Mappe domestiche: la casa e le sue memorie
Marina Brancato (a cura di)
M@gm@ vol.9 n.3 Settembre-Dicembre 2011
LA MEMORIA DELLA CASA “IN DIVENIRE”
Marita Rampazi
rampazi@unipv.it
Professore straordinario di Sociologia presso la Facoltà di Economia dell’Università di Pavia. I temi della memoria e della spazio-temporalità, alla luce della crescente incertezza dell’esperienza nelle società contemporanee, sono al centro dei suoi interessi teorici e di ricerca.
Fra le sue pubblicazioni più recenti su questi temi, si segnalano: Sentirsi a casa. La costruzione dello spazio-tempo nei giovani (con C. Leccardi e M. G. Gambardella; Utet, 2011); Storie di normale incertezza. Le sfide dell’identità nella società del rischio (Led, 2009); Nuove fragilità e lavoro di cura (con V. Iori, Unicopli, 2008); La memoria pubblica. Trauma culturale, nuovi confini e identità nazionali (con A. L. Tota, a cura di, Utet, 2007); Il linguaggio del passato. Memoria collettiva, mass media e discorso pubblico (con A. L. Tota, a cura di, Carocci, 2005).
1. La casa e la memoria: problemi aperti
Nella cultura moderna, la casa è comunemente intesa come un “fisso e chiaramente
delimitato essere spaziale” (Schillmeier e Domenèch, 2009, p. 290). E’
in virtù di tali caratteristiche che essa appare come un ambito privilegiato
della memoria dei singoli e della comunità che vi risiede. La fisicità
di tale “essere spaziale” rende visibili le tracce lasciate dallo scorrere
della vita al suo interno; la sua precisa delimitazione, consente di raccogliere
“cose”, immagini e segni, preservandoli dal rischio di dispersione; la
stabilità, implicita nella sua fissazione territoriale, garantisce la
conservazione nel tempo di queste testimonianze, a condizione che gli
abitanti della casa ne abbiano cura.
In tale prospettiva, la casa è un “luogo” in senso proprio: “centro di
esperienza e intenzionalità, memorie e desideri [… fonte importante] di
identità, individuale e collettiva” (Silverstone, 1994, trad. it. p. 27).
Ma è anche, fra tutti i luoghi di cui possiamo fare esperienza, il contesto
che corrisponde alla “tradizione forse più antica dell’homo sapiens, quella
che privilegia un posto, o certi posti, rispetto a tutti gli altri” (Heller,
1994, p. 382). Si privilegia un posto, perché le sue caratteristiche sono
tali da farlo apparire come un unicum agli occhi di chi lo abita: è ciò
che una persona “può mostrare” per indicare qual è il “il centro della
sua vita” (Heller, 1994, p. 382).
Oggi, si tende a dare per scontato che “casa” sia la dimora della famiglia,
o, più in generale, il posto in cui si stabilisce l’abitazione: un ambito
spaziale e relazionale, dove la pienezza del proprio essere persona, può
svilupparsi nell’intimità della vita privata, al riparo dalla strumentalità
e dai “pericoli” del mondo esterno. Storicamente, però, la casa-centro
dell’esperienza non è sempre stata concepita come il luogo che delimita
la sfera del privato, né si è identificata esclusivamente con il limitato
spazio dell’abitazione. Lo fa notare, ad esempio, Heller nel saggio citato,
quando ricorda che, in passato, il termine “casa” è stato usato per indicare
lo spazio fisico dell’appartenenza a una “tradizione”, ereditata per nascita
e destinata ad essere perpetuata dai soggetti nel corso della loro vita.
In questo senso, in epoche e contesti socio-culturali differenti, “casa”
è stata “la tenda del padre, il villaggio natio, la città libera, l’enclave
etnica, lo Stato nazionale, il territorio sul quale sorgeva il luogo sacro
e molto altro ancora” (ivi, p. 382). Ciò che accomuna queste “case” della
tradizione e consente di omologarle all’idea moderna della casa–abitazione
è il fatto che esse offrono ai soggetti la collocazione durevole di sé
in uno specifico e stabile habitat: in un unico centro che è, contemporaneamente,
uno spazio fisico, relazionale e culturale. In altri termini, il presupposto
su cui si è sempre ritenuto di poter fondare l’esperienza e la memoria
della casa è il criterio della monogamia, geografica e culturale (Heller,
1994; Beck, 1997).
Questo criterio sembra messo in discussione, oggi, dalle trasformazioni
spazio-temporali implicite nel processo di globalizzazione e dalla diffusione
delle nuove tecnologie dell’informazione che le sostengono.
Heller, ad esempio, sottolinea gli effetti destrutturanti della mobilità
geografica, che alimenta situazioni di poligamia di luogo. In tale contesto,
nota l’Autrice, l’instabilità abitativa si intreccia con lo sbiadire dei
referenti culturali e degli “spazi discorsivi” (ivi, p. 390) delle case
della tradizione, con il rischio di trasformare l’esperienza spaziale
della casa nell’esperienza temporale del “Presente Assoluto”. Un tempo
nel quale il soggetto è solo, nella sua ricerca di senso, in balìa di
spazi anonimi, che richiedono “un’astrazione totale dalla sensibilità
e dall’emotività” (ivi, p. 387).
Altri sottolineano come la mobilità vada di pari passo con una straordinaria
accelerazione dei tempi della vita. La velocità sta diventando il tratto
caratterizzante della temporalità tardo-moderna, trascinando con sé una
profonda ridefinizione dell’esperienza spaziale. Si assiste, così, a un
fenomeno di compressione spazio-temporale [1]
che, come nota Harvey, ci costringe “a modificare, a volte in maniera
radicale, le modalità attraverso le quali rappresentiamo il mondo a noi
stessi” (1989, tr. it, 1993, p. 295). Giaccardi e Magatti osservano, in
proposito, che l’accelerazione, inducendoci a passare “continuamente da
un mondo a un altro, da una sfera sociale a un’altra, da un paese a un
altro” (2001, p. 40), fa sbiadire “l’esperienza della soglia”, in una
sorta di “ipertrofia del transito”. Come si deduce da questo passo, l’esperienza
della soglia non riguarda solo i confini territoriali, ma anche le delimitazioni
culturali, sociali, funzionali, con cui, in età moderna, si è cercato
di razionalizzare lo spazio, al fine di strutturare lo scorrere della
vita sociale secondo criteri di ordine, certezza, prevedibilità (Mandich,
2002). L’accelerazione comporta una tendenziale de-spazializzazione dell’esperienza,
che si traduce, per individui e gruppi, in una crescente incapacità di
“dare forma al tempo”, di “scandire delle successioni che sono anche trasformazioni”
(Giaccardi e Magatti, 2001, p. 40).
Benché tutte le dimensioni della temporalità siano interessate da questo
fenomeno, i rischi maggiori sembrano riguardare il tempo lungo della memoria,
da cui dipende la capacità dei soggetti di collocare la propria biografia
in una prospettiva durata [2]. Se non
è possibile stabilizzarsi in un luogo, dando all’esperienza il tempo di
“sedimentare” (Jedlowski, 1989) in un ambiente fisico, relazionale e culturale
reso familiare dalla consuetudine, i percorsi di vita rischiano di disperdersi
in un caleidoscopio di “atti in sé” (Sennett, 1998), il cui significato
è conchiuso nell’istante in cui si producono. Secondo Lash (1998), oggi,
l’esperienza del tempo si è ridotta a quella degli istanti in successione.
Di essi, non resta traccia nella memoria: si ricorda la frenesia del transito,
non ciò che si è costruito negli istanti dell’agire.
A fronte di tale scenario, si potrebbe concludere, con Sennett, che il
destino dei contemporanei sia quello di non riuscire più a produrre un
racconto coerente di sé, del proprio divenire nel farsi dell’esperienza;
o, come nota Bauman (1999), che lo sradicamento sia ormai una condizione
normale, che trasforma il percorso di vita in un incessante vagabondaggio,
privo di direzione e di significato.
Questa “lettura” delle trasformazioni in atto, pur plausibile per alcune
categorie di persone, ci sembra, tuttavia, troppo semplificatrice, rispetto
al caleidoscopio di situazioni proposte dalla realtà contemporanea.
Nelle pagine che seguono, vorremmo provare a ragionare di ri-radicamento,
oltre che di sradicamento, ipotizzando che vi siano strategie di costruzione
e preservazione della memoria della casa, anche in situazioni di poligamia
di luogo. In particolare, intendiamo chiederci, non tanto “dove si possono
trovare”, quanto “come si possono costruire”, oggi, le condizioni che
consentono di vivere lo spazio fisico e relazionale in cui “si sta, ora”,
in un luogo significativo per il tempo lungo della durata. Rispetto alla
letteratura consolidata sulla casa (Mallet, 2004), si tratta, cioè, di
spostare l’accento, dal luogo che si concepisce come casa, al modo in
cui prende forma l’esperienza dell’abitare, a partire dalla concretezza
della vita quotidiana.
2. Abitare: l’esperienza sensibile delle “cose” nella costruzione
della memoria
Verso la fine del saggio citato nelle pagine precedenti, Heller osserva
che “le donne e gli uomini moderni sono contingenti […]. In un mondo contingente
sono aperte tutte le possibilità” (1994, p. 394). Fra queste possibilità,
vi è, senza dubbio, quella di transitare continuamente da un posto all’altro,
immersi in un presente de-territorializzato, privo di memoria, legami
forti, prospettive di divenire – la casa del “Presente Assoluto”, appunto.
Tuttavia, vi è pure la possibilità di esercitare la propria riflessività,
al fine di costruire modi nuovi per radicarsi nel contesto in cui si vive,
per scelta o per necessità, anche se si tratta di un radicamento temporaneo,
in un posto, la cui delimitazione non è data a priori, ma va definita,
giorno per giorno.
Nel corso di alcune ricerche sui giovani [3],
ad esempio, abbiamo notato che, nonostante le spinte centrifughe e presentificatrici,
stanno emergendo delle strategie di addomesticamento e ri-significazione
dello spazio, che implicano una rinnovata centralità della casa, e della
sua memoria, nel vissuto giovanile.
Evocando l’idea di “casa”, della “propria” casa, la prima immagine proposta
dai nostri intervistati è quella di un contesto in cui “sto bene”, che
“mi rappresenta” pienamente. Si tratta di un modo di circoscrivere i confini
della casa, che fa perno sulla capacità, di cui parla Seamon, di “vivere
in stretta intimità con un luogo, prendersi cura di esso e sentirsi a
proprio agio […] in quel luogo” (1979, p. 41).
In questa immagine, non è la casa a proporsi come centro per il soggetto,
ma il soggetto stesso che diventa un centro per l’idea di casa.
Ne consegue che si può sperimentare il vissuto della casa – fatto di familiarità,
consuetudine, intimità, rispecchiamento di sé nell’ambiente circostante
-, nonostante la consapevolezza che la propria collocazione al suo interno
non sia definitiva. Ciò che conta è che “per ora, io sto bene qui”.
Nei racconti di questi giovani, la casa non è quasi mai definita come
un centro unitario di appartenenza – quale appariva in epoca pre-moderna
-, o come uno stabile rifugio (Lash, 1979), dove sviluppare e salvaguardare
la sfera della vita privata [4], come
si è ritenuto in età moderna. E’, piuttosto, un’entità mutevole, in cui
si concretizzano le “idee […] che le persone hanno circa la collocazione
della propria vita nello spazio e nel tempo”, come osserva Mary Douglas
(1991, p. 290). Queste “idee” possono cambiare, non solo secondo il momento
storico e il tipo di società in cui si è inseriti, ma anche nell’arco
della biografia di un soggetto, in funzione dell’età e delle situazioni
che, volta a volta, si devono affrontare.
In considerazione di ciò, riteniamo più che mai opportuno il suggerimento,
avanzato da Schillmeier e Domenèch (2009), di provare a ri-concettualizzare
l’idea di casa, mettendo in primo piano le dinamiche dell’abitare, solitamente
trascurate dalla letteratura. Muovendo da tali dinamiche, si può considerare
la casa come un “divenire”, la cui definizione non né è data a priori,
né uguale per tutti, in ogni momento della vita.
La ri-concettualizzazione proposta da Schillmeier e Domenèch prende spunto
dall’idea di “abitare” in Heidegger (1971). Per il filosofo tedesco, “abitare”
è uno “stare con le cose” (ivi, p. 150), che, come precisa Raciti (1990),
trasforma lo spazio in un “luogo esistenziale, in cui le cose per vivere,
e la vita stessa, possono essere raccolte, traendone un senso” (p. 38).
L’importanza delle “cose” con cui si sta, abitando un posto, dipende dal
fatto che esse racchiudono – e preservano nel tempo – dei significati,
ai quali si può costantemente tornare, per ritrovarli, ricostruirli, rielaborarli.
Come nota Bodei (2009), riprendendo Heidegger, “le cose innescano in chi
le usa o le contempla un susseguirsi di rimandi, che sgorgano da loro
come da un’unica, inestinguibile sorgente di donazione di senso” (ivi,
p. 48)
I “rimandi” “sgorgano” dalle cose quando le contempliamo, dando spazio
all’immaginazione. Ma è soprattutto grazie alla manipolazione che la dimensione
simbolica e relazionale dell’agire si fonde con l’esperienza sensibile
della materia, dando visibilità e durata ai significati dell’azione stessa
[5].
Usando le “cose” e frequentando gli spazi in cui si trovano, si acquisisce
quella conoscenza spontanea del mondo che, per Bégout (2005), è il carattere
essenziale della familiarità con il proprio habitat. La familiarità presuppone
la consuetudine. Deve, cioè, basarsi su strutture ripetitive, tipiche
della vita quotidiana (Mandich, 2010b), che consentano di trasformare
un’esperienza singolare – quindi, problematica - in un “dato per scontato”
rassicurante, de-problematizzato (Jedlowski, 2005).
La familiarizzazione con l’ambiente è il primo passo nello sviluppo del
processo dialettico dell’abitare: un processo in cui si intrecciano assimilazione
e trascendimento. Da un lato, la contemplazione e l’uso ripetuto delle
cose consentono al soggetto di assimilare l’ambiente e assimilarsi ad
esso. Dall’altro lato, l’immaginazione - innescata dalla contemplazione
- e la manipolazione della materia – implicita nell’uso delle cose – stimolano
l’individuo a trascendere il mondo in cui vive, plasmandolo e risignificandolo,
in funzione del proprio sé in divenire. E’ grazie alla possibilità di
innescare questo processo che il posto dove “si sta” si trasforma, gradualmente,
in quello dove “ci sentiamo a casa”.
Il perno di questa dialettica è la costruzione della memoria.
La memoria della casa si riferisce a un passato capace di “farsi presente”,
in ogni momento della vita quotidiana, testimoniando il grado di assimilazione
raggiunto, grazie ai “rimandi di senso” delle cose raccolte in quel luogo.
Contemporaneamente, prende forma la memoria del futuro e della propria
capacità di trascendimento, nella misura in cui, su queste stesse cose,
si imprimono le tracce dell’agire, nel presente. Contemplandole, manipolandole,
affiancando ad esse “cose” nuove, ne possiamo mutare il senso e la fisionomia,
mantenendo e rafforzando il nostro controllo sugli spazi domestici. Nella
casa, continuità e discontinuità si intrecciano: il soggetto può cercare
di trascendere l’ambiente, riaffermando costantemente la propria centralità
al suo interno, senza mettere a repentaglio il senso di familiarità che
lo lega ad esso.
La costruzione di questa memoria dipende da molti fattori: il grado di
riflessività dei soggetti, il ruolo che la mobilità assume nella loro
prospettiva di vita, l’intensità con cui essi vivono – per scelta o per
necessità – l’esperienza del transito. Possiamo trovare situazioni di
“ipertrofia del transito”, senza alcuna possibilità di avere una casa
– pur temporanea -, in cui “raccogliere le cose” significative per la
memoria del proprio percorso. E’ quanto accade, ad esempio, alla manager,
citata da Heller, che trascorre la vita spostandosi continuamente da una
parte all’altra del globo, da una camera d’albergo all’altra, da un aereo
all’altro. Ma possiamo anche osservare casi di stabilizzazione provvisoria,
quando il transito si accompagna a prolungati intervalli di sosta, in
posti che possono assumere i connotati della casa, benché si tratti di
una casa a tempo. E’ questa la modalità emergente dalle testimonianze
di alcuni studenti fuori sede che abbiamo intervistato; o che si riscontra
nel vissuto di alcune persone, soggette a più trasferimenti di residenza
per motivi di lavoro. Il transito può anche configurarsi come un pendolarismo
organizzato e consuetudinario. Succede, ad esempio, a coloro che, con
modalità e scansioni regolari, si spostano da una polarità all’altra di
un insieme, stabile e ben definito, di contesti abitativi: una sorta di
casa diffusa. E’ quella di molti giovani, figli di separati, che pendolano
fra l’abitazione della madre e quella del padre. O di chi si sposta settimanalmente,
dalla stanza in subaffitto, nel posto dove lavora, alla casa della famiglia,
in un’altra città. O, ancora, di quanti “vivono due vite in parallelo”,
sospesi fra due paesi e culture differenti, fra cui si muovono più volte
nel corso dell’anno, sperimentando la consuetudine del ritorno.
Di seguito, vedremo alcuni esempi di come si può sviluppare la costruzione
della memoria in alcune di queste situazioni atipiche, considerando la
casa a tempo degli studenti universitari e la casa diffusa dei pendolari.
3. Provvisori e pendolari: quale memoria della casa?
Per molti giovani, il trasferimento in un’altra città, per compiere gli
studi universitari, segna il primo, effettivo, distacco dalla casa dell’infanzia,
che, nell’esperienza del bambino e dell’adolescente, assume connotati
di centralità e unitarietà molto simili a quelli della casa della tradizione.
Si sperimenta, così, per la prima volta, lo spaesamento, tipico di ogni
“nuovo inizio”. Uno spaesamento che bisogna imparare a gestire, anche
in vista del fatto che, presumibilmente, si è destinati a sperimentarlo
nuovamente in futuro: al termine degli studi, infatti, si apre un periodo
di mobilità lavorativa a cui pochi, oggi, possono sottrarsi.
Il superamento di questo primo momento critico non è affatto scontato.
Vi è chi vive la nuova realtà come troppo disorientante, al punto da decidere
di tornare alla rassicurante familiarità del luogo d’origine. Altri reagiscono
all’estraneità dell’ambiente facendo qualcosa di concreto per riprendere
il controllo della situazione, a partire dall’organizzazione della vita
quotidiana nella nuova abitazione in cui vivranno, da soli o con dei coetanei.
Il primo passo in questa direzione consiste nell’esplorare e rendere “abitabile”
la propria camera. Vengono, così, estratti dalla valigia – e collocati
in bella vista - il “mio” pc, le “mie” foto, i “miei” poster, i “miei”
libri e cd preferiti. Sono ricordi “portatili”, molti dei quali testimoniano
la “leggerezza” della memoria, in un’era, come l’attuale, dominata dall’uso
dei nuovi media (Bufffardi, Isabella, Jedlowski, 2010). La loro presenza
è una testimonianza tangibile di chi si è stati sino ad ora, in altri
luoghi, con altre persone: un ancoraggio sicuro per il senso di sé, messo
a repentaglio dalla nuova situazione. A queste “cose”, si possono aggiungere
oggetti, che ricordano le “coccole” della casa di famiglia: il “mio” cuscino,
la lampada “che fa le bolle”, il mio “piumone” ecc. Più che un luogo fisico,
si ricostruisce un’atmosfera familiare di esperienze sensoriali: non solo
oggetti - da contemplare e maneggiare -, ma anche suoni e colori “che
ci rappresentano”. Pressoché per tutti, ad esempio, è fondamentale avere
nella propria stanza il costante sottofondo musicale dei brani preferiti.
Altri puntano sugli effetti cromatici. Così, Elvira, una giovane intervistata,
nasconde il grigiore dei mobili sotto stoffe vivaci, ricopre il bianco
delle pareti con ritagli di carta, poster, fotografie molto colorate,
disperde abiti, libri e altri oggetti nella stanza, creando un impatto
visivo tale da evocare le luci vivide del Sud, da cui proviene.
Con il procedere dell’organizzazione, alle vecchie “cose”, che fissano
la continuità con il passato, si affiancano “cose” nuove, che testimoniano
la discontinuità del presente. Non si tratta solo di oggetti, quali, i
libri per l’università, una bacheca a cui appendere i ricordi delle prime
esperienze nella nuova realtà, “una pianta perché è bello avere una cosa
viva di cui prendersi cura”. Nella casa, e nell’esperienza dei soggetti,
entrano anche utensili ed attrezzi di varia natura, indispensabili per
il ménage. La novità di tali oggetti non consiste tanto nel fatto di essere
stati appena acquistati, quanto, piuttosto, nell’esigenza di imparare
ad usarli, per garantirsi condizioni minime di ordine e pulizia. Si tratta
di un’esperienza totalmente inedita, soprattutto per molti ragazzi, solitamente
esentati dai compiti di cura nella famiglia d’origine.
Il senso di discontinuità, generato da queste nuove responsabilità, è
spesso accentuato dal fatto che, di norma, non si abita da soli: molti
sono i giovani che risiedono in un collegio, o in una stanza in subaffitto,
con altri studenti, solitamente sconosciuti. Bisogna organizzare la convivenza,
costruendo forme di adattamento reciproco, senza poter dare nulla per
scontato. Occorre definire i confini della privacy di ciascuno; stabilire
una sincronizzazione di orari e abitudini; ripartirsi equamente i compiti
di riordino e pulizia nelle parti comuni; capire quali sono, per ciascuno,
criteri di condivisione accettabili. Inizia una negoziazione fra più parti,
che può avere esiti differenti. E’ soprattutto sulla condivisione delle
incombenze domestiche e delle regole dell’ordine che la comunità abitativa
può cementarsi o disgregarsi. Ad esempio, per Gino, un altro studente
intervistato, è cruciale il rispetto dell’ordine, in particolare, di quello
stabilito nella propria stanza: il “mio” nido, dice, dove “le mie cose
hanno un ordine preciso e lo devono mantenere”. Anche per Elvira è importante
affermare il “proprio” criterio, basato su un ordine sui generis, che
si potrebbe definire un “disordine organizzato”. Preservare questo disordine,
in cui “io, comunque, so sempre dove trovare le cose” è un modo per stabilire
la signoria sullo spazio (Pasquinelli, 2004). Si tratta di una strategia
praticata, fra l’altro, anche da chi vive ancora in famiglia, per fissare
i confini del “proprio” spazio, dove “nessuno può mettere mano”. Stabilendo
i criteri dell’ordine o del disordine, non si definisce solo il controllo
sullo spazio. Si pongono anche le basi per raccogliere e custodire le
cose, in cui si sostanzia la memoria della casa. La persona che decide
come e dove collocare date cose, quando spostarle, manipolarle, sostituirle
è anche quella che:
a) stabilisce quale parte del passato deve “farsi presente”, collocando
in maggiore o minore evidenza gli oggetti che lo testimoniano, secondo
il significato specifico che essi hanno nella propria esperienza;
b) fissa le coordinate indispensabili per ritrovare tali cose, qualora
siano da riutilizzare in futuro, in un’ottica anticipatrice, che ricorda
da vicino le tesi di Douglas (1991) sul carattere prospettico della memoria
della casa.
Va, comunque, notato che la memoria di luoghi e “cose” è inscindibile
da quella delle relazioni che essi testimoniano. La cucina di un appartamento
abitato da più coetanei, ad esempio, può racchiudere il ricordo di momenti
importanti di convivialità e condivisione. Se la convivenza “funziona”
e si consolida, il fatto di riunirsi, la sera, per preparare i pasti e
cenare insieme, può diventare una consuetudine, che cementa i legami personali,
trasformando una semplice coabitazione in una comunità solidale. Si tratta
dello stesso tipo di comunità, la cui esistenza, per Douglas (1991), è
la discriminante, che trasforma il “posto in cui si sta” nella “propria
casa”.
I nostri studenti sono consapevoli di abitare una casa a tempo. Tuttavia,
benché non sappiano esattamente quanto lungo sarà tale tempo e quali “nuovi
inizi” si profileranno in futuro, molti di essi finiscono per considerare
questo posto come un luogo di ri-radicamento, al punto da non sentirsi
più a proprio agio nella casa del passato, quando tornano in famiglia
per le vacanze.
Il diverso modo in cui si vive l’esperienza del ritorno è una delle principali
differenze che si riscontrano tra il vissuto della casa a tempo e quello
della casa diffusa. Nel primo caso, ritornare alla casa abitata in passato
significa immergersi in una realtà “altra”, che non corrisponde più alla
consuetudine quotidiana del proprio presente. Nel secondo caso, il ritorno
è un’esperienza costitutiva di tale consuetudine. “Quando torno in Belgio”,
dice Carlotta, una ragazza belga, che vive a Milano per motivi di lavoro,
ma torna regolarmente dai genitori ogni 2-3 mesi, “Recupero subito i ritmi
e le relazioni della mia vita là: è come se non fossi mai stata assente”.
“Io vivo due vite in parallelo”, osserva, commentando questa situazione.
Si tratta di “due vite” che ritrovano coerenza e unitarietà, non tanto
in uno specifico spazio, quanto in un particolare segmento temporale:
“Dalle 21 alle 24 – dice Carlotta - è un tempo che dedico soltanto per
me, o per scrivere, o per mettere a posto le mie carte e lì trovo i ricordi
… trovo una cosa, la guardo, ne trovo un’altra e mi riporta a un’altra
cosa e così via. Mi viene in mente un libro, che un caro amico mi ha consigliato
di leggere… La stessa cosa è anche la musica: musiche legate al ricordo
di una persona, a un momento. E’ uno spazio dedicato al ricordo … per
darmi un po’ di tranquillità, per ritrovarmi”.
Carlotta può “ritrovarsi” ogni sera, grazie alla “portabilità” di alcuni
supporti della memoria: i cd, con le musiche legate al ricordo di date
persone o fasi della vita, i libri preferiti, le foto, il proprio quaderno
di appunti, le “mie” carte, o altri piccoli oggetti di uso quotidiano.
Sono tutte “cose” da raccogliere, preservare, portare con sé, perché da
esse irradiano “rimandi di senso”, come si è detto, che consentono di
riannodare le diverse articolazioni del proprio sé, spalmate sulle abitazioni
fra cui si pendola abitualmente. Nel passo di Carlotta, è evidente che
tali articolazioni fanno perno sulla dimensione relazionale dell’esperienza.
Tempi, ritmi, pratiche della vita quotidiana cambiano, secondo il luogo
a cui si torna, ma il ricordo delle persone importanti per la propria
vita rimane un riferimento stabile per la memoria, in qualunque posto
ci si trovi.
La centralità di questa dimensione nel vissuto della casa diffusa è testimoniata
anche da altre interviste. Un indizio significativo, in tal senso, ci
sembra il modo in cui i soggetti definiscono le diverse abitazioni fra
cui pendolano abitualmente. Dario, ad esempio, figlio di genitori separati,
trascorre parte della settimana “nella casa in cui sto con mio padre e
la sua nuova moglie” e parte “nella casa in cui sto con mia madre e il
suo nuovo compagno”. Nella sua testimonianza, è interessante notare che
egli tende a privilegiare l’una o l’altra abitazione, in funzione del
modo in cui evolvono i rapporti con i rispettivi coabitanti, da un lato,
e della maggiore o minore libertà di uscita con gli amici, che ciascuna
localizzazione abitativa gli offre, dall’altro. In passato, Dario trascorreva
buona parte della settimana con la madre e dedicava i week-end al padre.
Da un anno a questa parte, ha scelto di invertire questa scansione, poiché
ha rapporti tesi con la madre, mentre si è rappacificato con la seconda
moglie del padre e ha iniziato a frequentare un gruppo di amici nei pressi
della residenza paterna. Nel suo ricordo, la casa, più che un’entità spaziale,
è il simbolo del divenire di questi rapporti e della propria capacità
di gestirli in modo autonomo e consapevole.
Al contrario di Dario, Giona non sembra privilegiare nessuna delle tre
abitazioni fra cui si divide nella settimana. La prima, è quella “dove
abito con un amico”, a Milano, nei pressi dell’ufficio. Lì raccoglie ciò
che gli serve per il lavoro, organizza cene con i colleghi, “si adatta”
a condividere le incombenze domestiche con il suo coinquilino. La seconda
è quella dove trascorre “alcune notti con la fidanzata”, a Pavia: una
casa che è tale ai suoi occhi, nella misura in cui ospita i principali
momenti di intimità con la partner, ma della quale non si prende cura.
La terza è quella dove torna nei week-end, “per stare con i miei genitori”,
in un paesino della provincia pavese. E’ la casa dell’infanzia: quella
degli amici di sempre, dei colori della campagna fra cui è cresciuto,
dei ritmi lenti della vita di paese, che continuano, così, ad essere parte
integrante del suo presente. Il fatto di doversi giostrare fra più contesti
abitativi non gli impedisce di “sentirsi a suo agio” in ciascuno di essi.
Ognuno, infatti, racchiude una componente importante di sé, che si ritrova/consolida,
grazie a un memoria che perdura e si rinnova, “facendosi presente” nella
consuetudine del ritorno.
Note
1] Come sottolinea Leccardi (2009),
evocando, in particolare, le riflessioni di Koselleck (1979) e Rosa (2003,
2005), l’accelerazione della vita sociale non è un fenomeno nuovo in sé,
in quanto rappresenta un aspetto tipico della modernità. La novità, oggi,
riguarda lo straordinario intensificarsi dei ritmi del cambiamento, che
va di pari passo con il paradosso, secondo cui “mentre il processo di
accelerazione si diffonde, cresce la sensazione della scarsità di tempo”
(Leccardi, 2009, p. 30). Per una rassegna della letteratura in tema di
compressione spazio-temporale, cfr. anche Paolucci (2003).
2] Con questa espressione, ci
riferiamo a una prospettiva di continuità nel cambiamento, entro un processo
di costruzione identitaria fondato sulla “capacità di cambiare senza frantumarsi,
la possibilità di perdurare nei passaggi” (Fabbrini e Melucci, 1992, p.
30).
3] Ci riferiamo, in particolare,
a due ricerche sviluppate nell’ambito di altrettanti progetti Prin, nel
corso delle quali sono state raccolte, complessivamente, 200 interviste
narrative a soggetti compresi nella fascia d’età 18-34 anni. Il primo
progetto, sul tempo dei giovani, è stato coordinato da Franco Crespi;
i casi, tratti da questa indagine, a cui faremo cenno nelle pagine che
seguono, sono stati illustrati in Rampazi (2005). Il secondo, sulla costruzione
della spazio-temporalità nella casa e nei contesti urbani, è stato coordinato
da Giuliana Mandich. I casi di cui ci occuperemo qui, in parte, sono stati
oggetto di pubblicazione (Rampazi, 2010), in parte, sono trattati in un
lavoro (Leccardi, Rampazi, Gambardella), la cui uscita è prevista nei
primi mesi del 2011, presso la casa editrice Utet.
4] Da notare che i nostri intervistati
non ricorrono mai alla dicotomia pubblico/privato per definire il tipo
di delimitazione da cui dipendono i confini della casa. Si tratta di una
dicotomia, entro la quale si è dibattuta, per molto tempo, la tradizionale
letteratura sulla casa e che, oggi, appare sempre più problematica da
utilizzare (Mallet, 2004).
5] L’esperienza sensibile delle
“cose” assume un ruolo centrale anche nel pensiero di De Martino (1997),
per il quale la loro manipolazione è una condizione essenziale del processo
di “appaesamento”. Per un’analisi più approfondita del ruolo che il concetto
appaesamento assume nella riflessione sulla casa, si rinvia a Rampazi
(2010a, 2010b). Cfr. anche Gambardella (2010)
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