Mappe domestiche: la casa e le sue memorie
Marina Brancato (a cura di)
M@gm@ vol.9 n.3 Settembre-Dicembre 2011
FARE CASA FUORI CASA: PRATICHE DI APPROPRIAZIONE DELLO SPAZIO URBANO E MEMORIE COMUNI
Giuliana Mandich
mandich@unica.it
Professore ordinario, Università degli Studi di Cagliari.
Fare casa…
Casa, città e memoria sono dimensioni fortemente intrecciate dell’esperienza
di ciascuno di noi. In quanto comunità immaginata (Bammer 1992) o “localizable
idea” (Douglas 1991) la casa incarna l’essenza del radicamento nei luoghi
come ancora dell’esperienza sociale. Fare casa significa mettere in atto
una serie di pratiche di appropriazione dello spazio che ci permettono
di sentirci sicuri, protetti, a nostro agio e di definire uno spazio come
nostro. Tali pratiche sono sempre meno contenibili entro i rigidi confini
dello spazio domestico (Kumar K. e Makarova E. 2008; Mandich Rampazi 2009).
Superata la rigida partizione dicotomica attraverso cui il modello borghese
ha rappresentato la domesticità (pubblico/privato, interno/esterno) la
casa dissolve i propri confini e, come altre dimensioni dell’esperienza
sociale, si frammenta, si delocalizza, si rilocalizza.
Le modificazioni spazio-temporali legate alle nuove tecnologie della comunicazione
e il processo di globalizzazione producono nuove spazialità domestiche.
Ad esempio (Williams 1974, Morley 2000) le tecnologie della comunicazione
aprono la casa all’esterno facendo irrompere gli spazi pubblici nello
spazio privato e contemporaneamente le tecnologie portatiti (ad es. il
telefono cellulare) portando fuori dalle pareti domestiche le conversazioni
private, contribuiscono a riconfigurare la spazialità urbana entro una
nuova cultura della mobilità.
Anche l’esperienza dei migranti e dei rifugiati (Ahmed 2000) ci costringe
a ridefinire i caratteri tradizionali dello spazio domestico. Per chi
migra, ad esempio, il luogo familiare, confortevole e rassicurante può
diventare lo spazio “in between” dell’aereoporto, mentre l’identificazione
con i luoghi assume nuove forme.
Queste modificazioni della spazialità domestica incidono in modo particolare
sulla dimensione della memoria in quanto carattere costitutivo della casa.
“L’”organizzazione”, da cui dipendono le certezze usualmente associate
all’idea di casa, riguarda specifiche modalità di vivere e plasmare lo
spazio, funzionali alla costruzione di una temporalità lunga, di una “memoria
istituzionalizzata capace di anticipare eventi futuri” (Douglas 1991).
Sotto questo profilo, l’esperienza del “sentirsi a casa”, per il soggetto,
implica non soltanto la familiarità con i luoghi in cui è collocato, ma
anche la partecipazione alla costruzione ed alla preservazione della “tradizione”
che ne sostanzia l’identità.”(Rampazi 2010 p. 23)
Nelle pagine che seguono verrà affrontato il tema della memoria in relazione
alle pratiche di appropriazione dello spazio urbano utilizzando il concetto
di locus sviluppato da Connerton (2010). Partendo dal potere che alcuni
luoghi urbani hanno di essere un potente dispositivo mnestico che permette
di ancorare l’esperienza e dare continuità analizzerò, anche attraverso
alcuni risultati di ricerca il potenziale conflitto tra memorie vissute
degli abitanti e le memorie storico-architettoniche implicate nei processi
di rinnovamento urbano.
Memorie dei luoghi
Il rapporto tra spazio e memoria è ben conosciuto. Per le sue caratteristiche
(esteriorità, concretezza, stabilità, visibilità) lo spazio offre ai processi
sociali la possibilità di addensarsi in configurazioni stabili, costituisce
una sorta di catalizzatore delle forme sociali, un’ancora per la dimensione
temporale., un medium che consente di trascendere il tempo (Mandich, 1996).
I riferimenti spaziali hanno una grande importanza non solo per la sopravvivenza
della memoria stessa, ma anche per radicare nella società, nei gruppi
e nell’individuo il senso della continuità nel tempo della propria identità.
Costituisce un punto di riferimento stabile per la memoria collettiva
che non potrebbe sopravvivere senza un riferimento materiale, stabile
e permanente (Halbwachs, 1987). Nello spazio si materializzano rapporti
sociali costruiti nel passato, ma che restano sempre presenti: gli oggetti
che ci circondano costituiscono il filo che collega passato presente e
futuro, l’elemento che immediatamente ci richiama pratiche e valori.
La memoria può essere però costruita in relazione allo spazio attraverso
dispositivi diversi. Nell’analizzare il rapporto tra spazio e memoria
Connerton (2010) distingue i luoghi di commemorazione che hanno la funzione
di ricordare (attraverso dispositivi diversi, come la toponimia o la celebrazione)
dai locus in quanto siti di memoria culturale.
Nel caso dei luoghi di commemorazione la memoria è una funzione esplicita
dello spazio e si propone come memoria pubblica. Commemorare significa
infatti ricordare in forma pubblica. Connerton riporta l’esempio dei nomi
delle strade, che riportano in vita vicende e personaggi del passato.
“..evocano una serie di eventi conosciuti, agiscono come segni mnemonici
di una geografia morale che richiama alla mente comportamenti esemplari,
in maniera così efficace che la semplice menzione della memoria di un
luogo racchiude in se una storia ben nota.” (p.16)
Su questo dispositivo della memoria non mi soffermo non solo perché è
stato oggetto di ampie discussioni ma soprattutto perché non è quello
direttamente implicato nella domesticazione degli spazi urbani.
Il secondo dispositivo analizzato da Connerton è quello del locus inteso
come sito di memoria culturale. La casa e alcuni luoghi della città (Connerton
analizza le strade urbane) possono essere considerati per la loro capacità
di attivare la memoria. La specificità del locus è quella di essere un
testo memorabile, di funzionare come meccanismo mnemonico:
“La casa diventa così un aide-mèmoire delle ricorrenti necessità della
vita quotidiana attraverso la disposizione degli oggetti negli armadi:………….;
delle gerarchie famigliari iscritte nello spazio domestico attraverso
l’ordine dei posti intorno al tavolo,…………. dell’intrecciarsi di storie
di vite individuali “…(Connerton 2010, p. 27).
Lo stesso carattere di dispositivo mestico lo ritroviamo nelle strade
urbane. In questo caso sono testi memorabili quei luoghi che riescono
a sintetizzare un particolare modo di vita:
“E’ soprattutto la capacità di offrire una Gestalt, di introdurre un ordine,
di offrire un’immagine emblematica che rende memorabili una strada o un
insieme di strade” (ivi p. 34)
Così definito il locus richiama quei “fantasmi nella città” descritti
da De Certeau e Giard nel secondo volume de l’Invention du quotidien.
“Personaggi del teatro urbano”, che si impongono con la loro presenza,
questi oggetti (un canale, un insieme di case, una fontana, un albero)
sono testimoni di una storia che differentemente da quella dei libri o
dei musei non ha un linguaggio. Sono una sorta di spirito del luogo. E’
proprio la loro natura selvaggia, non codificata, sostiene de Certeau
che ne permette l’appropriazione e l integra nelle nostre memorie.
Dunque i locus sono luoghi che attivano la memoria. Tre dimensioni sono
particolarmente importanti per capire il carattere di questo processo
di rievocazione del passato.
In primo luogo il ricordare non è una funzione esplicita dei luoghi come
nel caso degli spazi di commemorazione, ma è l’esito inconsapevole dell’incontro
tra pratiche sociali e luoghi. Ed è questa la ragione del fatto che pur
avendo un riferimento assai meno esplicito, il locus è un veicolo di memoria
culturale assai efficace. La sua efficacia, cioè sta nel fatto, sostiene
Connerton, che questo tipo di memoria è l’esito di pratiche di appropriazione
dello spazio. Il potere di codificazione del luogo (la possibilità di
essere riconoscibile) è il prodotto di una tradizione sedimentata e non
di una codifica “intenzionale”. E’ radicata nella familiarità che i vissuti
dei luoghi producono. E, in qualche modo “accumulazione di memorie dal
basso attraverso le tracce fisiche e associative lasciate dai processi
della vita quotidiana. (Hebbert 2005).
In secondo luogo la memoria incorporata nei locus non è una memoria pubblica,
non entra cioè nel discorso pubblico in quanto rievocazione intenzionale
del passato, ma è una memoria culturale che tende a configurarsi piuttosto
in quanto memoria comune (Jedlowski, 2002, 2005) cioè memoria di aggregati
di persone che ricordano le stesse cose perché le hanno vissute nello
stesso momento. La città è un grande serbatoio di memorie comuni. L’aver
vissuto negli stessi luoghi, aver fatto le stesse cose negli stessi spazi
(andati in una certa scuola, giocato in un certo giardino, comperato le
paste la domenica in una certa pasticceria o passeggiato in un certo viale,
frequentato la spiaggia in un certo stabilimento) crea un terreno comune
di ricordi. Questi ricordi non sono memorie collettive, ma sono suscettibili
si diventarlo: possedere ricordi in comune è infatti una risorsa che facilita
l’interazione e favorisce il formarsi dell’identità di gruppo.
Infine i locus attivano una memoria incorporata. I locus sono infatti
“un insieme di coordinate, un meccanismo menmonico” che rende possibile
il ricordare. La memoria è dunque in qualche modo una possibilità che
deve essere continuamente ricreata dalle pratiche quotidiane. E infatti
il locus non può essere separato dalle pratiche che lo attraversano. La
capacità della casa di ricordare, sostiene Connerton è legata al fatto
che “la storia della vita della casa è legata alla storia della vita del
corpo che la abita”(pag.28). La memoria in questo caso è in qualche modo
incorporata nelle pratiche individuali e deve essere attivata attraverso
l’inclusione di un certo luogo nel quotidiano. Scaturisce, possiamo dire,
dall’incontro tra l’impronta che lo spazio conserva e i passi che lo ripercorrono.
E, in questo senso, un elemento che tendiamo a dare per scontato, che
tendiamo a vivere distrattamente.
Alcuni degli esempi che Connerton porta sottolineano con particolare efficacia
questo carattere incorporato, persistente ed inconscio originato dai locus.
In particolare la suggestiva spiegazione dell’agorafobia come luogo della
memoria collettiva. “In un’epoca in cui le precedenti restrizioni sugli
spostamenti delle donne borghesi negli spazi pubblici venivano allentate,
un rapporto agorafobico con quegli spazi continuava dunque a riprodurle
sotto forma di costrizioni isteriche,ormai prive di qualsiasi ragione
di esistere al di fuori di un’inspiegabile ansia. Quest’ansia divenuta
inspiegabile era il luogo di una memoria collettiva. La memoria di una
minaccia legata ad un particolare locus non risiedeva più nei manuali
di buone maniere, ma in una serie di sintomi psichiatrici.” (ivi. p. 15)
Il concetto di locus sposta dunque l’attenzione dalle caratteristiche
dello spazio e dalla sua capacità generale di fermare il tempo al legame
spazio, corpo e pratiche sociali. Considerata in questa prospettiva la
possibilità del locus di ancorare la memoria è fortemente implicata nelle
pratiche di addomesticamento dello spazio (Mandich 2010) che creano le
condizioni per “sentirci a casa”. (Heller, 1999). Seguendo lo stesso itinerario
ogni giorno, portando i figli a scuola, o andando a lavoro, incontriamo
dei luoghi che altri hanno già attraversato, in qualche modo ne seguiamo
le impronte e contribuiamo a riprodurle. Questa memoria gioca un ruolo
fondamentale nell’assegnare ad un luogo un significato che è al tempo
stesso definito entro i confini della nostra esperienza (i giardini dove
andavo da piccolo, la scuola di mia madre) e costituito e sostenuto intersoggettivamente.
Dislocazioni della memoria: memorie pubbliche e memorie comuni
La possibilità del locus di essere un dispositivo di attivazione della
memoria culturale secondo Connerton viene, nelle città contemporanee,
duramente messa alla prova. Tre sono i meccanismi di trasformazione della
sfera urbana che secondo l’autore producono amnesia culturale. La prima
ha a che fare con la dimensione urbana con il fatto cioè che la forte
crescita delle stesse dimensioni fisiche della città renda sempre più
difficile per gli individui il controllo e la conoscenza dello spazio
urbano. Disegni una città sempre meno alla portata dell’esperienza individuale.
Il secondo ha a che fare con la produzione della velocità. La “produzione
di massa” della velocità ha progressivamente cancellato la distinzione
tra abitazione e viaggio creano delle vere e proprie topografie del dislocamento.
Il terzo fa riferimento alla “distruzione ripetuta e deliberata dell’ambiente
edificato”. Connerton mostra attraverso una lunga lista di esempi, come
la modificazione della topografia urbana, la provvisorietà nella localizzazione
di uffici, negozi etc., il cambiamento della toponimia, la distruzione
dei principali componenti della città (piazze, quartieri, strade) a causa
delle trasformazioni nei flussi della mobilità, riqualificazioni urbane
e restauro urbano contribuiscano all’amnesia urbana.
Queste ultime trasformazioni sono particolarmente importanti, perché tendono
a rompere il legame tra spazio e memorie culturali cancellando le impronte
che gli abitanti erano abituati a seguire. Sovrapponendo codici intenzionali
estranei a quelli prodotti dalla tradizione sedimentata.
Farò riferimento in modo particolare a quest’ultima dimensione, utilizzando
materiali empirici tratti da una ricerca sulle pratiche di appropriazione
dello spazio urbano [1], per esemplificare
da un lato il carattere incorporato e persistente del locus dall’altro
i possibili conflitti tra memorie comuni o collettive e memorie storico-architettoniche
che le pratiche di rinnovamento urbano tendono a produrre.
Nella ricerca, che ha cercato di ricostruire il rapporto con lo spazio
urbano di coppie con figli in età scolare, si sono rivelate particolarmente
efficaci le interviste nelle quali è emersa la frequentazione di un piccolo
spazio verde al centro della città (i Giardini Pubblici). Si tratta di
un luogo significativo, che sembra coinvolgere in modo molto importante
gli abitanti di Cagliari intervistati. L’uso non costrittivo che i bambini
hanno sempre fatto degli oggetti posizionati nei Giardini, il legame che
questo luogo ha con la storia quotidiana della città, la sua collocazione
nel cuore della città, fanno sì che i Giardini entrino nelle memorie familiari
degli abitanti. La profonda implicazione di questo luogo nella vita quotidiana
di generazioni di Cagliaritani è riconosciuta anche nella denominazione
di questo luogo. Come recita il testo dedicato a questo spazio nel sito
del Comune di Cagliari “Con il nome di Giardini Pubblici, senza ulteriori
specifiche i cagliaritani indicano i giardini creati nella prima metà
del XIX secolo all’esterno dell’edificio della Polveriera, allora parte
integrante dell’Arsenale Cittadino.” Un caso, dunque di toponimia “dal
basso”
Nel 2006 questo spazio è stato oggetto di un’ampia ristrutturazione tesa
a far riemergere la struttura originaria che era stata gradualmente modificata
negli anni. Si è intervenuti su un impianto ormai disordinato che interrompeva
la continuità del viale d’ingresso con una serie di elementi disomogenei,
che tuttavia venivano resi funzionali attraverso l’incorporazione nelle
pratiche di gioco. Un piccolo stagno di pesci rossi, tre vecchi cannoni
che spesso venivano usati come cavalli nel gioco, una vecchia locomotiva
a carbone in disuso che nel corso del tempo era diventata un caratteristico
terreno di gioco, sono tutti stati rimossi.
Il discorso pubblico che ha accompagnato l’opera di ristrutturazione ha
fortemente sottolineato il carattere culturale dell’intervento ed in modo
particolare la sua intenzione di riportare in vita la memoria storica
della città riportando alla luce funzioni e significati originari dei
giardini. Un secondo elemento portato a giustificazione dell’intervento
era il miglioramento dell’immagine pubblica della città.
Sempre nel sito del Comune di Cagliari si legge:
“Il progetto è stato preceduto da un rilievo attento dell’architettura
e delle specie vegetali. Supportato da una approfondita ricerca delle
fonti, del materiale cartografico d’archivio, dalle immagini fotografiche
d’epoca, a supporto delle scelte progettuali. Sorti durante il regno dei
Savoia e inseriti nel flusso culturale avviato in Sardegna dalla presenza
della corte, i Giardini Pubblici offrono agli abitanti del nucleo storico
cittadino un giardino ameno, destinato a tutti, simbolo di civiltà e decoro.
La prima rappresentazione dell’impianto originale, costituito dal grande
viale alberato, la promenade, dal disegno formale dei percorsi nella parte
immediatamente esterna alla Polveriera e dal percorso laterale a serpentina,
è documentato in una carta acquerellata datata 1851, conservata negli
archivi dell’Istituto Geografico Militare di Firenze. Il giardino acquista
la sua fisionomia definitiva nella seconda parte del XIX secolo, quando
le piante arrivano a piena maturazione. Il viale principale è abbellito
da piazzole circolari poste all’inizio e ornato da fontane e elementi
scultorei. I percorsi sono in terra battuta secondo una prassi corrente
nei giardini dell’epoca, sedute in pietra affiancano il viale. Sono presenti
esemplari di palme e piante esotiche, le aiuole sono contornate da siepi
continue”.
Nell’opera di rinnovamento ci si propone, dunque, di “riattivare” l’immaginario
visuale dell’epoca assecondando una tendenza all’estetizzazione dei paesaggi
urbani fortemente presente nell’architettura e nella pianificazione urbana
contemporanea. (Boyer 1994). Si trasforma l’eterodossia del luogo in una
nuova ortodossia culturale, sostituendo alle memorie collettive dei luoghi
frammenti di un passato inaccessibile all’esperienza.
Dal punto di vista funzionale sono state restituite a quello spazio la
finalità di “promenade” che conduce alla galleria d’arte comunale negando
qualunque riferimento a questo spazio come ad uno spazio di gioco. Se
guardiamo al modo in cui lo spazio organizza le attività dopo l’intervento
di restaurazione vediamo che:
- è uno spazio da attraversare: è organizzato intorno ad un’ampio viale
pavimentato in marmo e granito che conduce alla Galleria Comunale;
- è uno spazio che richiama una fruizione soprattutto visiva ed estetica.
Il giardino che circonda il viale centrale è estremamente coreografico.
Una larga parte è occupata da aiole colorate, opere d’arte contemporanea
sono state installate sul prato e di fronte alla galleria d’arte il visitatore
è accolto da due ampie fontane ornamentali.
- L’accesso è regolato da una lunga lista di proibizioni che ne indirizzano
l’uso e si rivolge chiaramente ad una classe medio-alta benestante ed
istruita che la domenica mattina può utilizzare la connessione wi-fi,
e leggere giornali e libri a disposizione in comode sedie.
L’opera di restaurazione, ed il discorso pubblico che la accompagnava,
è stato rifiutato da un nutrito numero di utilizzatori dei giardini e
da alcune associazioni che hanno invece sottolineato l’importanza di avere
uno spazio più aperto ed accogliente per i bambini. Invece di fare riferimento
alla memoria storico-architettonica dei giardini i discorsi che si sono
opposti alla restaurazione hanno richiamato una memoria condivisa di quello
spazio come luogo di gioco per i bambini, dove diverse generazioni a partire
dal secondo dopoguerra hanno portato i propri figli dopo la scuola e alla
domenica. Questo racconto si ritrova in un certo numero d interviste.
“I Giardini Pubblici a me personalmente stanno molto a cuore perché da
piccola io andavo appunto ai Giardini Pubblici e poi avevo la scuola proprio
affianco ai Giardini Pubblici e quindi all’ora di ricreazione i nostri
maestri ci portavano a giocare in questi Giardini, e ho dei bellissimi
ricordi...anche perché allora non era come adesso, tenuto benissimo diciamo,
era un po’ lasciato andare, però ho dei ricordi perché in questi giardino
ci sono degli alberi secolari che erano una cosa bellissima, proprio bella
da vedere....e mi ricordo ancora che c’erano questi cannoni, che noi da
bambini ci salivamo sopra e vedevamo tutto il panorama, tutta Cagliari
da questi cannoni, rimanevano un pochettino sollevati dal terreno....del
periodo della guerra..... quindi delle cose proprio antiche....storiche,
addirittura ci sono delle grotte che sono molto particolari, che adesso
le hanno chiuse, ma io mi ricordo che da bambina entravo... andavo proprio
in queste grotte che praticamente erano dei rifugi...ed è una cosa molto
particolare, caratteristica di questi Giardini....quindi oltre alle piante
secolari, alberi secolari e tutto quanto, ho questi ricordi, di questi
posti, dove c’è anche il museo, e ci portavano anche al museo....” (Eleonora,
due figli, casalinga).
“I Giardini Pubblici di Cagliari sono, penso, uno dei posti della città
più conosciuti, perché ognuno, o con il figlio, o con il marito, col fidanzato,
comunque ci è andato...quindi penso che ognuno abbia dei ricordi di vita
privati che hanno consumato lì, sicuramente....[…], sicuramente il ricordo
ce l’ho dell’università, perché io studiavo in una casa che stava proprio
sopra i Giardini Pubblici, poi ci andavo, si incontrava qualche amico
lì, e poi l’ho visto trasformarsi in questi ultimi 20 anni” (Rachele,
due figli, ingegnere).
A livello discorsivo memorie culturali (o comuni) e memorie biografiche
si intrecciano nei racconti degli intervistati. Queste memorie sono importanti
sia per dare significato al luogo che per rivendicarne in qualche modo
l’uso.
….il corpo ricorda
Gli elementi emersi dalla ricerca mi sembra esemplifichino bene il carattere
del locus di luogo vissuto, denso di significati. Tanto forte è il legame
tra questo spazio e le memorie culturali che lo abitano che anche l’intervento
di rinnovamento urbano di cui è stato oggetto non ne hanno, per il momento,
modificato la natura. L’osservazione etnografica ha mostrato come l’uso
quotidiano di quello spazio da parte delle famiglie con bambini produce
un continuo riutilizzo dello spazio-passeggiata come spazio di gioco ed
una risignificazione nello spazio “immagine pubblica” in spazio per bambini.
I bambini si appropriano dello spazio dei giardini modificando l’uso di
tutti gli oggetti che vi sono stati posizionati con finalità estetiche.
Si arrampicano sugli alberi, si sfidano a stare in equilibrio sulle sculture
che ornano il prato, usano le fontane per far navigare barchette di carta.
Complessivamente l’uso dello spazio dei giardini non segue l’uso che la
riorganizzazione propone. Ad esempio le panchine vengono raramente utilizzate
per la loro funzione, differentemente da quanto succede in altri parchi
pubblici della città. E gli utilizzatori dei giardini sembrano in qualche
modo riproporre l’uso che dello spazio dei giardini è sempre stato fatto
nel passato.
Sembra evidente in questo caso il carattere incorporato e la pratica abituale
della memoria che fa del locus un luogo significativo.
E’ evidente che quando l’opera di destrutturazione urbana toglie troppi
punti fermi anche la memoria del luogo si perde. Si fa fatica a riprodurre
le impronte che hanno guidato l’uso nel passato. Ma è anche vero che la
memoria dei luoghi è persistente, si può trasformare in memoria collettiva
e si può riattivare anche in condizioni diverse rispetto a quelle che
hanno contribuito a generarla.
Note
1] La ricerca da cui questo saggio
parte (PRIN 2006: Costruzione e ricostruzione dello spazio-tempo nelle
pratiche del quotidiano Cfr Mandich 2010 per i risultati principali) si
è concentrata su coppie con figli in età scolare o pre-scolare residenti
nella città di Cagliari. La ricerca si basa su 35 interviste semistrutturate
con genitori, 5 focus group con fotostimolo e tecniche di osservazione
con il supporto di metodi visuali. Le immagini utilizzate nei focus, insieme
con altre prodotte separatamente e analizzate con gli strumenti della
sociologia visuale, sono state scattate da Erika Cuscusa. I protocolli
di osservazione sono stati curati da Aide Esu.
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