Mappe domestiche: la casa e le sue memorie
Marina Brancato (a cura di)
M@gm@ vol.9 n.3 Settembre-Dicembre 2011
MEDIATECHE DOMESTICHE: UNO SGUARDO AUTOBIOGRAFICO
Paolo Jedlowski
pjedlowski@unical.it
Sociologo, Ordinario di Sociologia Generale presso la Facoltà
di Scienze politiche dell'Università degli studi di Napoli L'Orientale
e docente di sociologia della comunicazione all'Università della Svizzera
italiana.
Nel loro articolo in questo numero di “M@gm@”, Olimpia
Affuso e Simona Isabella riassumono i risultati di una ricerca su quelle
che insieme abbiamo chiamato le “mediateche domestiche” [1].
Si tratta delle raccolte di libri, dischi, video e così via che conserviamo
nelle nostre abitazioni, più o meno con ordine o alla rinfusa, riempiendo
scaffali e altri spazi. Oggetti che ci siamo procurati e che abbiamo “consumato”
leggendo, ascoltando o guardandoli, ma il cui uso e il cui significato,
e le pratiche che vi sono associate, non si limitano all’acquisto e neanche
al mero consumo: conservandoli li carichiamo di un valore diverso. Se
ci guardiamo attorno, sui nostri scaffali è inscenato una specie di “teatro
della memoria”: oggetti che rammentano per noi e che ci rammentano altro,
che a volte riprendiamo in mano ma che comunque segnano la nostra impronta
sull’ambiente, e che parlano di noi a chi venga in visita.
Le ipotesi che hanno guidato la ricerca e i principali risultati sono
raccontati da Affuso ed Isabella. Quanto al metodo, abbiamo fatto uso
soprattutto di lunghe interviste narrative, realizzate con alcune decine
di persone di ambo i sessi, di svariate collocazioni professionali, di
età differenti, in diverse città. Ma queste interviste sono state precedute
da quelle che abbiamo chiamato “auto-interviste”: ciascuno di noi ha rivolto
a se stesso le domande che avrebbe poi rivolto alle persone da intervistare,
e ha scritto e condiviso con gli altri il testo che ne è scaturito.
Gli scopi di questo procedimento di auto-indagine (piuttosto raro che
io sappia nelle ricerche sociologiche, almeno in modo esplicito) erano
molteplici. Si trattava di un aiuto a fare “mente locale” sul tema, sollecitandoci
a prendere atto della nostra stessa esperienza a riguardo. Era un modo
per cominciare a raccogliere informazioni: anche noi abbiamo a casa biblioteche,
raccolte di CD, DVD e così via, e potevamo cominciare ad osservare come
le ordiniamo, cosa ne facciamo, se buttiamo via qualcosa o lo spostiamo
e secondo quali logiche, e così via. Ed era un modo infine per tenere
sotto controllo le nostre proiezioni. Questa forse è la cosa metodologicamente
più rilevante. Uno dei rischi di chi fa ricerca infatti è quello di essere
attento, intervistando altre persone, soprattutto a quello che lo riguarda
personalmente: si coglie quello in cui ci si riconosce, e si trascura
l’alterità, la differenza. Esplicitare in via preliminare i propri atteggiamenti,
le proprie pratiche, le proprie preferenze, lascia così più liberi di
essere curiosi verso ciò che gli altri hanno da dire.
Queste auto-interviste hanno un andamento narrativo. Si tratta di testi
autobiografici: limitati ovviamente dall’interesse per un tema specifico,
ma non dissimili nella forma da altre scritture autobiografiche. Credo
che pubblicarne una sia un modo di presentare la ricerca complementare
a quello scelto da Affuso e Isabella: nell’auto-intervista non vi è sistematicità,
a parlare è l’esperienza della ricerca mentre è in corso; chi la legge
può entrare, per così dire, all’interno del cantiere. Non mi pare corretto
però usare testi di altri: quella che presento così è la mia. E’ la prima
auto-intervista che abbiamo realizzato. E ha un posto un po’ particolare;
di fatto, ha preceduto la ricerca stessa: è stata l’occasione in cui ho
cominciato a immaginare la ricerca che poi abbiamo realizzato.
Chi legga questo testo dopo quello di Affuso e Isabella vi ritroverà molte
cose, ma anche qualche differenza. Da un lato, il tema delle pratiche
di acquisto, che nel mio caso corrispondeva a una serie di domande che
pensavo avremmo fatto ai nostri intervistati, è stato poi sostanzialmente
escluso dalla ricerca. Dall’altro, nell’intervista a me stesso hanno un
ruolo poco rilevante pratiche di archiviazione connesse al computer e
in generale ai “new media” che poi, intervistando altri, ci sono apparse
fondamentali.
Le autobiografie sono comunque testi mobili. Appena rileggi quello che
hai scritto ti viene voglia di aggiungere, cambiare, ritoccare. Oggi,
che lavoriamo col computer, è particolarmente facile e viene con naturalezza.
Rileggendo questo testo autobiografico, così, ho desiderato di cambiarlo,
o se non altro di aggiornarlo. Ho resistito alla tentazione, tranne qualche
lieve intervento e qualche nota utile a renderlo più comprensibile. Ma
vivendo si cambia, e cambia continuamente anche il modo in cui si guarda
al passato. Oggi scriverei questo testo diversamente: con i video, alla
cui conservazione mi dichiaravo piuttosto estraneo, negli ultimi anni
ho sviluppato una relazione molto intensa; col passare del tempo è cambiato
velocemente anche il mio rapporto con i new media. Ma la ricerca stessa
ha cambiato la mia consapevolezza riguardo a molti dei punti toccati.
Adesso avrei molti più dettagli da raccontare: la memoria muta al mutare
della sensibilità del presente.
Auto-intervista n. 1
(febbraio 2006; maschio; 54 anni; docente universitario; sposato con figli;
luogo dell’intervista: Milano)
Abito vicino a Cosenza, in una casa in campagna nei pressi del campus
universitario. Ma sono nato e cresciuto a Milano, dove abita ancora mia
madre, e ci vengo spesso. In questo periodo lavoro a Napoli, dove ho un
monolocale in affitto. Le case insomma sono molte: non ho un solo ambiente
domestico di cui parlare.
Scrivo questa auto-intervista a Milano. E’ domenica, sono arrivato stamattina.
La casa in cui sta mia madre è quella dove abitavo da ragazzo. Non ci
sono molti oggetti miei (però c’è ancora una targhetta sulla porta di
quella che era la mia stanza: Paul’s room, anche se adesso la stanza è
una specie di tinello). Dormo in quello che lo studio di mio padre. Ci
sono ancora cose sue qui dentro, io alle pareti ho aggiunto qualche manifesto;
nella libreria qualche libro che mi serve quando sono qui.
Nel pomeriggio esco, vado alla libreria Feltrinelli di Corso Buenos Aires.
Sono le sei di sera, è piena. Le sedie e le poltroncine nelle varie sale
sono tutte occupate. E’ da qualche anno che le Feltrinelli sono aperte
la domenica. Sono meta di piccole passeggiate, ci passi del tempo, leggi,
ti informi, magari incontri qualcuno che conosci, compri qualcosa. In
linea di principio, potresti anche fare incontri amorosi (come Calvino
aveva osservato). Ma i consumatori di libri guardano più che altro i banconi,
non si guardano gran che reciprocamente.
Cerco due libri di cui mi sono portato la recensione dopo averla ritagliata
da un giornale. Un altro libro mi colpisce e lo compro senza che prima
lo conoscessi. Un altro lo soppeso, lo lascio per una prossima volta.
Compro in regalo un giallo per mia madre.
Alla Feltrinelli spesso passo lunghi momenti a scegliere cosa regalare
ai miei figli. I libri sono regali speciali (più avanti dovrò dirlo: di
quelli che mi hanno regalato ricordo quasi sempre la persona, l’occasione,
la storia).
Anche a Napoli, la Feltrinelli è il primo negozio dove sono entrato. Entro
sempre nelle librerie. Una sorta di spazio domestico altrove, riconoscibile,
amico; come quando ero studente e in ogni città facevo in modo di passare
dall’università del posto, come a dire in un luogo un po’ extralocale,
simile e collegato dovunque, in cui ero meno straniero che in altri posti.
(Soprattutto quando ero soldato, ricordo, e andare nelle università delle
città dove stavo in caserma era anche rammentare a me stesso che non ero
del tutto sperduto: ritrovarmi in un ambiente che mi era familiare e a
cui mi sentivo di appartenere, nonostante quello che vivevo come un esilio,
perché fare il militare fu un po’ come un esilio).
Mi torna in mente quando ero ragazzo: anche allora, al pomeriggio, venivo
in corso Buenos Aires. Però allora la meta era un negozio di dischi. Ci
venivo da solo, ascoltavo qualche disco nel negozio, oppure cercavo qualcosa
che avevo sentito per radio. Li sceglievo con molta cura i miei dischi
(i long playing), non avevo molti soldi, ci andava tutta la “paga” settimanale
che mi passavano i miei. Ovviamente dei dischi si parlava con gli amici.
Ci si vantava di quello che si possedeva. Sui gusti reciproci si stilavano
severe classifiche di prestigio. La raffinatezza del gusto musicale era
un elemento di distinzione.
Ricordo, sui quattordici anni, che un compagno della scuola di tennis
mi prestò i primi long playing dei Beatles: una scoperta, li registrai
sul magnetofono. Il primo che comprai io era Revolver.
La discoteca a casa cresceva parallelamente alla mia libreria. Era importante.
Sentivo i dischi dopo pranzo, qualche volta quando studiavo, sempre, mi
pare, quando leggevo romanzi o guardavo riviste. Il problema era non alzare
troppo il volume: a casa mica ci stavo solo.
Più avanti, nel periodo dell’università, compravo ancora qualche disco,
avevo qualche compagno esaltato per i Grateful Dead o per i Jefferson
Airplanes. Allora però il negozio era diventato un altro: anzi due, c’erano
due negozi molto specializzati vicino al bar Magenta. Lontano da casa
ma nella parte della città che allora sentivo più mia. Ovviamente i dischi
erano colonne sonore degli incontri amorosi. Di una ragazza, ricordo soprattutto
che sentivamo insieme Cat Stevens. In un altro periodo, i Pink Floyd.
Con mia moglie, più tardi, abbiamo ascoltato insieme a lungo Bob Dylan,
Janis Joplin, Joni Mitchell.
Scrivendo mi accorgo di quanto parlare di “consumi mediali” sia riduttivo.
I dischi - e attraverso di loro la musica, ovviamente, ma l’oggetto fisico
in sé aveva il suo fascino e la sua importanza - erano colonna sonora,
erano emozioni, erano distinzioni e appartenenze, erano amici, amori,
legami, posti e profumi. Averli in casa era viverci insieme. Le stesse
“pratiche d’acquisto” erano cose complesse, lunghe, precedute e seguite
da tante altre cose [2].
Quando i giradischi sono stati sostituiti dai lettori CD la mia discoteca
è finita. Avevo concluso l’università, cominciavo a lavorare; poi mi sono
trasferito a Cosenza. Alcuni long playing nella casa nuova li ho conservati
in una cassapanca. Altri li ho venduti. Qualcuno, all’inizio, lo registrai
su cassetta. Ho cominciato a comprare CD, ma per me non era più l’età
della musica, non ho più aggiornato le mie competenze, non ho sentito
quasi più la radio e non conoscevo più gruppi e cantanti. (Più avanti,
quando i miei figli sono cresciuti, ho avuto una specie di nuova socializzazione,
attraverso le cose che mi facevano sentire loro).
Oggi, mi sembra che la musica mi emozioni troppo: non desidero più esserne
preso come evidentemente mi piaceva da ragazzo. In ogni caso la mia discoteca
in CD oggi occupa un misero scaffale della libreria. Altri CD li tiene
mia moglie, in camera da letto o nella casa che abbiamo in montagna. Alcuni
ci rammentano cose insieme, altri sono separati.
Però la musica - o meglio, propriamente, le canzoni - ha una parte importante
nella mia memoria. Nella testa ho una sorta di juke box: canzoni per ogni
periodo, canzoni per commentare sentimenti. Non c’è però corrispondenza
fra le canzoni che ricordo e quelle che fisicamente conservo. (Anche se
è vero che recentemente ho comprato riedizioni di canzoni di Battisti
e Patty Pravo, o vecchie cose dei Beatles. Per la ricerca che faremo,
qui conta il concetto di “memorie comuni”: quei ricordi intimi che però
sono comuni anche ad altri, e che in gran parte sono proprio ricordi legati
al mondo dei media) [3].
La mia libreria invece ha continuato a crescere con me. Ho buttato via
molto poco. (Quando mi trasferii da Milano a Cosenza, nell’ottanta, lasciai
qualche libro a Milano: ma pochi, ed erano tutte esclusioni consapevoli).
E’ a strati. Senza sbagliarmi troppo, di quasi tutti i libri che ho potrei
dire in che anno li ho presi. Ha sempre avuto un ordine. I romanzi sono
per nazionalità dell’autore, e in genere sono ordinati secondo il periodo
in cui sono stati scritti. Ad esempio: gli scaffali di letteratura americana
cominciano con Melville, più o meno, e finiscono con Cunningham, in ordine
cronologico. Ultimamente sono cresciute le letterature extra-europee.
Ma per Francia o Inghilterra ho molti scaffali, l’Asia e l’Africa insieme
ne occupano poco più di uno. Gli scaffali di letteratura italiana sono
parecchi. Qualche anno fa ho estratto poesie e teatro e li ho messi a
parte.
Anche gialli e fantascienza sono generi a parte: la nazionalità dell’autore
non conta. E’ sempre stato così. I gialli fra l’altro sono gli unici libri
che posso anche non conservare. Tranne qualche caso, sono materiale di
consumo che esaurisce la sua funzione quando il libro è finito. (Qualche
volta però elimino un libro anche perché mi pare stupido o cattivo. Non
lo voglio tenere con me, lo respingo: è molto raro ma capita).
I saggi invece sono ordinati per materie e per temi. Sono un materiale
di lavoro. Di più: sono una memoria di lavoro. Se scorro la mia libreria
(copre tutti i lati della stanza in cui sto, nella casa di Cosenza) scorro
tutto quello che so. Non che conosca il contenuto di tutti i miei libri
(a parte che ovviamente non me lo potrei ricordare, diversi non li ho
letti interamente; e poi ce ne sono alcuni arrivati in omaggio che non
ho proprio letto), ma c’è quello che so potenzialmente, che posso ritrovare.
(Fra l’altro, molti libri sono sottolineati e appuntati: quando li riprendo
in mano è utile, so già dove trovare quel che serve. Solo di rado rileggo
da capo, e allora magari sottolineo cose differenti).
E soprattutto c’è l’ordine. E’ un ordine mobile, e non sarebbe facilmente
spiegabile: molte scelte di collocazione sono personali. Ma è un ordine.
Credo che sia la stessa logica del teatro della memoria di Giulio Camillo,
quello di cui parla Francis Yates: non importa che ricordi tutto, ma importa
che tutto abbia una collocazione, che esprime una logica, e in cui tutto
dunque può trovare posto e venire ritrovato [4].
Ovviamente un ordine alfabetico non servirebbe allo scopo. Fra la mia
libreria e la mia testa c’è una corrispondenza. E’ il modo in cui ordino
la stessa realtà: storia, temi, paesi. Se un libro non so dove collocarlo,
significa che non so come collocare quella certa sfera della realtà nella
mia mente.
Di molti libri so chi me le li ha regalati. Per diversi, estrarli è come
accennare a una storia. Quelle che racconto volentieri e quelle che non
racconto a nessuno.
Tanti romanzi li ho letti in viaggio. Non credo di rammentare quale viaggio.
Ma di solito riemerge, se li prendo in mano, una certa atmosfera, quasi
la sensazione che a quel momento si associava. Senza data e senza luogo:
un po’ come gli odori. (Fra l’altro i libri hanno odori: tutti quelli
che li amano lo sanno).
La mia libreria è una prosecuzione di quella mia madre. I primi libri
me li regalava lei. Letteratura americana, soprattutto, nella Medusa di
Mondadori o - cominciavano a uscire allora, quando avevo intorno ai quattordici
anni - negli Oscar. Poi diversi libri glieli ho sottratti: lei li cerca
e scopre che me li sono presi io. Come l’Ulisse di Joyce, edizione Medusa
degli anni sessanta.
Adesso sono i miei figli che saccheggiano la mia libreria, costruendo
pian piano le loro (dapprima nelle loro stanze a Cosenza, poi nelle case
dove vanno ad abitare. Regalo loro molti libri, li scelgo con cura. Che
mi portino via i miei invece non lo apprezzo tanto: in astratto ne sono
contento, a volte sono io a passarglieli, è bello che interessino anche
loro, ma avverto il buco nello scaffale. Sui libri sono egoista. A mia
moglie li sottraggo volentieri, li inserisco nel mio ordine; e faccio
storie se lei ne prende uno dei miei per usarlo a lezione e non me lo
ridà.
Ovviamente per la saggistica il punto è che è anche il mio lavoro. Ma
con i libri ho sempre avuto un rapporto terribilmente intenso. Ho semplicemente
trovato un lavoro in cui il rapporto con loro poteva continuare. Ricordo
decenni fa una ragazza che diceva: ma hai libri anche sotto il letto!
(Non era vero: se mai, sotto il comodino).
Ricordo l’ammirazione con cui guardai la libreria della mia insegnante
di lettere, al liceo, una volta che non so perché andai a casa sua: mi
sembrò enorme. In ogni casa in cui vado, spio i libri. Testa inclinata
a leggere i dorsi. Mio padre aveva un lavoro diverso: non lavorava coi
libri. E non leggeva romanzi. Conservava però libri che riguardavano i
suoi hobby: piante, alberi, le vie di Milano. E dai tempi della sua università
aveva conservato due manuali: ne ricordo uno di mineralogia, della Hoepli,
rilegato in marrone.
Quotidiani e riviste non li ho mai conservati. Dovrei uscire io di casa,
se lo facessi. Ma da un po’ conservo i fumetti. Anzi, sono triste del
fatto che tanti (i Linus dei primi tempi!) li ho gettati. Dei fumetti
seriali, conservo quelli di Berardi, cioè Ken Parker e Julia (questo me
lo ha fatto conoscere mia figlia). Di altri, qualche numero uno o qualche
storia particolarmente ben riuscita. In Brasile ho comprato vecchi albi
di Flash Gordon in portoghese. Più recentemente, da che in Italia cominciano
a essere diffuse le graphic novel, ne acquisto diverse e le conservo (ma
queste sono edizioni più costose dei fumetti). Mia figlia ha conservato
nella sua stanza quasi tutto Dylan Dog. Mio figlio ha a lungo conservato
Topolino (ora nel ripostiglio, però se capita me lo riguardo io).
Ho qualche dizionario, qualche enciclopedia. Ma è più mia moglie ad amare
le enciclopedie. Specie quelle che escono settimanalmente con i quotidiani
(veri suggerimenti di biblioteche domestiche, come le serie di “Grandi
classici” e simili; adesso peraltro escono con certi quotidiani ottimi
volumi di fumetti, che compro e mi conservo).
C’è stato un periodo - negli anni ottanta direi - in cui avevamo in casa
molte cassette di musica. Ora sono accatastate un po’ alla rinfusa, impolverate.
Tornano utili quando le portiamo in macchina, le infiliamo nell’autoradio.
Ma anche in macchina il registratore ora viene sostituito dal lettore
di CD.
Di film in videocassetta non ho mai fatto una raccolta sistematica. Ma
mi piace quando da un amico vedo scaffali riempiti ordinatamente di videocassette.
Più dei libri, mi pare che i film si prestino fra amici, o si noleggino.
Recentemente mi sono entusiasmato per i DVD. Ma mi secca questo cambio
di supporti: come per i dischi, quello che avevi prima non puoi più vederlo.
In ogni caso una videoteca in casa la vedrei bene. La mia fino a poco
tempo era piccola e casuale, sta crescendo adesso.
Dalla televisione non ho mai registrato niente. Qualche volta lo ha fatto
mia moglie. Ma non so di nessuno che sistematicamente abbia raccolto cassette
di qualche programma. Di solito, si registra qualcosa se è programmato
in un orario in cui non puoi vederlo: allora lo registri e te lo vedi,
poi lo cancelli. Una memoria “a breve termine”, insomma.
Ma l’anno scorso mia moglie ha acquistato tutti i DVD che riproponevano
una serie televisiva che le era piaciuta, Elisa. Di molte altre serie
TV adesso vengono editi i DVD. La faccenda è interessante. In generale,
la televisione si offre come un medium “di flusso”: non è previsto che
il pubblico conservi quello che vede. Per questo in un discorso sulle
“mediateche domestiche” la televisione sembra poco rilevante (nonostante
lo sia nel panorama dei media domestici, e nonostante faccia memoria,
ovviamente). Se mai, il rapporto con un programma si struttura come un
appuntamento ricorrente. Da che esiste il videoregistratore la possibilità
di conservazione domestica si è aperta, ma, come ho detto, non mi pare
che sia poi tanto utilizzata. Il riversamento di certi programmi in DVD
che puoi acquistare e conservare per bene, con tanto di titolo sul dorso
che sullo scaffale lo vedi e sembra un po’ un libro, cambia le cose. Ma
solo per certi programmi succede. Si tratta quasi esclusivamente di fiction
seriale che ha avuto molto successo. Un successo particolare: ambienti
e personaggi che il pubblico desidera “tenere con sé”.
Poi c’è il computer. Ci lavoro, e quanto alla memoria ci conservo più
che altro quello che scrivo io stesso. Cerco di costruire “cartelle” ordinate,
ma ogni volta che si cambia il computer è un problema. Inoltre c’è il
problema delle copie: pile di floppy disk, ora sostituiti dal cosiddetto
“pennino”.
Dalle scorribande in Internet ho cominciato da un po’ a trattenere qualche
immagine: può servire per un corso, per un libro. E’ una nuova mediateca.
Dei siti che visito in Internet il computer (non solo il mio: anche gli
altri a cui mi connetto) serba memoria automaticamente. Ma questo mi infastidisce.
Una memoria indesiderata, una conservazione di tracce che non dipende
da me e che permette potenzialmente di rintracciarmi. D’altro canto, organizzo
anch’io la mia cartella “siti preferiti”: una sorta di memoria di connessioni
possibili.
Ma sul computer ho cominciato anche a conservare le fotografie. Come se
gli album di foto si trasferissero dentro al computer. Non so se le fotografie
famigliari possano rientrare in un discorso sulle mediateche domestiche.
Rientrano nell’idea più generale delle “mnemoteche”, l’insieme delle teche
della memoria che in casa serbiamo. Certo, sono prodotti che si conservano.
E hanno significati ampi e profondi. Sono prodotti domestici: ma per l’appunto
prodotti, la differenza con le altre cose fin qui nominate è che sei tu
(o qualcun altro come te, che conosci) ad averle scattate, non sono cose
che si comprano. Sono prodotti culturali domestici per l’autoconsumo.
Come le cassette in cui registri un concerto che fai con tua figlia. O
le videocassette che tanti conservano del matrimonio.
O come i diari, i quaderni di appunti, le agende con su nomi, indirizzi,
magari foto, cartoline, segnali: memorie domestiche, tracce buone per
uno storico che si interrogherà nel futuro. C’è chi conserva tutto questo
e chi no. Cantine e solai di autobiografie involontarie.
Le mail sono tonnellate. Le elimino e svuoto periodicamente il cestino.
Poi ci ripenso: una volta c’erano le lettere su carta, e quelle che volevi
le conservavi in un cassetto, dentro una scatola; adesso dovrei selezionare
fra le cose infinite che vanno buttate quello che vale la pena di conservare,
costruire per questo delle cartelle nel computer. Non l’ho mai fatto.
Addio. Come conversazioni a voce, perdute.
Cerco però di salvare gli indirizzi nella cartella “rubrica”. Non so cosa
faccia chi va frequentemente in chat lines, in forum e simili con Internet:
conserva qualcosa? Cosa? Per quanto? Poi c’è il telefonino. Il mese scorso
ho cancellato tutti i messaggi che avevo conservato fin lì. Volevo “ripulirlo”,
non riempire troppo la sua memoria. Ma è stato strano, quasi doloroso:
erano tracce minuscole di appuntamenti, di viaggi di uno o dell’altro
dei miei famigliari, di scambi di affetto, di qualche lavoro. Tutte cose
che nella mia memoria erano più o meno svanite. Tracce di questo tipo
aiutano il ricordo personale: quando le vedi, qualcosa si riattiva (non
sempre: e l’effetto allora è ancora più forte: ero io questo? ho fatto
così?). Ma chiedono un “ripasso” frequente, altrimenti il ricordo deperisce,
scompare nel cestino del tempo, del troppo che ovviamente che non possiamo
fare a meno di dimenticare.
Il “ripasso”, come l’ordine, è strumento fondamentale della memoria. Per
questo in famiglia si guardano e si riguardano le foto, si raccontano
e si raccontano di nuovo le medesime storie. Così le identità si ancorano
a qualcosa, una storia comune sedimenta e diventa di tutti.
Sappiamo che i ricordi di prodotti mediali oggi si intersecano inestricabilmente
con i ricordi individuali. Ma è vero anche per le memorie famigliari.
Memorie e mediateche domestiche hanno congiunzioni forti. Ad esempio,
i libri che io o mia moglie abbiamo letto ai figli, quando erano bimbi.
Ciascuno di noi lo ricorda, ma lo ricordiamo spesso anche insieme, quando
raccontiamo con piacere a noi stessi la nostra storia comune. In questo
caso, i libri in questione non so più dove siano: consumati così tanto
da essere penetrati in noi, in quanto oggetto materiale si sono persi.
Qualcuno sta in montagna, qualcuno da me, qualcuno in una libreria dei
ragazzi. Anche certi film visti insieme a casa sono rimasti nella nostra
memoria comune. Molti Disney come Mary Poppins, ad esempio. Ne parliamo
e ci sentiamo uniti. Allora non li avevamo in cassetta: però sono stati
programmati tante volte dalle TV. Ci sono film che averli visti insieme
ci lega, non necessariamente tutti e quattro: come Il padre della sposa
lega me con mia figlia: quando uno dei due lo rivede in una TV, da qualche
parte del mondo, ci telefoniamo.
Ancora: i manifesti sulle pareti. Ne ho in tutte le case (anche nello
studio in università; quando sono arrivato a Napoli, la prima cosa che
ho fatto è stato personalizzare la stanza appendendo qualcosa di mio).
Questi li ho acquistati (qualche volta me li hanno regalati). Rammentano
un episodio, un viaggio, oppure parlano di qualcosa che ami o che hai
amato in un certo periodo. A volte, compensano il fatto che molti testi
mediali non sono fatti per essere conservati, ma per essere consumati
sul posto e in un momento: programmi TV, spettacoli teatrali, concerti,
anche i film (a meno che non hai la cassetta); così la foto dell’attore,
del cantante, o di una scena del film, la conservi sul manifesto, ti serve
a ricordarlo, a restarci in compagnia, e a dire agli altri che sono quelli
i tuoi gusti.
Mia moglie ha due fotogrammi di Casablanca in cartolina che le ho spedito
dall’America tanti anni fa. Io ho un manifesto di un film di Wim Wenders
che mi segue in tutte le stanze che ho avuto in università. Nell’ufficio
a Napoli ho Troisi con la bicicletta in Il postino di Neruda (veramente
l’ha messo un mio collega, ma l’ho fatto mio). Si affianca a riproduzioni
di Klee, a mappe geografiche, a manifesti di convegni. A casa, ancora
Klee, una foto di Milano sotto la neve che ha scattato un’amica, il manifesto
di una mostra di cui ricordo con chi l’ho visitata. Sono altri elementi
delle mediateche domestiche. Dicono qualcosa all’ospite a proposito di
me, dei miei gusti o delle mie appartenenze. Se ho scelto quei manifesti
e non altri, è perché hanno un significato. Che ovviamente può cambiare
nel corso del tempo: a volte, l’unico significato che resta è quello di
alludere ad un tempo passato, a qualcosa che hai amato una volta, una
sorta di frammento di autobiografia appeso al muro.
Ma non c’è dubbio: per me la mediateca fondamentale resta la biblioteca.
E’ l’esempio o propriamente il paradigma per ogni altra forma di conservazione.
E’ la mia storia. Sono momenti felici, di rilassamento e di raccoglimento
interiore, quelli in cui ci entro dentro, sposto libri, li sfoglio, li
riscopro, cambio un affiancamento (è importante accanto a quali libri
sta ciascuno!). E’ sporca, strabordante. A qualche scaffale è difficile
accedere a causa dei mobili (e i libri nella fila di dietro!). Mi piacerebbe
avere una casa più grande solo per poter avere una libreria più bella.
Home is where the heart is: così si dice. Home è per me sicuramente il
posto dove sta mia moglie. Dove i miei figli ritornano. Dove gli oggetti
hanno i posti che sai e le cose sono familiari, dove c’è tutto quello
di cui altrove, scoprendone la mancanza, dici “accidenti, l’ho lasciato
a casa!”. Ma per me è anche dove stanno i miei libri.
Esco dalla stanza in cui mi trovo ora, nella casa di mia madre a Milano.
Aggirandomi per le altre stanze vedo libri, quadri, foto, calendari. Tutto
amalgamato assieme ai mobili, alle pareti, agli oggetti che usiamo. Un
insieme solidale. In un certo senso, tutto qui è memoria. Rimanda al passato
e lo prosegue nel presente, prefigurando gesti, movimenti nello spazio,
discorsi che riprendono nei luoghi a loro deputati.
Se pensi alle case senza le persone - ma case abitate, intendo - sembra
che conservino un’anima, o più d’una. L’abitudine lega la percezione di
oggetti a figure che vi si muovono in mezzo. Usare le cose le dota di
un’aura.
Le “mediateche” - libri, video e quant’altro che portiamo all’interno
delle nostre case - corrispondono a un arredamento della quotidianità
e insieme ad un addomesticamento di ciò che le è estraneo [5].
La voce di Hemingway è ripiegata nelle pagine di Il vecchio e il mare
ed è pronta ad uscirne facendo risuonare l’acqua lungo lo scafo a contatto
con il mio tappeto. Le scale di Bach aspettano dentro al loro CD il momento
in cui si confonderanno con il rumore delle pagine del giornale sfogliato
in poltrona. L’estraneo si fa domestico. Il perturbante non turba. Collezionato,
ordinato o affastellato che sia. Addomesticato.
Ma, per finire questa “auto-intervista”, devo nominare la memoria del
pendolare. Devo parlarne soprattutto perchè, quanto a me, sono un pendolare
congenito. Il pendolare è uno che ha più posti dove abitare. In genere,
hanno funzioni diverse. Ma dove stai metti comunque qualcosa di te.
Nel mio caso, nelle stanze in università ho succursali delle mie mediateche:
libri (quelli più legati al lavoro ordinario), riviste (idem); file che
ho solo su quel computer; manifesti. Qui a Milano qualche cosa ho messo
(e del resto tutto quello c’è mi ricorda qualche cosa). Anche a Napoli
ho messo su una piccola casa: di nuovo oggetti eccetera. L’ho già detto:
per me il primo gesto di addomesticamento di uno spazio è appendere un
quadro o un manifesto. (E mettere un cavatappi nel cassetto in cucina).
Ma spostarmi settimanalmente fra Cosenza e Napoli (e aggiungi i viaggi
a Milano come questo, per non dire di convegni, riunioni e simili) mi
crea qualche problema. Quando rientro a Cosenza, ogni volta, dormo molto.
E’ che pendolare stanca. In senso psicologico più ancora che fisico. Perchè
l’orientamento nelle azioni - mi pare - ha bisogno di una riconoscibilità
degli ambienti, di “segnaposti”. E faccio fatica a tenere assieme ambienti
diversi. Come se - nonostante il piacere che mi procura spostarmi - avessi
bisogno di una certa continuità, di vedere attorno a me cose che si ripetono,
che stanno, e non cambiano. Cambiare ambiente mi disorienta, letteralmente.
Quanto al tempo del tragitto in treno fra le due città, difficilmente
mi guardo attorno. Porto con me un libro, un fumetto (a volte il lavoro:
una tesi da leggere, ad esempio). Il treno in effetti, se ci badi, è il
luogo in cui è massima la concentrazione di lettori (come in metropolitana).
Ora molti hanno il computer portatile, qualcuno ha l’I-Pod (come prima
il walkman), ma la logica è la stessa: porti con te una bolla, non prendi
atto che sei in un altrove. E’ già abbastanza che hai lasciato un posto
e vai in un altro: è una difesa.
Quanto ai luoghi concreti fra cui si pendola, mi chiedo se anche gli altri
fanno quello che faccio io: sostanzialmente, cercare di renderli simili,
per quanto è possibile. In ogni caso, il pendolare porta con sè il suo
kit. Il portafoglio con i documenti; l’agenda; il telefonino; se il viaggio
è più lungo lo spazzolino da denti, le pantofole, la sveglietta per il
comodino... Vi è un certo piacere. A volte, in questi anni, ho sentito
che il posto in cui stavo meglio era il treno: uno spazio interstiziale,
addomesticato solo quel tanto che basta.
Libro, occhiali, penna e un quadernino; il nécéssaire a portata di mano:
quotidianità portatile, tascabile. Ma anche appiglio di memoria a cui
agganciare la mia identità, i legami, le abitudini. Quanto alle mediateche,
qui sono soprattutto il telefonino e il computer portatile a contare:
porti con te rubriche e contatti, file, dati, foto. Il “pennino” del mio
computer, nel mio caso, è letteralmente una mnemoteca portatile, porto
con me ciò che mi potrebbe servire, dovunque accedo ai miei depositi mnestici
esteriorizzati.
E’ evidente qui ciò che, probabilmente, sarebbe più palese se intervistassi
dei giovani: elettronica e telematica hanno trasformato o stanno trasformando
ampia parte delle mediateche e più in generale delle mnemoteche: diventano
qualcosa a cui si accede in modo diverso che attraverso il teatro della
memoria costituito dai tuoi scaffali domestici.
Tuttavia, qualche ordine personale anche questi accessi lo dovranno avere.
O almeno credo. L’idea che la memoria abbia qualcosa a che fare con un
ordine è forte e ha molto di plausibile. Anche se è vero che ogni memoria
ha sempre anche qualcosa di anarchico, di renitente a ogni ordine.
C’è una dialettica fra ordine e disordine che forse è consustanziale a
ogni memoria. E forse una ricerca sulle mnemoteche domestiche - e anche
sulla loro sezione, le mediateche, peraltro così difficile da delimitare
- dovrà usare questa idea come filo rosso. Che è in fondo il filo rosso
della quotidianità: addomesticamento del mondo e costante tendenza del
mondo ad essere selvatico.
Note
1] La ricerca, svolta grazie a
un finanziamento MIUR (PRIN 2006), è riportata per esteso nei capitoli
3, 4 e 5 del volume collettivo curato da Giuliana Mandich: Mandich 2010.
Alla ricerca, coordinata dal sottoscritto, hanno partecipato Olimpia Affuso,
Annalisa Buffardi, Marina Brancato, Gianpaolo Iannicelli, Simona Isabella,
Lia Luchetti, Fedele Paolo e Lello Savonardo.
2] Di consumi mediali, fruizione
e pratiche d’acquisto parla la sociologia dei consumi culturali: per una
rapida introduzione rimando a Jedlowski 2003, che su questo punto faceva
da base alla ricerca.
3] Il concetto di memorie comuni
proviene da Perec 1978; per il suo uso sociologico: Jedlowski 2002.
4] Il riferimento è a Yates 1966.
5] Il concetto di “addomesticamento”
proviene dalla fenomenologia. Come scrive Mandich: “addomesticare significa
assorbire nell’esperienza quotidiana, fare propria, una parte della realtà
(che si presenta dapprima come nuova, straniera o selvaggia), rendendola
familiare” (Mandich 2010, p. 9). Vedi anche Jedlowski 2005.
Bibliografia
Jedlowski, P. (2002): Memoria, esperienza e modernità, Milano, Angeli.
Jedlowski, P. (2003): Che cosa sono i consumi culturali, in Fogli nella
valigia, Bologna, Il Mulino.
Jedlowski, P. (2005): Un giorno dopo l’altro. La vita quotidiana fra esperienza
e routine, Bologna, Il Mulino.
Mandich, G. (a cura) (2010): Culture quotidiane. Addomesticare lo spazio
ed il tempo, Roma, Carocci.
Perec, G. (1978): Mi ricordo, tr. it. Torino, Bollati Boringhieri, 1988.
Yates, F. (1966): L’arte della memoria, tr. it. Torino, Einaudi, 1972.
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