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  • Mappe domestiche: la casa e le sue memorie
    Marina Brancato (a cura di)

    M@gm@ vol.9 n.3 Settembre-Dicembre 2011

    ORDINE E SPAZIALITÀ DOMESTICA IN AOI: LA CASA COME MICROCOSMO COLONIALE


    Silvia Romano

    deaminerva1981@libero.it
    Università degli Studi di Napoli L’Orientale.

    Le case sorte in colonia nella prima fase imperiale, oltre a essere edificate muovendo dagli effetti delle strutturazioni urbanistiche e territoriali delle fasi precedenti, si stagliano su un reticolo urbano adattato a logiche architettoniche del tutto nuove. In base a quanto stabilito nei piani regolatori dei primi anni Trenta, nell’Africa Orientale i diversi complessi abitativi, adibiti a dimora per funzionari e amministratori, assecondano infatti impalcature e tecniche costruttive che vengono dalla ventata di rinnovamento e dalle spinte riqualificanti del movimento razionalista emergente in patria e dai processi conseguenti di riconversione urbana propri delle “città nuove”. Nell'intento di interferire positivamente con l'edilizia autoctona, il movimento razionalista si impone in colonia – soprattutto in Libia - in forza di una supposta koinè architettonica: una sorta di “universale” planimetrico delle cui istanze gli italiani seppero rivendicare piena paternità e che rinveniva nell'elemento della mediterraneità, accostabile senza troppe forzature e in ragione di una continuità di stili sedimentata nel tempo alla cultura dell'abitare già esistente nelle colonie italiane. Si trattava di una mediterraneità da “riscoprire” sì, ma anche da riadattare, nell'alternanza stilistica di due modelli complementari propri della cultura occidentale, quello ellenico e quello latino, ai cui diversi registri architettonici rispondevano la urbes e i suoi edifici a seconda del momento storico. Tra i due modelli, quello latino ebbe il merito di rispondere vigorosamente agli slanci e alle velleità di potenza del Regime, allineando l'architettura al nuovo corso “imperiale” e dirottandone gli influssi dalle ampollosità dell'architettura monumentale alla minimalità dell'architettura domestica della casa romana.

    La costruzione dei diversi tipi edilizi in colonia sembrava perciò darsi nei recinti di edificabilità di una riscoperta del “già dato”, che obbedisse alle specificità dell'azione climatica, responsabile, da ultimo, per le forme e la struttura da conferire agli edifici. Era infatti il clima a tracciare curve e possibilità planimetriche definitive ed era seguendone i solchi già lasciati sul territorio che i primi architetti italiani poterono costruire le nuove realtà abitative, tenendo sempre conto della diversa edificabilità dei terreni e del patrimonio costruito già esistente. L'allinearsi del costruibile al già costruito, le incursioni del clima e dei suoi andamenti nelle geometrie dei nuovi abitati rinvia anche, come necessario presupposto di continuità, alle logiche intime di un “equilibrio” di altro tipo, non più rispondente alle spigolosità climatiche della selva africana ma tutto culturale che Castelli Gattinara vede stabilirsi più in generale tra la casa e i suoi abitanti:

    “In ogni società la casa (la sua struttura e organizzazione) predispone e sostiene il sistema di valori e fa da tramite tra l'individuo e la società. Nella concezione di un'architettura funzionale moderna il procedimento è lo stesso; la casa invita non solo ad utilizzare lo spazio in un certo modo, ma a conformarsi alle norme di quella determinata società. (..) La struttura della casa nelle quali si inseriscono le diverse funzioni della famiglia dovrebbero allora essere in rapporto con la struttura del gruppo familiare, e gli spazi che costituiscono una casa dovrebbe riferirsi al ruolo che ha ogni membro della famiglia e alle relazioni che si stabiliscono tra loro nella vita do ogni giorno.” [1]

    Antropologicamente intesa, la casa è di fatto parte della vita di un individuo “come l'abito che indossa o gli strumenti di lavoro che utilizza” [2]; fissarne i limiti, sceglierne e articolarne lo stile, stabilire la dimensione ubicativa dei suoi ambienti è secondo Gattinara come dare forma o colore a un vestito da indossare. Svilire la casa della significatività sua propria, che definisce culturalmente l’individuo anche dentro gli steccati del privato, mina alla struttura stessa della società provocando, secondo l’autore, una sorta di “perdita di equilibrio”:

    “la cultura è effettivamente una guida al comportamento, così che al di fuori delle proprie forme culturali ci si trova sperduti, quasi ciechi, comunque incapaci di giudicare e di scegliere.” [3]

    La cultura penetra la dimensione dell'abitato garantendo così per la sua stessa continuità. Una continuità che non si risolve nell'“immobilità” o nella “arretratezza” dei suoi tratti ma che sembra tradursi in un sforzo singolare di autoconservazione che anche nelle pratiche del risiedere spinge il singolo a ritagliarsi la parte di mondo che gli spetta, facendo della casa ogni volta suo “primo universo”. E' questo per Bachelard, il momento della nomina a “spazio abitato” di ciò che si struttura come realtà spaziale ancora anonima. Ed è in quello stesso momento che si innescano i dispositivi più o meno consci di trasfigurazione della propria casa a immagine originaria del riparo, dei suoi muri a soluzioni di continuità necessarie a connotarla in senso culturale:

    “La casa è il nostro angolo di mondo, è, come è stato spesso ripetuto, il nostro primo universo. Essa è davvero un cosmo. D'altra parte, ogni spazio veramente abitato reca l'essenza della nozione della casa. L'immaginazione lavora da subito, non appena trova il minimo riparo; l'immaginazione costruisce muri con ombre impalpabili, confortarsi con illusioni di protezione – o inversamente tremare dietro muri spessi, dubitare dei più solidi bastioni. Per dirla in breve, l'essere che ha trovato un rifugio sensibilizza i limiti del suo rifugio, nella più interminabile delle dialettiche.” [4].

    Congiunta alla sfera del culturale la casa riflette perciò, soprattutto nelle culture semplici, i codici propri della società in cui ha origine. Essa prende corpo, riprende Gattinara, nel rispetto di canoni culturalmente riconosciuti e sedimentati in secoli di esperienze, sebbene diversificata dall'estro del singolo possessore. La casa abitata diviene così espressione ultima della cultura originaria, degli schemi di definizione che perimetrano lo spazio rassicurante del costruibile; fuori da quello spazio, che è perciò spazio di un più ampio e indispensabile riconoscimento dell'individuo nella società, significa essere fuori dal gruppo e fuori da questo, per l'autore, è la la vita stessa a non essere possibile:

    “la casa sarà tanto più bella quanto più rientra in quei canoni; conformarsi alle leggi e ai costumi del gruppo significa conformarsi ai propri desideri e alle proprie abitudini. Mettersi contro il gruppo significherebbe mettersi contro sè stessi. Il pensiero, il giudizio, il comportamento dell'uomo sono quelli del suo gruppo e al di fuori di questo la vita non è possibile. Il conformismo alle norme collettive non ammette eccezioni.” [5].

    Secondo Gattinara la continuità tra casa e società si mantiene necessariamente, anche solo in termini di continuità architettonica. Nel caso coloniale, l'incontro del nuovo con la cultura originaria del luogo si risolve come obbligata convergenza di stili urbanistici e ciò nella misura in cui la casa è sempre realizzata, secondo Gattinara, in accordo con quanto le “prescrive” la società di partenza. Le case coloniali sembra rispondano a tale principio: sebbene costruite e abitate dai coloni, esse si piegano alla cultura architettonica del luogo che, in linea con la variabilità del clima, si pronuncia in via definitiva sulla specificità del tracciato planimetrico, sui materiali e sulla struttura edificativa da adottare. La casa in colonia, fuori dai suoi circuiti interni, nei quali risulta spezzata del tutto la continuità con l'elemento indigeno, assolve perciò in pieno alla funzione originaria del riparo. Essa si dà in prima istanza come necessità di adeguamento alle ostilità climatiche, come principio del risiedere che punta al suo obiettivo minimo: la messa a controllo della naturalità caotica dell'ambiente circostante.

    Con ampie aperture ben protette dal sole, con riscontro d'aria pure sul soffitto, la casa realizzata nella zona del bassopiano allineava le sue stanze su di una sola fila disimpegnata, a sua volta, da una veranda o un portico, necessari per il riciclo dell'aria e funzionali alla convivialità propria della stanza di soggiorno. La struttura interna cambiava radicalmente nelle case del medio e alto piano, zone queste in cui la priorità per le popolazioni del luogo diventava quella di difendersi dagli sbalzi notturni di temperatura, dai violenti acquazzoni nella stagione delle piogge. Qui, il sistema detto a “bungalow” risultava essere soluzione ottimale al problema: lasciata areata e ben spaziata, la casa si spogliava finalmente di inutili salotti spesso inabitati. Costruita su un centro che adibisce a grande soggiorno, l'ambiente domestico si sviluppava perciò al suo interno, in questo enorme spazio condiviso in cui era possibile riunirsi per i pasti, per la sosta e in generale per le ore di vita in comune. Questa enorme stanza era in stretta comunicazione con una ampia veranda che cingeva tutto il muro esterno della abitazione stendendo la sua ombra protettrice dal di fuori e servendo da disimpegno per ogni singola stanza. E’ una spazialità questa che come è ovvio sovverte del tutto quella propria delle case del bassopiano, spostando al suo interno l'ambiente abitato e ricacciando all'esterno i disimpegni della casa.

    Negli anni Trenta la casa coloniale e i due diversi contesti di edificazione furono temi ampiamente trattati in molti degli articoli pubblicati sulla rivista “Domus”. Tra questi ricordiamo quello di Piccinato che, riguardo alla necessità di adottare il “giusto” linguaggio architettonico in colonia, ragguaglia sull'utilità dell'edilizia tradizionale locale e confida nel buon senso dei progettisti italiani a che ne sappiano cogliere i preziosi suggerimenti:

    “Dalla architettura locale, dal clima, dai materiali e dai sistemi costruttivi locali, pochissimi furono i veri insegnamenti utili raccolti dai colonizzatori. Eppure era proprio di lì che si sarebbe dovuto partire: la casa avrebbe dovuto essere organizzata proprio in ragione del clima, in ragione del sistema di vita, in ragione dei materiali edilizi. Di lì si sarebbe dovuto partire per creare una architettura coloniale nostra che non fosse una superficiale imitazione banale di quella del colonizzato. L'Italia sta creando ora la sua compagine coloniale; può dunque fare molto meglio di quanto gli altri popoli hanno fatto, evitando gli errori e raccogliendo moltissimi necessari insegnamenti che agli altri sono costati carissimi. Approfittiamone.” [6]

    La specifica morfologia abitativa obbediva, come già detto, alle sole condizioni di partenza del luogo assolvendo anzitutto all'esigenza primordiale del riparo. Se dunque nella colonia nordafricana tale esigenza era che la casa restasse protetta dal sole cocente e dalle polveri dei venti, nell'Africa orientale, ossia nei paesi subtropicali e tropicali, era necessario far fronte ad altro tipo di problema, quali il clima umido, le piogge stagionali e l'aggressione degli animali. Nel primo caso l'abitazione, isolata e a un solo piano, poteva dotarsi di cortili chiusi, giardini o verande interne adatti a creare quel clima raccolto, favorevole alla vita di relazione tra gli abitanti della casa e tra questi e gli invitati. Nel secondo caso invece le verande, come già rilevato, si sviluppavano al di fuori dell'abitazione, cingendone ogni suo lato e restando al coperto grazie a un tettoia a doppia falda dalla pendenza accentuata e dalla sporgenza rilevante. Messe al sicuro le sue facciata dalle alte temperature, la veranda della casa tropicale si caratterizzava poi per la sua peculiarità a ergersi staccata dal suolo grazie a strati di piattaforme utili a sviluppare la casa in lunghezza e a garantire la sicurezza degli abitanti quando nella zona erano presenti animali selvaggi. Al piano terra, vi era poi solitamente un porticato adibito a ricovero per gli attrezzi, veicoli e strumenti da lavoro, mentre al primo piano gli ambienti erano interamente recuperati alle attività domestica e alla routine della vita quotidiana, spesso interrotta dalla pace tutta ricercata negli ambienti contemplativi della veranda, alla quale si accedeva tramite una scaletta ritirata poi la sera con un ponte levatoio.

    La veranda nella casa tropicale, come peraltro i cortili nel caso libico, sembrava perciò darsi più in astratto come unica “zona franca”, messa al sicuro dall'ombra lunga della spazialità domestica e dal suo sforzo disciplinante. Quasi uno svincolo indispensabile, questo, per riappropriarsi consapevolmente di un sè naturale, non ancora murato e distintamente connotato dai “valori” di cui parlava Gattinara. La planimetria “libera” del cortile e la fascia vetrata costituita dalla veranda si orientavano verso l'esterno, prestando il sè di ciascuno abitante della casa alla spaziatura irregolare del mondo, in un'apertura ad esso che si fa presto primordiale e accomunante accostamento alla natura; natura questa non più rinvenibile negli stilemi e nell'immobilità sacra del Paradiso terrestre ma nell'immanenza di una geografia tutta esotica. E' una primitività cui l'individuo aspira naturalmente e che, nei varchi della casa che Bachelard individua come “spazi felici”, l'autore lascia che condensi, come già detto, nell'immagine intima del riparo. Colta come effetto di una sorta di metafisica del ricordo, è questa l'immagine che trattiene in sè il valore tutto umano dello spazio che si vuole difeso, che rinvia ad un'intimità mai violata che trascende la domesticità dei gesti quotidiani per costituirsi come valore dominante del risiedere. Gli “spazi felici” di Bachelard, colti nel ricordo della “prima casa”, proiettano anche nelle “case di dopo” lo stesso senso di riappropriazione intima della stanzialità che si coniuga strettamente all'idea del riparo e che, proprio per questo, resta di fatto avulso dalla sola misura e riflessione del geometra. Lo spazio euclideo, ridotto al concreto delle sue possibilità, si apre adesso alla “parzialità” dell'immaginazione” facendo della casa vissuta qualcosa in più di una semplice “scatola inerte”. Lo spazio abitato trascende lo spazio geometrico. Fuori dalla sua realtà originaria, che è in effetti realtà tangibile, fatta di ossature solide e ben collegate, la casa si piega a metafore che contemplano una trasposizione alla relatà dell'umano e ciò non appena la si assume come “spazio di consolazione” che condensa l’intimità, attraverso i suoi “centri”:

    “La casa nella sua funzione di riparo, tra concretezza e irrealtà immaginativa, sembra acquistare le energie fisiche e morali di un corpo umano; incurva la schiena sotto i rovesci, tende le reni. Sotto le raffiche, si piega quando occorre piegarsi, sicura di risollevarsi in tempo, negando sempre le sconfitte provvisorie.” [7]

    Quella costruita in colonia è la casa che forse più di tutte si lancia in un eroismo cosmico: tesa ad uno sforzo strenuo di resistenza fronteggia l'ostilità esotica. Affrontarne la mutevolezza è, dice Bachelard, una questione di “controenergia”, di intima rivalità con le forze dell’universo, di modalità d'essere e di imporsi al mondo che propria della casa in sé e che sancisce per questo motivo l'impossibilità di accostarla alle pacifiche quadrature geometriche. Attraverso la veranda, le sue sospensioni e i suoi stalli, anche la casa in colonia, si spoglia della sua neutrale strutturalità e si riappropria della veste “iniziale”, degli odori e del calore proprio della casa originaria, nel re-incontro imprevisto e trasfigurato di ciò che è stato lasciato in patria. La veranda è perciò un “centro di semplicità”: nient’altro, per Bachelard, che una proiezione della memoria in cui la primitività del ricordo si spalanca a un campo di immagini presto rese “operative” in risposta all'esigenza primaria e tutta umana del rifugio. Il rinvio ultimo è al “sogno di protezione” incarnato dall'archetipo della capanna, immagine leggendaria della casa primitiva. Parafrasando Bachelin nella sua opera Le serviteur, Bachelard parla della capanna dell'eremita, pianta umana più semplice, come di “un vivere altrove”, lontano dal caos della casa affollata. Priva di ramificazioni, essa appare bastare a sè stessa e alla solitudine del suo unico ambiente che, in quanto tale, permette di accedere all'assoluto del rifugio e di restituirlo così alla “perfezione” dei diversi rifugi animali:

    “La coscienza del benessere richiama il paragone dell'animale nei suoi rifugi. In tal modo, lo stare bene ci restituisce la primitività del rifugio. Fisicamente, l'essere che riceve il sentimento del rifugio, si stringe su stesso, si ritira, si rannicchia, si nasconde, si cela. Cercando nelle ricchezza del vocabolario tutti i verbi in grado di indicare ogni dinamica dell'appartarsi, si troverebbero immagini del moto animale, dei moti di ripiegamento insiti nei muscoli”. [8]

    Il nido, così come il guscio, si costituisce per Bachelard come immagini “prime”, che sollecitano e dipanano in noi squarci di primitività. La capanna, così come la veranda e il cortile, visti entrambi come spazio “semplificato” del risiedere, rinviano all'immagine nuda del rifugio e fanno del domestico uno spazio indispensabile al recupero di intimità.

    Si pensi, a tal proposito, a cosa scrive Frigini a proposito del cortile nella domus latina indigena:

    “Mura bianche, calcinate – scatole di cartone chiuse, le case, coperchi rovesciati, i recinti - “montate” su verosimili paesaggi topografici costellati d'asterischi di palme – una ne cade sempre nello spazio deserto di un cortile quadrato. Sul fondo del cortile - “hortus seclusus” libico – ogni uomo può dominare dal sotto in su la sua parte di cielo; irreali linee divisorie di pentolini, potrebbero segnare, a distanza infinita, attorno allo zenit, I limiti della colonna d'aria che spetta a ogni casa (giardino d'aria sospeso sulla abitazione dell'uomo, che nasce, che ama, che vive, che muore sotto la “sua” parte di cielo, e lo ama e lo semina di desideri e di sogni, come un orto nelle quattro stagioni). (..) La città ci ha fatto dimenticare troppe cose: teso alla conquista di un focolare e di 4 pareti, l'uomo-cittadino non sa pensare che sopra le 4 pareti esiste un plafone di cielo, colorato di azzurro o sparso di nuvole il giorno, planetario di tutte le stelle la notte. Ha dimenticato le leggi immutate della natura, e il monito della luce e dell'ombra, che regola il corso delle cose. Ha dimenticato anche Dio. In cambio si è costruita da sè la sua prigione inumana, di orari falsi e di luci arbitrarie, di abitudini inutili e di paradisi artificiali. Nessuno ha pensato a conquistarsi per sè, in terra, la sua porzione di cielo: un prisma di cielo d'aria non dovrebbe mancare a nessuno: base metri quadrati x per persona, altezza l'infinito, in direzione allo zenit. Non sappiamo più vivere, non sappiamo più “abitare”, come si può “abitare” nell'oasi: (..) vivere “così”, evadere dalla città senza uscirne? (..). di tale carattere di necessità nasce forse uno dei più complessi problemi dell'architettura oggi. Risolto nei secoli dall'architettura mediterranea per I paesi, le oasi, I litorali; I soli “quartieri-giardino” sono in grado attualmente una soluzione, dentro alla città.” [9].

    Il cortile centra planimetricamente l'intera abitazione nel chiuso dei suoi spazi interni. Si costituisce come suo snodo, svincolo unico, funzionale alla possibilità di incontro propria del soggiorno, che “raccoglie” l'intera spazialità della casa pur distribuendone buona parte lungo tutta la stretta fascia di edificio dato alle stanze - il corridoio. I suoi muri perimetrali sono pronti a far ombra, a proteggere dalle polveri e ad assicurare riservatezza a chi vi risiede; nel suo esplicito rinvio architettonico alla casa araba, è di importanza vitale nelle case nordafricane, “riportandoci al concetto della abitazione latina con la sua vita raccolta intorno al cortile” e mostrandoci infine “una logica economica e mediterranea soluzione della casa ad alloggio singolo adattissima ai climi dell'Africa.” [10].

    Come impianto planimetricamente ribaltato, la “villa su palafitte” sostituisce la veranda al cortile, conferendogli uguale funzione di soggiorno:

    “La veranda ha per la casa tropicale la stessa importanza che ha il cortile chiuso per la casa dell'Africa settentrionale e risponde naturalmente come questo, a delle pratiche necessità imposte dal clima e dalla vita. Nell'Africa settentrionale infatti, l'aridità generale dei luoghi e del paesaggio consiglia di creare la necessaria oasi di riposo nel cuore della casa e di chiudere questa al di fuori: di qui il cortile chiuso, centro dell'abitazione. Nei climi tropicali invece, là dove la foresta dona vegetazione grandiosa ed ombra riposante, la soluzione planimetrica logicamente si rovescia: e la casa è tutta compatta al centro, raccolta in sè stessa, mentre si apre al di fuori proteggendosi tutto intorno con portici e verande. La veranda è dunque il posto di riposo e di soggiorno nelle ore più fresche della giornata, nella veranda si accoglie l'amico, si riceve si riposa, si legge. La veranda serve anche talvolta a disimpegnare certi ambienti speciali: per esempio le stanze degli ospiti, I quartieri dei servitori, gli uffici dove si lavora durante la giornata. (..). Nella moderna casa coloniale tropicale dunque, la veranda deve diventare, non già un accessorio (così l'aveva considerata l'architettura dei colonizzatori dello scorso secolo), ma piuttosto un importante elemento costitutivo altrettanto necessario quanto gli ariosi ambienti di soggiorno.” [11].

    Una trattazione attenta dei disimpegni della casa coloniale è utile in questa sede se si guarda all’ubicazione propria dei cosiddetti “quartieri” della servitù e alla singolare continuità spaziale che questi mantengono con ciò che rappresenta il centro simbolico dell'intero abitato. La prossimità delle due zone, quella ricreativa e quella appannaggio della servitù, creano una condivisione degli spazi inaspettata tale per cui il disimpegno, oltre che darsi come centro della casa e spazio della “messa a raccolta” dei suoi abitanti, sembra riesca a scardinare i confini razialmente strutturati degli ambienti domestici in colonia. Ma ciò non accade. Quella prossimità si risolve in un confinamento ulteriore che relega l'elemento indigeno, nel caso nordafricano, in piccole stanzette nascoste che pur dando sul cortile restano blindate alla convivialità e all'incontro. Nel caso della palafitta, si trattava invece di ambienti angusti disposti al pianterreno – liddove vi erano ingresso, cucine e servizi – che davano, sì sulla veranda, ma solo in direzione esterna, restando chiuse al corpo raccolto della casa.

    L'intento segregante si dava perciò convintamente anche nel microcosmo domestico della colonia. La reclusione della servitù in zone precise della casa, svincolate dal suo corpo unico e recuperate ai margini, nei suoi interstizi, lascia intendere che sebbene ricondotti nello spazio domestico gli indigeni ne restavano sempre e comunque al di fuori. La messa in mora dei corpi rispetto al consumarsi di civiltà nella domus occidentale li condannava perciò ad un'alterità menomata, riconsegnandoli, attraverso le trasparenze dei vetri, alla natura caotica della loro terra d'origine.

    Veniva dunque recuperato un ordine preciso anche nella casa coloniale, grazie ai suoi ambienti, ai suoi svincoli, ai sui muri. Un ordine che più in astratto rimanda anche stavolta all'episteme foucaultiano del “ciascuno al suo posto” e che svela oltremare una tensione quasi maggiorata a disciplinarne i corpi che la abitano. L'impianto normativo che fissa il confine nelle case africane ricalca infatti logiche distintive di un potere già esercitato nel macrocosmo coloniale ma riscontra anche nelle “spaccature” che l'attraversano, oltre che le discontinuità necessarie a fare di una distesa amorfa spazio umanizzato di vivibilità, linee di inclusività che muovono in forza di codici razializzati, che marcano dunque con più vigore il significante della differenza.

    E' un ordine quindi che nel caso coloniale “marca più stretto”, che imbriglia gli spazi senza dare adito a pluralità e interferenze. Agendo come “riduttore della complessità” nello sforzo di far fronte ogni giorno all'imprevedibilità dell'esperienza coloniale, al rischio di contaminazione che il contatto diretto con l'alterità porta con sè; una contaminazione questa il cui timore sembra dissolversi nella necessità di neutralizzare ogni possibile minaccia al proprio ordine e che è tale ad ampio spettro perchè quella stessa alterità è ontologicamente portatrice di disordine. Il controllo frenetico della spazialità domestica sembra dunque risolversi nel controllo di quel “disordine” che è strettamente simbolico. Diventa traccia silenziosa e pervasiva dell’ingerenza occidentale che erige gli steccati della differenza fin dentro gli svincoli degli spazi di casa e punta ad invalidare l’Altro dandogli precisa collocazione nella griglia epistemica dell’“ordine bianco”. Un ordine che è disposizione stessa del potere, che si riconnette alle retoriche razializzanti di una “grammatica” universale, che da sola dà assetto alle cose del mondo e tratta con l’altro soltanto in termini di dominio coercitivo: “o riconoscerlo come marionetta o ridurlo a puro riflesso dell’Occidente” [12]. A partire dal microcosmo domestico, così, la logica destituente della pratica coloniale ingabbia l’altro [13], lo inscrive negli schemi assoluti di ordine e intelligibilità dell’Occidente, defraudandolo della sua storia e della sua identità, tenendo fede al progetto di costruzione discorsiva del potere occidentale.

    Note

    1] Castelli Gattinara G., De Luca F., Giorgi,R., 1981, p. 45.
    2] Ibidem.
    3] Ibidem.
    4] Bachelard G, 2006, pp. 32-33.
    5] Castelli Gattinara, op cit., p. 56.
    6] Piccinato, 1936, in dottorando, in http://www.fedoa.unina.it/1881/1/Santoianni_Progettazione_Architettonica.pdf .
    7] Bachelard, op. cit., p. 50.
    8] Ibidem.
    9] Santoianni, op cit., p. 16.
    10] Ibidem.
    11] Ivi, p. 118.
    12] Barthes R., 1994, p. 167.
    13] De Chiara M., 2005, Oltre la gabbia: ordine coloniale e arte di confine, Meltemi, Roma.



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