Raccontare Ascoltare Comprendere
Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.10 n.1 Gennaio-Aprile 2012
NARRAZIONI, LAVORO E ORGANIZZAZIONI
Silvia Gherardi
silvia.gherardi@unitn.it
Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università di Trento.
Annalisa Murgia
annalisa.murgia@unitn.it
Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università di Trento.
1. Il contributo dell'approccio narrativo allo
studio del lavoro e delle organizzazioni [1]
Il dibattito all’interno della sociologia del lavoro e delle organizzazioni
ha visto di recente, anche in Italia, lo svilupparsi di proposte di abbandono
delle tradizionali lenti di analisi – incentrate quasi esclusivamente
sulla dimensione macro-sociale del lavoro – in favore di categorie nuove,
che consentano di interpretare diversamente il fenomeno del lavorare nella
società post-industriale.
Come sottolineato da Negrelli (2005), quando sapere che una persona lavora
ci offre assai poche informazioni sul suo conto, quando il tempo di lavoro
e di non lavoro vedono sfumare i loro confini, è probabilmente arrivato
il momento di abbandonare il paradigma dominante, radicato nell’analisi
delle variabili del mercato del lavoro, per adottarne un altro con maggiori
doti esplicative. A tal proposito, Bruni e Gherardi hanno messo in luce
che “il lavorare ed il trascorrere una parte della giornata impegnati
in attività lavorative è solo uno degli aspetti della vita, ma la vita
è fatta anche di altre attività, solitamente intrecciate alla quotidianità
del lavoro” (Bruni, Gherardi 2007: 28). Borghi e Rizza (2006) hanno evidenziato
d’altra parte la necessità di studiare il lavoro all’interno della sua
cornice sociale di riferimento e, all’interno di essa, di comprenderne
le trasformazioni e l’evoluzione. Da ambo le parti emerge la critica ad
un approccio che si concentra quasi esclusivamente sulle condizioni economiche
e produttive esistenti, trascurando fattori di carattere sociale, culturale
e politico che sono invece costitutivi e anzi indicano le frontiere più
urgenti della discussione sui contemporanei fenomeni di metamorfosi e
frammentazione del lavoro. L'attenzione sembra dunque spostarsi dall'obiettivo
di fornire una descrizione “oggettiva” del mondo del lavoro e della struttura
dell'occupazione, verso un ritrovato interesse alla dimensione analitica
micro-sociale, volta alla comprensione dei vissuti di lavoratrici e lavoratori
e del processo di attribuzione di senso che danno alle loro esperienze
di vita quotidiana.
Tra i diversi approcci che stanno contribuendo al rinnovamento della sociologia
del lavoro e delle organizzazioni in Italia – quali il lavoro come attività
situata, coreografia, performance, pratica material-discorsiva, istituzione,
ecc. – negli ultimi anni si è fatta strada l’idea che le narrazioni e
le rappresentazioni dei soggetti rappresentino una delle principali fonti
di conoscenza dei contesti lavorativi e dei significati attribuiti al
lavoro. All’origine di questa “svolta narrativa” è la convinzione che
attraverso l’analisi delle diverse forme e modalità di narrare il lavoro
– e ancor più le organizzazioni in cui si lavora – sia possibile far emergere
le letture soggettive e le rappresentazioni individuali, così come la
costruzione di una conoscenza condivisa e intersoggettiva della realtà.
Le narrazioni rappresentano dunque sempre più spesso sia un importante
oggetto di studi per la sociologia del lavoro e delle organizzazioni,
sia un indispensabile strumento di analisi della vita quotidiana nei luoghi
di lavoro (Czarniawska-Joerges, 1997; Poggio, 2004). Le narrazioni al
lavoro e il lavoro come narrazione sottolineano in particolare come lavorare
sia una attività che richiede competenze comunicative e come le pratiche
discorsive siano costitutive delle attività professionali e delle identità
occupazionali di coloro che narrano (Bruni, Gherardi, 2007).
La sociologia del lavoro sta dunque attraversando un periodo di crisi
e di ristrutturazione, accompagnato da un cambiamento delle categorie
analitiche, ma tutto ciò è avvenuto in contemporanea con un significativo
cambiamento della società contemporanea e del lavoro in essa. I profondi
mutamenti che negli ultimi decenni hanno caratterizzato la società e le
organizzazioni hanno infatti minato la fiducia nei modelli di spiegazione
razionali e causali, spostando il fuoco della ricerca dalle descrizioni
statiche e distaccate delle realtà organizzative, alle rappresentazioni
che gli individui hanno del mondo del lavoro contemporaneo e delle organizzazioni
in cui operano. Maggiore è la consapevolezza della complessità e dell’incertezza
organizzativa e professionale, più diventa necessario per gli attori organizzativi
(così come per ricercatori e ricercatrici) trovare linguaggi dell’azione
e della riflessione in grado di esprimere i potenziali simbolici presenti
nelle interazioni sociali (Carmagnola, 1989). L’approccio simbolico-interpretativo
e soprattutto il pensiero post-modernista hanno dedicato particolare attenzione
ai modi in cui i contesti lavorativi sono narrativamente prodotti, sottolineando
la capacità dell’approccio narrativo di generare nuove intuizioni e offrire
stimoli per una più profonda comprensione dei fenomeni organizzativi e
lavoristici. Le storie che si raccolgono rappresentano infatti risorse
di particolare efficacia per comprendere le culture organizzative (Van
Maanen, 1988) e del lavoro (Lamont, 2000) all'interno di specifici contesti
sociali.
Utilizzando un criterio di ordine cronologico, Gherardi (2000) ha individuato
sei diversi modi di porsi da parte di ricercatori e ricercatrici rispetto
alle narrazioni nei contesti lavorativi:
a) le storie come oggetti di collezione – l’interesse nei confronti delle
storie nasce all’interno dell’approccio culturale e dalla convinzione
che le storie possano rappresentare utili costrutti per comprendere ed
interpretare le culture organizzative e del lavoro. Obiettivo dei/lle
ricercatori/trici è quello di individuare le trame e gli archetipi ricorrenti
delle storie raccolte (Martin et al., 1983);
b) le storie come artefatti simbolici – all’interno dell’approccio simbolico-interpretativo
l’attenzione verso le storie è generata dal considerarle artefatti simbolici
attraverso i quali è possibile accedere a livelli più profondi e nascosti
di significato, connessi ad esempio a dinamiche di controllo, adattamento
e cambiamento (Turner, 1982; Pondy et al., 1985);
c) le storie come testo da decostruire – in questa categoria rientrano
quei contributi che hanno applicato allo studio delle narrazioni categorie
analitiche decostruzioniste, al fine di portare alla luce dinamiche di
potere e soprattutto processi di dominio (Martin, 1990; Boje, 1995);
d) le storie come testo aperto – come accade per i discorsi, anche le
storie sono soggette ad una pluralità di interpretazioni e negoziazioni
che le rendono prodotti instabili e mutevoli (Sims, 1999);
e) le storie come processo di storytelling – al centro dell’attenzione
troviamo in questo caso il narrare come spazio e processo di espressione
delle soggettività e quindi di dimensioni quali emozioni, immaginazione
e sentimenti (Gabriel, 2000);
f) le storie come locus di formazione delle istituzioni e delle identità
istituzionali: l’identità organizzativa e/o professionale è considerata
come un processo continuo di narrazione, nella cui formulazione, costruzione,
accettazione o rifiuto sono coinvolti sia gli autori che l’audience.
Di seguito, a partire dalla classificazione proposta da Gherardi e Poggio
(2003) sulle narrazioni nelle organizzazioni e nei luoghi di lavoro, prenderemo
in considerazione alcuni dei principali ambiti di rilevanza nello studio
delle narrazioni organizzative e delle identità lavorative narrativamente
costruite.
2. Ambiti applicativi dell’approccio narrativo allo studio dei
contesti lavorativi
Narrazioni e sense-making – Un’importante funzione delle storie
è legata al sense-making organizzativo: nelle organizzazioni, infatti,
le storie sono utili per preservare plausibilità e coerenza, per incarnare
le esperienze passate e le aspettative, per spiegare le incongruenze (Weick,
1995). Gli individui tendono ad elaborare delle storie dell’organizzazione
in grado di dare senso agli episodi della quotidianità, collocandoli all’interno
di una trama che ricostruisce il passato e orienta il futuro (Dowining,
1997). Analizzando le storie è pertanto possibile individuare le diverse
dinamiche organizzative, mettendo in luce il modo in cui esse sono percepite,
considerate ed elaborate dagli attori organizzativi (Gabriel, 2000).
Narrazioni, appartenenza e socializzazione – Attraverso le storie
è possibile creare appartenenza e produrre un senso di comunità organizzativa
(Boje, Dennehy, 1993): conoscere le storie che circolano all’interno di
un’organizzazione o di un gruppo di lavoro aiuta le persone a comprendere
meglio il contesto in cui operano e a gestire le loro relazioni al suo
interno e certifica la loro appartenenza all’organizzazione o al gruppo
stesso. Chi non conosce le storie della propria comunità organizzativa
rischia di esserne tagliato fuori (Lave, Wenger, 1991; Jedlowski, 2000).
Al tempo stesso la narrazione rappresenta uno dei principali veicoli di
socializzazione organizzativa (Trice, Beyer, 1993). “Acquisire un repertorio
di storie appropriate e, ancora più importante, sapere quali sono le occasioni
appropriate per raccontarle” (Jordan, 1989, p. 935) è parte del processo
di acquisizione della professionalità.
Narrazioni e apprendimento organizzativo – Le narrazioni rappresentano
importanti canali per l’apprendimento nelle e delle organizzazioni. Vari
autori sottolineano come la maggior parte dell’apprendimento organizzativo
avviene attraverso la circolazione di storie (Orr, 1990; Czarniawska-Joerges,
1997). Gli approcci che guardano alle organizzazioni come comunità di
pratiche hanno messo in luce come l’organizzare sia una pratica basata
su un sistema di conoscenza distribuita: in quest’ottica l’apprendimento
rappresenta il processo attraverso il quale gli individui diventano membri
di un gruppo imparandone le pratiche situate (Brown, Duguid, 1991). L’analisi
narrativa può pertanto rappresentare una strada efficace per analizzare
le modalità tramite cui tali pratiche vengono create e diffuse all’interno
dei contesti organizzativi.
Narrazioni e trasmissione della cultura – La socializzazione
e l’apprendimento organizzativo sono entrambe modalità di trasmissione
e conservazione della cultura, processi attraverso cui gli individui imparano
qual è il “giusto” modo di fare e di essere all’interno di uno specifico
contesto lavorativo. Boje ha definito lo storytelling organizzativo come
“il sistema di memoria istituzionale dell’organizzazione” (Boje, 1991,
p. 106), mentre Cortese parla delle storie come di un “veicolo di conservazione
dell’ortodossia” (Cortese, 1999): narrando, infatti, le organizzazioni
e gli individui tendono a rafforzare e tramandare modelli di comportamento
funzionali alla cultura dominante dell’organizzazione. Le narrazioni possono
dunque essere considerate espedienti per riprodurre e mantenere i modelli
culturali esistenti (e in particolare quelli dominanti), pratiche sociali
attraverso cui valori e ideologie sono prodotte, mantenute e riprodotte:
attraverso la ripetizione, la connessione tra gli eventi viene reificata,
diventa fissa ed immutabile, legittimando quindi lo status quo e precludendo
interpretazioni alternative (Mumby, 1987).
Narrazioni e controllo organizzativo – Generando e riproducendo
la cultura dominante, lo storytelling designa pratiche di controllo sociale,
in quanto tende a legittimare significati e relazioni di potere che privilegiano
certi attori sociali su altri (Langellier, Peterson, 1993; Mumby, 1988).
Le storie raccontate nelle organizzazioni solitamente presentano – e così
facendo legittimano – specifiche relazioni gerarchiche e trasmettono ai
dipendenti le regole e le norme comportamentali. Più di un organigramma
o di un regolamento scritto è spesso efficace un racconto per spiegare
a chi si deve ubbidire, cosa si può fare e cosa no, quali sono le eventuali
sanzioni in caso di trasgressione. Il discorso narrativo contribuisce
quindi a creare una cultura di obbedienza sul lavoro (Witten, 1993).
Narrazioni e problem solving – Tra gli elementi costitutivi di
una storia c’è solitamente un problema (Bruner, 1990): nello sviluppo
di una narrazione è possibile individuare uno stato iniziale delle cose,
un’azione complicante (problema) e una risoluzione. Basandosi sulle esperienze
problematiche del passato, le narrazioni possono dunque fornire agli attori
organizzativi una sorta di prontuario o memoria di lavoro per affrontare
le difficoltà e gli ostacoli che incontrano nell’azione quotidiana (Boje,
1995).
Narrazioni e cambiamento organizzativo – Le storie non si limitano
a descrivere gli accadimenti, ma a loro volta li producono. Esse possono
quindi trasformarsi in strumenti autopoietici di trasformazione della
realtà e dell’organizzazione, aprendo la strada a nuovi modelli e comprensioni
(Davies, 1992). Il narrare implica la capacità intellettuale di immaginare
alternative e quindi sviluppa la competenza degli attori organizzativi
nel produrre nuove visioni e generare nuovi assunti. Un chiaro esempio
è dato da una particolare forma di narrazione, quale la metafora, che
fornisce lenti diverse per comprendere la realtà organizzativa e quindi
crea nuove possibilità di azione (Morgan, 1986).
Narrazioni e carriere – Tra gli aspetti che possono essere messi
in luce e analizzati attraverso le narrazioni raccolte nelle organizzazioni
troviamo certamente i percorsi di carriera. Ogni cultura prevede narrazioni
paradigmatiche legate all’esperienza professionale, ovvero rappresentazioni
di un percorso ideale, che comprende gli studi effettuati, le esperienze
lavorative, ma anche quelle personali, secondo una regolazione normativa
del timing degli eventi (Elder, 1974; Hogan, 1978). I racconti che gli
individui narrano rispetto alla propria storia lavorativa, ma anche a
quella degli altri, cercano di rispettare la sequenza ideale o di motivarne
gli scostamenti.
Un caso particolarmente interessante di racconti di carriera riguarda
le narrazioni relative ai percorsi professionali contemporanei, caratterizzati
dai processi di frammentazione e individualizzazione. Le storie di chi
lavora in maniera temporanea sono costellate da numerosi e frequenti punti
di svolta e di rottura, così come lo sono le loro narrazioni. Si tratta
dei cosiddetti turning point (Clausen, 1998; McAdams, Bowman, 2001; McAdams
et al., 2001), che possono essere percepiti come degli eventi non voluti
(Smith, 1988; Meo, 2000) o delle situazioni differenti da quelle attese
(Saraceno, 1993; Weick, 1995), come ad esempio un licenziamento o una
malattia inaspettata, o i casi di non rinnovo di un contratto atteso.
Attraverso un approccio narrativo è quindi possibile cercare di capire
in qual modo i soggetti narranti attribuiscono un senso a tali momenti
di rottura e come riescano a ridare un ordine alla propria biografia (Smorti,
1994), nonostante la difficoltà di creare narrazioni predittive su ciò
che accadrà nel medio e lungo periodo.
3. Presentazione dei contributi su narrazioni, lavoro e organizzazione
Gli ambiti dell’applicazione dell’approccio narrativo allo studio del
lavoro e delle organizzazioni sono numerosi e piuttosto variegati e spaziano
dall’identità professionale, all’apprendimento, al sense-making, alle
carriere. In generale ogni cultura elabora delle narrazioni legate all’esperienza
professionale. In questa cornice si possono collocare i quattro contributi
che seguono, i quali si posizionano in maniera efficace all'interno dell'approccio
narrativo allo studio del lavoro e delle organizzazioni.
I due contributi presentati all'interno della sezione su NARRAZIONI e
LAVORO volgono lo sguardo a due specifiche situazioni professionali. Nel
primo articolo Emiliana Armano, rifacendosi alla tradizione dell’inchiesta
sociale e della “conricerca”, utilizza un approccio narrativo per tratteggiare
le soggettività dei knowledge workers, le loro aspirazioni e le loro paure,
le loro capacità e la loro invisibilità politica, la carica di innovazione
che incorporano e quella di incertezza che subiscono. Si tratta di narrazioni
che ci parlano di nuove soggettività al lavoro, raccontate in presa diretta
sul crinale tra autonomia e sfruttamento, in una fase storica in cui la
precarietà del lavoro sembra essere la norma e la stabilità diventa l'eccezione.
Ad una particolare comunità professionale, vale a dire quella degli assistenti
sociali, fa invece riferimento il secondo contributo, in cui Paolo Rossi
racconta una ricerca empirica condotta presso tre diversi Comuni del Nord
Italia, nei quali è stata effettuata un’osservazione etnografica dei servizi
di segretariato sociale. a organizzazioni, professionisti ed utenti, sembra
essere una chiave di lettura particolarmente feconda per studiare i significati
che diversi attori attribuiscono al concetto di servizio sociale e alle
effettive declinazioni che esso assume al momento del primo contatto tra
cittadini ed istituzioni. Le narrazioni sono intese in questo caso come
pratiche discorsive istituzionalizzate (Bruni, Gherardi, 2007), che si
traducono in un processo dialettico articolato, nel quale il significato
del concetto di accesso al servizio va compreso e situato rispetto alle
rappresentazioni, agli orientamenti e alle prospettive dei cittadini/utenti
e dei professionisti che compartecipano a questo processo.
Spostando lo sguardo dalla cultura professionale a quella organizzativa,
passando dunque dallo studio di particolari categorie di lavoratori/trici
a quello di specifiche organizzazioni, i due contributi successivi, selezionati
all'interno della sessione su NARRAZIONI e ORGANIZZAZIONI, restituiscono
la cultura e le pratiche material-discorsive all'interno di due contesti
di lavoro tra loro molto differenti: un cantiere edile di una delle nuove
linee metropolitane di Roma, da una parte, e una Centrale di Ascolto del
Tribunale per i Diritti del Malato, dall'altra.
Nel primo caso risulta interessante la messa in luce della natura pratica
e tacita della sicurezza sul lavoro. Attraverso le storie degli altri,
raccontate sugli altri, Silvia Doria ricostruisce due storie principali:
la storia raccontata da alcune “figure della sicurezza” – ovvero da coloro
che sono chiamati a controllare, formare, informare sulle norme sulla
sicurezza all’interno di un cantiere? e la storia raccontata dagli operai
(relativa alla loro visione pratica della sicurezza) che spesso si trovano
a non rispettare le norme proprio per lavorare in sicurezza o perché il
modello organizzativo della ditta per la quale lavorano assume come prioritario
il livello di produttività piuttosto che le condizioni di benessere e
qualità del lavoro.
Nel secondo contributo l'analisi si sposta sulle storie dei cittadini
su presunti errori medici. Barbara Pentimalli, nel suo resoconto etnografico,
ci rende partecipi delle abilità dei consulenti front office nell’ascoltare,
tradurre e ricostruire in modo coerente le storie confuse, drammatiche,
lacunose e frammentate raccontate al telefono dai cittadini, illustrando
un lavoro che è al contempo emotivo e investigativo. La narrazione in
questo caso si trasforma da storia orale del cittadino in storia scritta,
sintetica e coerente, dei consulenti. Saranno poi medici-legali e avvocati
che, alla ricerca della storia più plausibile o per scovare i diritti
lesi e le omissioni dei medici, confronteranno le varie storie, caratterizzate
da trame, stili e generi narrativi diversi e connotate da prospettive,
posizioni discorsive e visioni professionali divergenti, nelle quali si
intrecciano e coesistono voci dissonanti dovute alla molteplicità dei
narratori (medici, infermieri, familiari).
Ciò ci porta a ricordare che i contesti professionali non possono essere
rappresentati da una singola storia, ma contengono e si esprimono attraverso
una pluralità di storie e di interpretazioni di storie, spesso in conflitto
tra loro. Ciò significa che le narrazioni sono in fin dei conti “micropratiche
di potere” (Poggio, 2004) e che la storia cui la stessa indagine sociologica
mette capo è una storia fra le altre. Sul piano del metodo, queste osservazioni
spingono verso una costruzione “riflessiva” dei materiali, in cui le voci
dei soggetti siano affiancate alla voce del ricercatore o della ricercatrice,
il cui compito consiste nel ricostruire gli universi di senso entro cui
ogni singola storia proposta dagli attori coinvolti si situa. Svolgendo
tale compito, le narrazioni all'interno delle scienze sociali rivelano
di fatto il loro potenziale euristico: contribuiscono a permettere a ciascun
soggetto parte della ricerca di trasformare ciò che vive in esperienza,
cioè in vissuto compreso, e a chi conduce la ricerca di avere una porta
di accesso privilegiata al racconto del lavoro e della sua quotidianità.
Note
1] Il presente articolo è frutto
della riflessione congiunta delle due autrici, i cui nomi appaiono in
ordine alfabetico. Se, tuttavia, per motivi di ordine accademico, dovesse
essere attribuita responsabilità individuale, Silvia Gherardi ha scritto
il secondo paragrafo e Annalisa Murgia ha scritto il primo e terzo.
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