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    Barbara Poggio - Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.10 n.1 Gennaio-Aprile 2012

    TEMPO E MEMORIA


    Paolo Jedlowski

    jedlowsk@unical.it
    Dipartimento di Sociologia e di Scienza Politica, Università della Calabria.

    Albertina Pretto

    albertina.pretto@unitn.it
    Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università di Trento.

    La sessione “Tempo & Memoria” ha visto confluire al suo interno differenti tematiche sia a livello di presentazione degli abstract sia a livello dei paper selezionati (tanto quelli discussi, quanto quelli distribuiti). La narrazione è comparsa nel discorso sia in quanto strumento della ricerca sociale, sia come oggetto della ricerca stessa. Gli ambiti di interesse proposti andavano dalla narrazione dello spazio alla trasmissione della memoria religiosa, dal ruolo dei media e quello degli oggetti nella costituzione delle memorie individuali e collettive, fino alla metodologia delle “storie di vita”. I due paper che qui presentiamo, rivisti dalle autrici per questa pubblicazione, hanno per oggetto in particolare la memoria e la trasmissione di eventi traumatici.

    Quando si chiede a qualcuno di raccontare la propria storia di vita, la struttura di questa narrazione è organizzata usualmente attorno ad alcuni eventi cruciali. Questi eventi possono essere molto diversi tra loro: il primo bacio, il giorno in cui ci si è laureati, una tappa importante della carriera lavorativa, la nascita dei figli, la morte di qualcuno di significativo. Come scrive Alessandro Cavalli, “questi eventi cruciali o di svolta che incontriamo durante il nostro percorso esistenziale e che, in un modo o nell’altro, ci cambiano la vita […], formano e influenzano la nostra identità personale. Si può dire, anzi, che tali eventi cruciali abbiano messo, di volta in volta, ‘a repentaglio’ la nostra identità individuale, e quindi segnano delle discontinuità: possiamo dire che dopo il punto di svolta non siamo più gli stessi di prima; eppure, di fatto, siamo sempre le stesse persone. Abbiamo quindi a che fare con un paradosso. Nel corso della nostra vita dobbiamo fare i conti con questi eventi cruciali, i punti di svolta che ci cambiano la vita; però cerchiamo costantemente di ricostruire un senso di continuità” (Cavalli, 1997, p. 456).

    Una delle caratteristiche della mente umana è, infatti, la capacità di trasformare sequenze di accadimenti in narrazioni coerenti: le persone tendono cioè a vedere gli eventi del passato come episodi di una storia. Questo implica che quando attiviamo un processo mentale in chiave retrospettiva, cerchiamo automaticamente di stabilire delle connessioni, a volte anche artificiali, tra i fatti avvenuti. Creiamo dunque, similmente ai romanzieri, un intreccio attraverso il quale riusciamo a caricare di senso storico gli accadimenti (Jedlowski, 2000; Zerubavel, 2003).

    Ma un evento, oltre che “cruciale”, può essere “traumatico”. Solitamente, con il termine trauma ci si riferisce ad una lesione (non solo fisica) determinata da una causa violenta. Analizzandolo in chiave psicoanalitica, Sigmund Freud si riferiva ad un evento intendendolo come traumatico quando l’individuo vi si confronta senza avere la possibilità di fuggire, senza avere la possibilità di chiedere aiuto, e soprattutto incontrando difficoltà ad elaborarlo. Lo distingueva dal confronto con una mera situazione di pericolo sulla base della valutazione delle nostre forze rapportate all’entità del pericolo stesso e all’ammissione della nostra impotenza: è traumatica una “situazione vissuta di impotenza” di fronte al pericolo (Freud, 1925).

    Si parla dunque di trauma riferendosi a un vulnus, a una ferita subita dalla psiche a seguito di un'esperienza critica: può trattarsi di un evento personale come ad esempio la morte di una persona cara, oppure di un evento collettivo come ad esempio un disastro ambientale, o di una serie di eventi come una guerra. Il vissuto del trauma riguarda ovviamente individui, ma in ogni caso si tratta di qualcosa che ha un versante sociale: il trauma è un’immagine del passato che si genera quando qualcuno avverte di essere stato implicato in qualcosa che ha costituito una minaccia per i presupposti fondamentali della propria esistenza, ma la messa a punto di questa percezione non si dà naturalmente: si tratta di un processo di interpretazione del passato. Come scrive Alexander: “perché un evento traumatico assuma lo status di un trauma bisogna che sia interpretato come tale […]: è una questione di rappresentazione” (Alexander et al., 2004, p. 202). Le narrazioni riguardanti eventi traumatici sono lo strumento attraverso cui questa rappresentazione si afferma. Poiché le narrazioni, per esistere, hanno bisogno di destinatari, è evidente che il processo in questione è di natura sociale: il trauma è riconosciuto come tale (e può dunque essere elaborato) quando è condiviso in discorsi che circolano.

    La nostra biografia può essere influenzata e strutturata anche da eventi traumatici di tipo propriamente pubblico, ossia avvenimenti che fanno parte della storia della nostra comunità o della nostra collettività di appartenenza; la reazione della comunità di fronte all'evento di svolta, all'evento traumatico non può non rimandare ai temi della memoria, della narrazione e della trasmissione dell'evento e ai modi in cui l'evento viene trasmesso. Parlare di tutto ciò significa naturalmente confrontarsi con alcuni dei problemi più discussi della sociologia contemporanea, quelli riguardanti la formazione delle memorie collettive (per la loro prima formulazione: Halbwachs, 1950; fra le prime discussioni in Italia: Jedlowski, Rampazi, 1991). Può darsi il caso che la stessa collettività tenda a voler rimuovere l’evento così come vorrebbero fare, a volte, anche le singole persone: si rimuove ciò che non si vuole ricordare perché è troppo difficile farlo. Nella dimensione psichica ciò avviene a livello inconscio; nella vita sociale può essere un risultato involontario o non intenzionale prodotto delle decisioni di una pluralità di attori (politici, giornalisti, insegnanti, ecc.) o, in altri casi, può essere il risultato di tentativi deliberati di rimozione o camuffamento del passato.

    Quest’ultima possibilità incontra tuttavia quasi sempre difficoltà: la comunità non può rimuovere certi eventi, per quanto traumatici essi siano perché così facendo rimuoverebbe anche il senso della propria continuità (Barthes, 2009). L’evento traumatico è così paradossale: sfida l’identità costituita, ma al tempo stesso è fonte potenziale di una nuova identità su cui la persona o la collettività basa il nuovo e successivo corso di vita: l’identità del traumatizzato, del superstite, del sopravvissuto, ad esempio (Zaetta et al., 2007).

    Si instaura quindi la necessità di raccontare cosa è successo, cosa si è vissuto: sia da parte dell’individuo che da parte della comunità scaturiscono narrazioni come tentativi di dare significato agli accadimenti che hanno sconvolto, di riguadagnare controllo sul caos che si è venuto a creare. In relazione e in reazione agli eventi traumatici, l’elaborazione di narrazioni individuali e collettive assolve così a tre funzioni: il conseguimento di un effetto catartico, l’individuazione di un tramite per ottenere riconoscimento e/o giustizia, e la realizzazione di una testimonianza che si contrappone all’oblio (Hackett e Rolston, 2009). Le comunità e gli individui colpiti da eventi traumatici devono insomma necessariamente affrontare il problema della narrazione, devono decidere cosa e soprattutto come ricordare (Cavalli, 1998).

    La narrazione può però assumere forme diverse. La letteratura sociologica a riguardo si è spesso concentrata sui conflitti di memoria che si instaurano attorno ai passati inquietanti (Tota, 2001). Nei saggi che qui presentiamo l’aspetto conflittuale delle narrazioni è meno presente. Lo è piuttosto una riflessione sui linguaggi che la narrazione può utilizzare e sul loro rapporto con l’esperienza dei singoli. Il primo saggio, quello di Olimpia Affuso, si concentra sul dramma della Shoah; la conoscenza di questo accadimento (o insieme di accadimenti) si fonda su ricostruzioni storiche tradizionali, su testimonianze orali, su documenti giuridici e su molte altre fonti ancora che hanno contribuito in maniera concomitante alla sua rappresentazione e alla sua memoria. Il saggio mira a iscrivere tra queste fonti anche il fumetto: partendo dallo studio di diverse graphic novel contemporanee sulla Shoah, l’autrice intende rispondere ad alcune questioni legate da un lato alla possibilità di rappresentare la Shoah attraverso il racconto, dall’altro al ruolo che questo genere narrativo specifico può svolgere nella trasmissione alle nuove generazioni della conoscenza e della memoria dei passati traumatici.

    Il secondo saggio, quello di Alessandra Micalizzi, presenta alcuni risultati di una ricerca empirica relativa al ruolo degli oggetti nel processo di elaborazione del trauma per le persone che hanno vissuto il terremoto in Abruzzo nel 2009. Il saggio si propone di comprendere in che modo la permanenza degli oggetti possa contribuire a mettere in atto strategie di coping per superare la tragica separazione dalle cose che contano, intrinsecamente legate alla propria biografia, alla storia di altre persone care e a quella della propria terra. In questo lavoro il tema della narrazione compare in una veste molteplice: se da un lato si riflette sull’importanza del racconto per gli intervistati e sulla specificità della narrazione come strumento di ricerca per il sociologo, dall’altro ci si interroga sulla capacità degli oggetti di essere in sé strumenti e fonti di narrazione.

    Bibliografia

    Alexander J. et al. (2004), Cultural Trauma and Collective Identity, University of California Press, Berkeley.
    Barthes R. (2009), Journal de deuil, Éditions du Seuil, Paris.
    Cavalli A. (1997), “Gedächtnis und Identität. Wie das Gedächtnis nach katastrophalen Ereiginissen rekonstruirti wird”, in K. E. Müller, J. Rüsen, Eds., Historische Sinnbildung, Rowohlt Verlag, Reinbek bei Hamburg, pp. 455-470.
    Cavalli A. (1998), Come reagisce la comunità, Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Asti (www.israt.it), pp. 1-7.
    Freud S. (1925), Inibizione, sintomo e angoscia, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1981.
    Hackett C., Rolston B. (2009), “The burden of memory: Victims, storytelling and resistance in Northern Ireland”, in Memory Studies, Vol 2(3), pp. 355-376.
    Halbwachs M. (1950), La memoria collettiva, trad. it. Unicopli, Milano, 1987.
    Jedlowski P. (2000), Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Bruno Mondadori, Milano.
    Jedlowski P., Rampazi M. (1991), a cura di, Il senso del passato. Per una sociologia della memoria, Franco Angeli, Milano.
    Tota, A. L. (2001), a cura di, La memoria contesa. Studi sulla comunicazione sociale del passato, Franco Angeli, Milano.
    Zaetta C., Colombo G., Santonastaso P., Favaro A. (2007), “Conseguenze psicologiche di disastri naturali e tecnologici: la testimonianza dei sopravvissuti al disastro del Vajont”, in Giornale Italiano di Psicopatologia, n. 13, pp. 177-186.
    Zerubavel E. (2003), Mappe del tempo: memoria collettiva e costruzione sociale del passato, trad. it. il Mulino, Bologna, 2005.



    Collana Quaderni M@GM@


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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