunque, io sono nella redazione. Mi occupo di pezzi, alcuni pezzi, intervistare galleristi, artisti e di coordinare un pochino il lavoro editoriale, redazionale. Definire un po’ il trend della settimana, capire qual è il filone da seguire. Per esempio per “Artissima” abbiamo fatto diversi progetti tra cui l’intervista a tutti i galleristi presenti e in più abbiamo seguito in parallelo gli eventi all’esterno alla Fiera. Questo è anche un po’ il mio compito, dare un po’ il cammino da seguire a tutti gli altri. [..] Una realtà molto giovane, interessante perchè lavora direttamente sul contemporaneo. [..]
    In questo momento ho una collaborazione a progetto[Con un contratto Cocopro? domanda] Immagino di si, al momento è ancora da definire...in realtà sono circa due mesi e stiamo cercando di dare una forma anche un po’ strutturata alla mia collaborazione..è tutto abbastanza generico in questo momento.[..]
    Al momento dal punto di vista lavorativo vorrei crearmi io qualcosa di parallelo a questa realtà, vorrei lavorare con istituzioni, strutture, vorrei proporre dei progetti fattuali, pratici, anche nella didattica” [Marta_27, “stagista” in giornalismo d’arte in un Portale web di Media Art]

    Nel corso della ricerca sul campo ci attendevamo che dalle interviste, accanto al desiderio di autodeterminare i contenuti e l’attività emergesse parallelamente anche la preferenza per l’autonomia contrattuale, ma le interviste hanno smentito le nostre attese ed è apparso un elemento chiaro di serendipity (che ha accomunato e caratterizzato i diversi profili di lavoratore della conoscenza); più che un tipo di contratto (o di un determinato ammontare di reddito da raggiungere o di una specifica figura professionale e contrattuale) è invece il voler mantenere la propria attività nel campo della knowledge economy l’elemento che ha contraddistinto la condizione socio-professionale del knowledge worker dal punto di vista della rappresentazione soggettiva. Il volere restare nel proprio campo di attività - anche a costo di grandi sacrifici - prima ancora del desiderio di autonomia contrattuale. E per riuscire restare nel network informale delle relazioni, sono stati descritti come fondamentali, l’apprendimento continuo, una buona dose di motivazione personale, di capacità di mantenere relazioni di fiducia e di autodeterminazione. Il baricentro dei discorsi ruotava intorno a questi elementi.

    Su questa base è forse possibile sostenere che la tradizionale dicotomia tra lavoro autonomo e lavoro dipendente utilizzata per indicizzare la propensione all’autodeterminazione per molti versi non ha funzionato come chiave interpretativa all’interno del nostro campione. La scelta per l’autonomia contrattuale o viceversa la propensione per il lavoro dipendente sono risultate meno significative di quanto potessimo ipotizzare inizialmente. Come emerge dal raggruppamento dei casi, persino i discorsi dei lavoratori con contratto dipendente sono stati investiti da aspetti che vanno nella direzione della preferenza per il lavoro per obiettivi, il che denota la ricerca di autonomia e la centralità assegnata al desiderio di realizzazione nell’attività.

    E riuscire a restare nel proprio campo di attività significa riuscire a restare in questo network:

    “...ho avuto la fortuna di trovare chi mi offriva delle consulenze, amici. Persone che in verità ho conosciuto sul lavoro o in radio, e poi con le quali poi parlando così sono nate, si sono interessate e sono nate delle opportunità, nel momento in cui tu devi offrire un lavoro è meglio se tu lo dai a qualcuno che sai che cosa fa. Questa è la rete. Non ho una rete di vendita di fatto e vivo qui negli eventi. Vado possibilmente a tutti gli eventi.
    L’errore più grande che ho fatto nel 2004, che pure era anno di crisi, fu aver tanto da lavorare per dei progetti, chiudermi in casa e far solo quello quindi io finiti questi progetti mi trovai nudo, anche senza agganci, la gente non sapeva che esistevo. Devo far girare il nome e funziona”. [Claudio_32 web designer, lavoratore autonomo]
    “...perché una volta che uno esce da certi giri non rientra” [Renata_38 architetto, cocopro]

    6.6 Traiettorie Precarie

    Nel mondo fordista la precarietà del lavoratore della conoscenza era spesso assimilabile all’immagine dell’insegnante precario, cioè del lavoratore che - entro un percorso di carriera ben definito - doveva essere confermato durante la fase di accesso ma che una volta entrato a far parte di una organizzazione aziendale avrebbe sviluppato progressivamente quella professione. Nel mondo postfordista, invece i percorsi possibili sono molteplici e le direzioni di sviluppo non sono definite a priori, le singole esperienze temporanee di lavoro non traghettano necessariamente verso la continuità; è dunque possibile intraprendere l’accesso in un percorso lavorativo e poi vivere l’interruzione e sfociare verso un’altra esperienza collegata ad una prospettiva differente e via di seguito in un cattivo infinito. Il fenomeno specifico che si disegna è quello delle biografie spezzate (Bologna, Banfi, 2011; 138) dove le transizioni segnano e segmentano le biografie professionali e di vita: mentre si chiudono i percorsi intrapresi si cercano possibilità verso altre direzioni e i partecipanti vivono la convinzione (illusoria?) di dover-poter essere in grado di disporre di se’, da sé, (Beck, 2000 a) facendo baricentro sulle proprie risorse materiali, mentali, sociali.

    Questa precarietà delle traiettorie - ovvero dei percorsi lavorativi tracciati nella gestione delle transizioni tra vincoli e opportunità - ricorre con estrema forza dai racconti degli intervistati.

    “Finito. Subito ho cercato altro. Bisogna avere una capacità di reazione veloce: attutire i colpi, i cambiamenti, questa è una situazione molto legata al precariato adesso, di questo momento...” [Elena_25; archivista digitale per Gammaservice in Rai, cocopro]

    “..Tu entri come tecnico,[..] Entri con quest’idea e poi scopri da subito che non è così, tu che magari fai il programmatore o il tecnico informatico e sei in un’azienda che è cambiata, è diventata a forma matriciale, non fa più sviluppo ma fa analisi e allora non fai più sviluppo, devi fare l’analista o te ne vai.
    Questo mi è successo un mucchio di volte. Se tu vuoi mantenere il tuo ruolo cambi azienda, quindi mi è successo di fare così: per mantenere il mio ruolo, di cambiare l’azienda, per mantenere una professionalità spendibile o in cui io mi identifico..” [Alfredo_44, ingegnere elettronico, data base administrator]

    C’è chi racconta di essere entrato alle dipendenze di un’azienda per il lasso di tempo sufficiente ad accumulare competenze e conoscenze che hanno consentito lo sviluppo di un network e di una propria attività autonoma. Chi per il tempo sufficiente ad impratichirsi e conoscere un campo per poi spostarsi in un’altra azienda usando un ambiente ricco di conoscenze per formarsi, come una sorta di ponte-leva per i propri progetti professionali. Chi intende, in modo deliberato e consapevole, continuare ad applicare questa logica di infedeltà aziendale anche nel futuro:

    “…soprattutto per questi lavori a progetto, piuttosto che mettersi a discutere la modalità, mettere magari in atto delle proteste e cose così, viene scelto la modalità più veloce e bon. non mi piace e me ne vado da un’altra parte”. [Elena_25; archivista digitale in Rai, cocopro]

    Nelle traiettorie precarie l’infedeltà aziendale per il lavoratore della conoscenza appare essere uno strumento e un sintomo della propria situazione. Infatti poter cambiare azienda senza rimpianti é un vantaggio, tutto sommato, non uno svantaggio, e la reversibilità e l’infedeltà aziendale sono gli atteggiamenti-chiave a partire dai quali i lavoratori della conoscenza cercano di rileggere e rovesciare la trappola della temporaneità a proprio vantaggio facendo leva sulle proprie capacità, disponendo di autonomia dall’azienda e ricontrattando di continuo la propria posizione per provare a disegnare da sé la propria traiettoria.

    Alle volte si tratta di percorsi “orientati” in cui i singoli combinano originalmente sequenze di attività che permettono la crescita di capacità ricollocabili in altri contesti lavorativi: qui vi è un chiaro elemento di intenzionalità. E il ”navigare a vista“ si fa razionalità processuale. In altre traiettorie risaltano di più i “ punti di svolta” in cui i singoli sono entrati in contatto con nuovi contesti lavorativi. Altri ancora si misurano semplicemente con la generale difficoltà di “traghettare” perchè di questo di tratta, un percorso.

    “Non ho un progetto, adesso per qualche mese vado avanti così. [..] Le prospettive sono quelle di continuare su questa strada.” [Gianni_30, giornalista web, freelance, multicontratto]

    In generale da queste diverse narrazioni di traiettorie emerge che per i lavoratori della conoscenza, oltre alla precarietà contrattuale, si configura una specifica precarietà che consiste nella difficoltà a far convivere la propria formazione e le aspirazioni alla realizzazione di sé con le opportunità che nel lungo periodo offre effettivamente il mercato. Per sottrarsi a questo tipo di precarietà si fa leva sulle conoscenze incorporate e spendibili, sulle esperienze cumulative e sulla capacità di costruire soggettivamente traiettorie lavorative orientate:

    “...intendo rimanere qua ancora per un po’ perché sto imparando cose nuove con persone competenti dopodiché cercherò di giocarmela da un’altra parte. Se qui ancora una volta non mi danno quello che mi spetta in termini di crescita, non solo in termini economici, è chiaro che non ci posso stare…” [Paolo_35 consulente informatico]

    La dimensione della precarietà tipica dei lavoratori della conoscenza che li distingue dalla forza lavoro generica e indifferenziata come dai lavori genericamente atipici, riguarda allora l’incertezza della traiettoria (Murgia, 2010), la capacità di riuscire a costruire o meno un percorso verso una professionalità e un’identità socialmente riconosciute. Mentre per un lavoratore atipico generico venendo meno il contratto vengono meno il reddito e i diritti del lavoro ma rimane pur sempre una professione riconoscibile - per quanto modesta essa sia -, dalle narrazioni emerge che per il lavoratore della conoscenza il venir meno del contratto e del reddito significa spesso il venir meno di una posizione sociale e di una identità, e poi nel concreto il dover accettare la retrocessione in attività spesso meno remunerative e/o che non impiegano i saperi faticosamente acquisiti. Da questi risultati emerge che nei lavori della conoscenza gli status contrattuali e professionali non sono nettamente e stabilmente definiti ma tendono ad essere fluidi cosicché anche il concetto di professione (Luciano, 1987; Bologna, Banfi, 2011) sembra assumere contorni aperti, non più definibili nettamente e la condizione lavorativa del lavoro della conoscenza bene viene descritta soggettivamente tramite i concetti di transizione e di traiettoria (Murgia, 2010).

    7. Conclusioni: dalle categorie sostanziali alle ipotesi teoriche passando per le narrazioni

    Negli ultimi anni lo studio del lavoro della conoscenza riveste un rinnovato interesse. Numerosi e approfonditi sono gli studi che hanno analizzato la condizione dei knowledge workers adottando una prospettiva di tipo quantitativo, incentrandosi sulla stratificazione sociale e sulla composizione professionale e organizzativa. Pochi invece sono ancora gli studi accurati sulla composizione soggettiva.

    Con una ricerca sul campo di tipo qualitativo e con un approccio di tipo narrativo e biografico abbiamo tentato di ricostruire il punto di vista dei soggetti e di esplorare le categorie sostanziali (grounded theory) del discorso attraverso l’analisi delle interviste. La finalità di questo processo di ricerca è stato il confronto tra le categorie di situazione emerse dalle narrazioni con le iniziali ipotesi teoriche volutamente formulate in modo aperto e esplorativo (De Maziere e Dubar, 2000). Un procedimento che potremmo definire sinteticamente di tipo analitico e euristico.

    Il criterio di validità è stato quello della significatività dei casi rispetto alle ipotesi e non della rappresentatività del campione rispetto alla popolazione.

    La “verifica” di validità si è misurata su queste domande: l’analisi delle interviste ci dice qualcosa in più rispetto a quello che sapevamo prima della soggettività in questione?, ovvero quali sono le categorie sostanziali che possiamo trarre sistematicamente dalle narrazioni e in che modo queste ultime arricchiscono ma soprattutto esplorano le nostre ipotesi teoriche iniziali su come si compone la soggettività? Ci sono categorie di situazione che non sono comprensibili – compatibili con le ipotesi iniziali?

    La ricerca, rispetto alle letture prevalenti sulla condizione dei knowledge workers è pervenuta ad alcuni risultati originali meritevoli di interesse. L'esperienza soggettiva dei knowledge workers è stata descritta, nella letteratura, prevalentemente attraverso il ricorso a modelli oppure a categorie particolari che assumono di volta in volta singole frazioni di lavoratori presentate come composizione generalizzata. Alcuni autori li hanno rappresentati apologeticamente come nuova “élite” su una sorta di e-topia un po’ mitizzata della creatività (Florida, 2006). Sul versante opposto è proposta l'immagine dei “net slaves” o del precariato della rete, con un’interpretazione che li mostra esclusivamente come “vittime” delle forme de-regolamentate di funzionamento del mercato del lavoro (Lessard e Baldwin, 2000; Sennett, 2001; 2008). La nostra ricerca ha cercato di sondare la rappresentazione soggettiva di alcuni lavoratori in carne e ossa mettendo così al vaglio queste opposte meta-chiavi di lettura. Restituendo in profondità il punto di vista dei knowledge workers sulle loro esperienze, i risultati della nostra ricerca rimandano l’idea di una condizione socio-professionale di forte ambivalenza non risolvibile tra precarietà e innovazione (Armano, 2010; 2011).

    Le nostre ipotesi: nello studio la condizione del lavoratore della conoscenza è stata indagata a partire dall’assunzione iniziale orientativa secondo cui il rischio (nella accezione di cui parla Beck) investe i soggetti in più modi e in particolare rispetto ai diritti sociali e del lavoro, con aspetti di precarietà connessa alla debolezza delle tutele formali previste dai contratti atipici e alla peculiare condizione dei lavoratori autonomi. Le narrazioni dei knowledge workers hanno suggerito come approfondire e precisare questo quadro di partenza. I risultati hanno mostrato che la percezione del rischio da parte dei lavoratori non si incentra esclusivamente e principalmente sulla mancanza delle tutele formali e contrattuali, bensì sul rischio che vengano meno le tutele informali. L’informalità su cui in questo mondo socio-professionale si fa forte affidamento è la prima dimensione inattesa emersa grazie allo strumento della narratività che ci ha consentito di evidenziare un aspetto nascosto, oscuro, invisibile della condizione e del senso intersoggettivo con il quale si ricostruisce la propria realtà.

    Gli intervistati non leggono soltanto l’informalità come risorsa o al contrario, l’informalità come trappola della precarietà. L’elemento che più colpisce nei racconti biografici dei lavoratori della conoscenza è che l’informalità nelle sue diverse dimensioni (organizzativa, nelle relazioni di lavoro, nella formazione) risulta indissolubilmente ambivalente come elemento peculiare di questo segmento del lavoro (Armano, 2010a). Per un verso è una risorsa irrinunciabile e dall’altro fonte di estrema incertezza e inquietudine. In un campo in cui le tecnologie digitali e l'aspirazione all'autorealizzazione dei lavoratori appaiono integrate, la conoscenza diventa obsoleta e muta in un modo straordinariamente rapido, i nuovi standards proliferano, le persone raccontano la necessità e la pressione di dover restare al passo con gli standards di conoscenza e il desiderio di restare sulla frontiera che schiaccia simultaneamente energie verso l'impresa e verso l'autorealizzazione nel lavoro. Ciò crea una sorta di socialità informale, compulsiva, vitale ma coattiva (Sproull e Kiesler, 1991) nella quale la persona stessa si immedesima nel lavoro e diventa impresa (Gorz, 2001; 2003).

    Un ulteriore e complementare aspetto che attraversa trasversalmente e intensamente le narrazioni è quello della caratterizzazione contingente: delle esperienze lavorative, delle relazioni di lavoro, dei contatti lavorativi, delle conoscenze a rischio di obsolescenza. L’orizzonte a progetto, l’essere immersi in una logica di task orientation, coinvolgente, temporanea e revocabile, parte dal livello contrattuale ma investe per intero le biografie professionali e ne modifica la tonalità riconfigurando la definizione delle identità.

    Nell’insieme, queste dimensioni concorrono a definire un nuovo senso di autonomia in questo tipo di lavoratori, fortemente legato ai diversi tipi di saperi, alle competenze conoscitive da incrementare e innovare e non disgiunto quindi dal vincolo-risorsa del network, relazionale prima che tecnologico. Per quanto concerne le traiettorie professionali ovvero i percorsi tracciati nella gestione delle transizioni tra vincoli e opportunità, dai racconti degli intervistati, emerge la difficoltà a pensare strategicamente in una prospettiva temporale di lungo termine. Le identità risultano permeate dalla pluralità delle esperienze, ovvero dalla differenziazione delle condizioni e dalla fluidità delle condizioni che rimanda alla mutevolezza delle posizioni temporaneamente raggiunte, cosa ben diversa dal semplice senso del contingente.

    Mentre nell’era fordista l’identità lavorativa era costituita mediante tappe successive lentamente ascendenti che costruivano una storia continua orientata a una meta precisa dentro una organizzazione, l'ambiente postfordista è fluido e costituito piuttosto da networks che rendono incerto sia il processo sia l’esito. Inoltre, al posto di legami rinveniamo connessioni (Castells, 1996) esperibili e dismettibili immediatamente quando si rivelano non più opportuni.

    Per i lavoratori della conoscenza che vivono la temporaneità dei contratti la maggiore sofferenza allora sembra essere legata proprio alla difficoltà di dare forma a una narrazione orientata, di definire una storia, di riconoscere una «trama» nelle attività svolte nonché di individuare un obiettivo riconoscibile da raggiungere. È una sofferenza perché il non avere obiettivi a lungo termine può rendere estremamente vulnerabili nei confronti dell'urgenza del momento.

    Con questo insieme di categorie sostanziali che permeano i racconti dei lavoratori della conoscenza, il metodo narrativo si è rivelato efficace nel far emergere le dimensioni invisibili della condizione a partire dal punto di vista dei soggetti e del senso intersoggettivo. E confrontando le categorie situate del pensiero con alcuni elementi di conoscenza teorica presenti nella letteratura, i concetti risultano arricchiti dai risultati della ricerca sul campo.

    Note

    1] Virtuality, (www.virtualityconference.it), Linux Day (www.torinolibera.org/linuxday.php), Artissima (www.artissima.it), Festival del Cinema (www.torinofilmfest.org)
    2] De Maziere e Dubar definiscono invece le categorie scientifiche costruzioni teoriche e concettuali attraverso le quali i ricercatori possono esprimere i propri schemi interpretativi. Esse sono costruite mediante analisi delle categorie sostanziali, induttivamente mediante procedimenti analitici o mediante rielaborazione delle categorie ufficiali. Distinguono inoltre le categorie ufficiali come le categorie istituzionali delle codificazioni amministrative, statistiche o normative che fungono da pre costruzioni e strutturano i discorsi degli attori istituzionali a cui si riferiscono i soggetti. Ostacolano la comprensione delle categorie sostanziali nonché la loro progressiva trasformazione in categorie scientifiche.

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