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  • Mappe domestiche: la casa e le sue memorie
    Marina Brancato (a cura di)

    M@gm@ vol.9 n.3 Settembre-Dicembre 2011

    TEATRI DELLA MEMORIA: UNA RICERCA SULLE MEDIATICHE DOMESTICHE


    Olimpia Affuso

    affuso@unical.it
    Università degli Studi di Napoli L’Orientale.

    Simona Isabella

    s.isabella@unical.it
    Università degli Studi di Napoli L’Orientale.

    1. Introduzione [1]

    Questo contributo ruota intorno ai risultati di una ricerca collettiva che riguarda i rapporti fra alcuni oggetti della casa e le memorie di chi li raccoglie [2]. Il tema di sfondo della ricerca è molto ampio. Nelle case ci sono mobili e soprammobili, fotografie e manifesti, quadri, e infiniti altri oggetti. Possiamo dire che la casa intera è un deposito di “mnemoteche”, di teche della memoria, che è la stessa disposizione dello spazio domestico a fungere da dispositivo mnestico. Rispetto a tutto ciò, abbiamo scelto quelli che hanno a che fare con il mondo dei media. Ci siamo occupati cioè di come vengono raccolti, selezionati, conservati, usati e scartati oggetti come libri, dischi, videocassette, CD e DVD, e anche file sui computer, telefonini e lettori portatili (audio-video). Si tratta di un insieme di oggetti la cui analisi consente di comprendere sia diversi aspetti dei rapporti che le persone intrattengono con le proprie memorie, sia alcuni dei modi in cui spazi privati e pubblici si interconnettono. Poiché questi prodotti hanno a che fare con le industrie mediali, abbiamo chiamato l’insieme di questi oggetti mediateche domestiche.

    L’ipotesi generale della ricerca è che la memoria non sia solo un insieme di ricordi e, di conseguenza, che una mediateca non sia un semplice deposito di documenti. Ciò che chiamiamo memoria è soprattutto una modalità di costruire rilevanze e di ordinare certe tracce del passato, conservandole in modo da permetterne la riattivazione e come materiale significativo per le pratiche e gli interessi che caratterizzano il presente. L’oggetto di ricerca si situa al punto di giunzione fra sociologia della memoria e sociologia dei media e pone, rispetto a entrambe le tradizioni teoriche e di ricerca, qualche novità [3].

    Il modo in cui i mezzi di comunicazione sono accolti ed usati nelle abitazioni è stato ampiamente studiato, più raramente, invece, si è messo in evidenza che una parte di essi vengano conservati. L’esempio più classico è costituito dai libri, la cui permanenza in casa va ben oltre il primo consumo. Inoltre, riguardo alla sociologia della memoria, il nostro punto di vista non è del tutto consueto. Rispetto a chi ritiene che l’universo mediale contemporaneo tenda a produrre un generale indebolimento delle memorie, individuali e collettive, e ponendosi sul versante di chi segnala che i media costruiscono il passato per e con i loro pubblici (favorendo non una perdita della memoria, ma una sua costante riorganizzazione), la nostra ricerca supera l’idea del carattere effimero dei consumi mediali e della perdita di memoria che ne scaturirebbe. Non lo fa però tanto studiando come la gente ricordi quello che ha letto, visto o sentito grazie a qualche mezzo di comunicazione [4], quanto indagando come i soggetti trattengano presso di sé certi oggetti mediali. L’idea è che i soggetti compensino la volatilità dell’esperienza contemporanea riorganizzando le forme e le funzioni delle proprie memorie, e che all’interno di questa riorganizzazione trovino posto specifiche strategie di conservazione di certi oggetti mediali che, come altri oggetti domestici, diventano così strumenti di ancoraggio dei soggetti entro il fluire del tempo (Jedlowski, Brancato, Luchetti, 2010).

    Se ciò è vero, i media non soltanto non generano consumi effimeri, ma sono al contrario strumenti per contrastare la caducità del tempo. Vedremo che le tecnologie più recenti sfidano in parte questa considerazione. Ma fino a che hanno a che fare con supporti materiali, gli oggetti mediali condividono tale funzione con l’insieme di tutto ciò che nelle case viene conservato.

    I risultati principali del nostro lavoro, di cui qui intendiamo discutere, riguardano da un lato quella che si configura come una storia sociale delle mediateche; dall’altro le modificazioni che nelle mediateche sono state introdotte dall’avvento delle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione. Sebbene non risultino esserci differenze sostanziali rispetto al senso del conservare, vengono però a delinearsi alcune differenze generazionali nelle pratiche fruitive, anche legate ai mutamenti del sistema dei media.

    2. Le casa e le sue memorie

    La casa si configura come il perno attorno a cui ruota il costituirsi delle mediateche. Luogo dell’intimità familiare e dei consumi privati, grazie alla presenza di mezzi di comunicazione essa è anche aperta verso l’esterno; luogo dell’“indipendenza” degli individui è anche dipendente, per il suo funzionamento, da reti di apparati socio-tecnici.

    Il rapporto dei soggetti con tale ambivalenza passa attraverso processi di “addomesticamento della realtà” volti a compensare l’incertezza che vivere nel mondo contemporaneo comporta. Si tratta di quei processi attraverso i quali i soggetti trasformano gli ambiti che li circondano in ambiti del radicamento e dell’intimità, in cui potersi sentire a casa (Heller, 1999), in spazi significativi (Cfr. Bachelard, 1957) e non problematici (Cfr. Jedlowski, 2005) dell’esperienza. Attraverso l’addomesticamento, appropriandosi dei territori tramite simboli, oggetti e credenze, con pratiche d’uso e routine, ciascuno plasma la realtà e arriva a comprenderla ed a prevederla più facilmente (Cfr. Mandich, 2010). E così, riesce a costruire uno spazio in cui sentirsi più sicuro (Giddens, 1984).

    Per molti versi, i processi di addomesticamento e di compensazione dell’incertezza del vivere contemporaneo sono legati all’attività della memoria e alle pratiche di organizzazione della casa, nonché all’insieme di usi e significati che sono legati agli oggetti che in essa vengono conservati, tra cui anche quelli mediali. Lo spazio domestico configura il principale, se non l’unico, luogo organizzabile ed atto a garantire un ordine destinato a durare nel tempo, dove trovare rifugio contro il rischio di dispersione identitaria contemporanea (Rampazi, 2010). Al tempo stesso la casa costituisce una sorta di dispositivo mnestico a disposizione di chi vi abita (Leonini 1991; Pasquinelli 2004).

    Come ha mostrato Paolo Jedlowski a partire dai risultati della ricerca, la casa è un luogo della memoria e lo è in una molteplicità di sensi. Innanzitutto la casa è il luogo della memoria pratica, perché, nell’organizzazione del suo spazio e attraverso gli oggetti che contiene, incorpora soluzioni per i problemi concreti e ricorrenti che pone la vita di ogni giorno. Il secondo senso in cui la casa è luogo della memoria riguarda il fatto che gli spazi e gli oggetti degli ambienti domestici conquistano nel tempo una certa aura mnestica. In altre parole: “ricordano qualcosa”, il nostro passato, le storie, gli affetti, le emozioni, e vengono conservati per questo, al di là della loro funzione. E’ l’aura che emana dal depositarsi della nostra esperienza negli oggetti e che permane anche quando finisce la loro utilità. Infine la casa è luogo della memoria per il fatto che alcuni degli oggetti che riempiono le abitazioni sono stati scelti e disposti espressamente per poter accedere a un certo sapere: così la casa è luogo di una memoria d’uso. In questo modo, la casa appare come se fosse un testo, un testo scritto dai suoi abitanti con materiali provenienti da fonti diverse, quasi come un collage, e usato a sostegno della propria identità.

    Esiste del resto uno stretto rapporto fra ciò che si conserva e le identità. Da un lato si conservano oggetti che dipendono dalle rappresentazioni di sé e dei gruppi a cui si sente di appartenere. In questo senso, è l’idea che abbiamo di noi stessi a determinare la selezione delle nostre cose (e il loro posto negli spazi domestici: in ribalta o in retroscena). Dall’altro, gli oggetti che si conservano restituiscono forza alle rappresentazioni cui aderiscono. E ciò è vero più che mai con gli oggetti che compongono le mediateche. Oltre che oggetti, questi sono mondi narrati, e noi li consumiamo per i loro contenuti, per il modo in cui si intrecciano alle nostre esperienze, contribuendo non solo ad esprimere le identità ma anche a forgiarle.

    Come le identità, d’altro canto, l’insieme degli oggetti che conserviamo è dinamico. Quando noi mutiamo, muta anche parte di ciò che tratteniamo, il suo significato e il suo ordine. Così, nei vari momenti di passaggio della vita (matrimoni, traslochi, separazioni) si riorganizza ciò che si conserva. Ma non senza resti. Molti oggetti vengono lasciati nelle altre case in cui si è abitato, o nelle seconde case, o nei prolungamenti di raccolta della propria attuale abitazione, soffitte, garage, luoghi interstiziali tra la conservazione e lo scarto, dove le cose permangono fintanto che non è sfumato il loro valore (non solo d’uso, ma anche mnestico). Per la maggior parte delle persone, infatti, buttar via è problematico: conservare un certo oggetto significa conservare una parte di sé, una parte del proprio tempo, serbare un ricordo. Poiché hanno a che fare con le identità, col modo di rapportarsi e presentarsi agli altri, nonché con la capacità di ricordare qualcosa, e soprattutto con l’ordine e l’esibizione, le mediateche ci sono apparse come “teatri della memoria”.

    La metafora del teatro può in effetti rendere conto della congruenza che si può rilevare tra i sistemi di oggetti che teniamo in casa e i modi in cui è organizzata la nostra stessa memoria [5]. Del resto, la parola “teatro” rende conto anche di un altro aspetto: gli oggetti che conserviamo nelle nostre case corrispondono ad una messa in scena. Parlano di noi, dei nostri gusti e delle nostre storie. Le mediateche, d’altronde, costituiscono insiemi organizzati di oggetti di statuto particolare. Questi arrivano in casa di solito in relazione a qualche uso o scopo, ma, permanendovi, acquistano la funzione di rammentare altre cose, di noi e della nostra storia. In più, essendo testi che entrano nei processi di elaborazione dell’esperienza e di interpretazione della realtà anche con i loro contenuti, vengono rammentati in modo più intenso di quanto accada per altri oggetti.

    Se i teatri della memoria costituiti dagli oggetti esibiti rimandano agli aspetti più presentabili delle nostre identità, anche i depositi mediali lo fanno. E sembrano al tempo stesso un repertorio di identità trascorse e potenziali: frammenti di una biografia passata che non si può scartare sono, però, anche il presupposto di nuovi racconti.

    3. Una storia sociale delle mediateche

    In ogni casa si riproduce, in piccolo, un sistema integrato e differenziato di mediateche. Sulla costruzione di tali sistemi la variabile che conta di più è l’età, non solo in senso anagrafico, ma anche in quanto collocazione in un punto o in un altro del ciclo di vita e in quanto orientamento per le esperienze successive [6]. Gli atteggiamenti verso il passato sono diversi quando si è giovani, adulti o anziani, se si è figli o si hanno figli, o si è anziani i cui figli se ne sono andati. Inoltre, l’età conta in quanto legata ad esperienze di socializzazione diverse. E nel caso della socializzazione ai mezzi di comunicazione a contare è il modo in cui ciascuno, entro culture generazionali, ha elaborato ed esperito il rapporto col sistema dei media e i suoi cambiamenti.

    Ci saremmo aspettati però che il gruppo dei nostri giovani fosse maggiormente diverso dagli altri. Ma, se in parte questo è vero per quel che riguarda l’uso dei media, e in particolare dei nuovi media, non è così per quanto riguarda il senso del conservare. Circa il senso del conservare, i giovani dovrebbero essere i più esposti al consumismo, a quella cultura cioè che promuovendo l’obsolescenza ricorrente di molti tipi di oggetti (mediali) tenderebbe a promuovere un certo dis-attaccamento alle cose. Ma le nostre interviste mostrano tutt’altro: nel rapporto con gli oggetti che i giovani scelgono di conservare sembra configurarsi una tensione con il consumismo o, quanto meno, un tentativo di adattarne le conseguenze alle proprie esigenze.

    L’attività di conservare ha in effetti una molteplicità di significati, per soggetti tra loro diversi ma anche per lo stesso soggetto che può esprimere orientamenti di senso variabili, a seconda dei momenti della vita. Ma in generale risulta che conservare serva, sia in senso pratico che psicologico, a contrastare o almeno a padroneggiare il flusso del tempo. E questo riguarda un po’ tutti. Come si evince anche dal disporsi degli orientamenti del senso del conservare fra le due polarità dell’uso e dell’identità. In entrambi i casi, conservare significa scegliere e utilizzare e ciò che si conserva acquista un certo valore per il fatto stesso di permanere, disegnando qualcosa come una memoria autobiografica.

    Come ogni autobiografia, l’insieme di ciò che conserviamo è dinamico, ritoccabile; comporta aree rivisitate e zone d’ombra; può essere rivolto a se stessi o tendere a generare una certa immagine di sé negli altri. E come ogni memoria del sé, tale insieme è intriso di affettività e di relazioni. D’altro canto, uno dei risultati del nostro lavoro è il riconoscimento del fatto che le mediateche domestiche hanno una storia. E’ una storia sociale: intreccio di pratiche individuali e di tecnologie, di mode collettive e di processi di appropriazione privati (Affuso et all., 2010). Per altro, come sappiamo da Mannheim (1928), ogni generazione partecipa ad una sequenza limitata del processo storico, e costruisce le proprie esperienze successive sulla base delle prime impressioni ricevute quando si è confrontata pubblicamente e collettivamente con tale sequenza. E questo avviene anche con i media, per cui il rapporto con loro si lega alla propria collocazione in un periodo storico e agli orientamenti di senso che in quel periodo si sono costruiti, divenendo bagaglio per gestire la propria esperienza con la realtà e i suoi mutamenti.

    L’età in cui si formano i modelli culturali che incidono sulle esperienze successive sembra essere l’adolescenza (i cui confini, per altro, non sono sempre facili da delimitare). Per le persone anziane ogni nuova esperienza è ricondotta al sedimento di esperienze precedenti. Per i giovani, invece, le nuove esperienze sono per lo più anche le prime ed hanno quindi una forza dirompente, capace di orientare i significati delle esperienze successive, di plasmare le strutture di base della coscienza (cfr. Cavalli, 1985; 1994). Per cui, possiamo dire in estrema sintesi che i media che hanno fatto parte della propria formazione da giovani sono quelli che maggiormente delineano l’identità generazionale e personale, l’insieme dei propri gusti, il sentimento di familiarità con un genere piuttosto che con un altro, e con ciò l’appartenenza ad un’epoca e ad una collettività. Questo avviene non perché una generazione è rappresentata dagli strumenti che usa, ma perché l’insieme di quegli strumenti è parte dei modelli che ci si porta dietro, almeno nella memoria, quando ci si muove per il mondo (Colombo, 2009), parte di quel corredo di significati con cui si riflette sulla propria identità in formazione. Anche per questo una generazione non riesce mai completamente a traghettare i propri modelli verso la successiva e questa ad aderirvi totalmente: perché di volta in volta altre influenze, politiche, culturali, sociali, risultano determinanti nell’esperienza.

    Le nostre interviste, in riferimento ai cambiamenti che avvengono all’interno della casa e della società ed al ruolo che tali cambiamenti giocano nel rapporto tra media e generazioni, ci permettono di rintracciare la storia delle mediateche domestiche dai primi anni del secondo dopoguerra ad oggi. E da qui ci consentono di evidenziare almeno tre identità generazionali e tre età delle mediateche.

    La prima è la generazione dei lettori e delle biblioteche, collocate prevalentemente nel salotto della casa e soggette alla condivisione da parte di tutti i membri della famiglia. La seconda è la generazione della musica e dell’auto-riproduzione (audio e video), legata alla massima estensione della mediateca e contemporaneamente al delinearsi della mediateca personale, che coincide con l’affermarsi della “stanza dei ragazzi”; la terza è l’era del computer e dell’accesso personale al Web, con il relativo alleggerirsi delle mediateche fisiche: sugli scaffali diminuiscono i CDRom e i DVD mentre proliferano le cartelle nel computer e, ancora più recentemente, l’utilizzo di sistemi di archiviazione direttamente nel Web.

    Come la ricerca ha mostrato, dunque, nei primi anni cinquanta i prodotti mediali non hanno molto spazio nelle abitazioni. La radio e la televisione sono media di flusso e i loro testi non entrano nelle mediateche. Proprio a partire dagli anni sessanta, però, e fino a tutti gli anni ottanta, le mediateche cominciano ad arricchirsi. Per quanto riguarda i libri, compaiono le collane economiche (come gli Oscar Mondadori, storica novità editoriale), che corrispondono alle esigenze di una popolazione più istruita di prima (Zanoli, 1989). E contemporaneamente si diffondono ampiamente i dischi, trainati dalle nuove culture e forme di consumo giovanili e fruibili grazie ai nuovi giradischi (il celebre “mangianastri”). In questi anni comincia anche un altro fenomeno, che diventerà sempre più importante: grazie al registratore nel flusso della musica che passa alla radio si può cominciare a conservare qualcosa. A partire dagli anni ottanta si può fare lo stesso per i video: si può registrare un programma televisivo, si può vedere un film in cassetta, si possono produrre video. Le mediateche continuano ad arricchirsi. Nel decennio successivo i dischi sono sostituiti da CD e le cassette video dai DVD, ma le logiche restano analoghe. Sono gli anni d’oro delle mediateche, quelli in cui sono più ricche, in cui la gente vi dedica maggiore attenzione e cura: la cultura del mondo entra tra le pareti domestiche.

    La differenza con i libri è che questi si prestano a una conservazione lunga, capace di coinvolgere più generazioni, per cui le biblioteche sono ancora zone di continuità generazionali in cui l’oggetto si conserva a lungo nel tempo per essere trasmesso (Rossi, 1988). I nuovi prodotti, invece, non durano nemmeno una vita e le mediateche diventano insieme di oggetti che si formano nel legame stretto dell’individuo con un certo spazio, ma per un tempo limitato (cfr. ancora Affuso et all., 2010). Dischi, nastri registrati, videocassette, CD e DVD, e poi tutto ciò che è salvato su file digitali, si prestano a conservazioni brevi. Da un lato il supporto è più deperibile, dall’altro gli oggetti tecnici necessari ad attivare le tracce (lettori audio /video digitali), vengono presto superati. Così spesso qualcuno ha ancora le videocassette ma non ha più il loro lettore, ha dischi in vinile ma non più un giradischi funzionante. Il risultato sono cantine piene di oggetti muti che non possono essere riattivati. Ma che per la loro aura non vengono nemmeno scartati.

    La comparsa del computer e di Internet modifica ulteriormente la situazione. Rispetto alla conservazione, per quanto riguarda i libri cambia ancora poco: si scaricano e si conservano soprattutto testi altrimenti di difficile reperimento (saggi in riviste scientifiche, ad esempio). Relativamente a film e musica, invece, la presenza del computer e di Internet muta abbastanza radicalmente le cose. Non si smette di acquistare CD e DVD, ma all’acquisto si affiancano (o sostituiscono) pratiche di reperimento di prodotti mediali (come il download) da cui restano quasi completamente fuori gli anziani ma che accomunano i giovani e gli adulti. Tra giovani e adulti è però anche possibile ravvisare delle differenze: i giovani si mostrano completamente a proprio agio in questa cultura “dell’accesso” (Rifkin 2000), tanto che spesso non conservano i file nella convinzione che ciò che si trova sul Web è sempre disponibile. Gli adulti, invece, pur utilizzando ampiamente queste tecnologie, restano ancora legati a pratiche di conservazione tradizionali (più copie su diversi supporti): il loro tentativo è quello di mantenere una temporalità lunga per oggetti che ormai l’hanno persa. L’addomesticamento del computer e di Internet è tuttora in corso. Se il loro avvento è parte integrante della storia sociale delle mediateche, in un certo senso è anche un’altra storia, o quanto meno una storia parallela.

    4. La leggerezza delle mnemoteche digitali

    Le grandi trasformazioni che hanno riguardato il sistema della comunicazione e della gestione dell’informazione negli ultimi venticinque anni possono essere considerate come una “svolta di sistema” (Ortoleva, 1997). Designare questa rivoluzione come un semplice insieme di novità sarebbe riduttivo. All’interno di questo processo di cambiamento, una delle innovazioni tecnologiche più interessanti è quella che ha segnato il passaggio dai vecchi ai nuovi media ed ha permesso di tradurre tutti i dati in un unico linguaggio codificato e di poterli condividere tramite un sistema unificato di reti [7].

    I new media si distinguono dai cosiddetti media broadcasting per il fatto che permettono una fruizione interattiva e passibile di programmazione (Manovich, 2002) che rende i testi mediali oggetti manipolabili, anche qualora provengano da media tradizionali. L’utente diviene pienamente un “consumatore attivo” poiché ha l’opportunità di intervenire sui prodotti mediali. Di conseguenza, le mediateche acquisiscono un carattere maggiormente dinamico, non solo perché reperire tali prodotti è sempre più facile, ma anche perché si ha continuamente la possibilità di rielaborare i file conservati; anche l’ordine e i criteri di archiviazione sono più mobili.

    Lo strumento tecnologico che è maggiormente rappresentativo di questo processo è il computer. Le possibilità di catalogazione e di archiviazione sono tra le caratteristiche principali di questo potente mezzo informatico. E’ però la diffusione di Internet che determina la svolta più importante: oggi è infatti lo strumento principale per raccogliere e conservare immagini, notizie, dati e documenti, brani musicali, video e film.

    La digitalizzazione dei prodotti mediali rende questi ultimi sempre più immateriali e leggeri, e cammina di pari passo con un processo di miniaturizzazione dei supporti tecnologici che vanno caratterizzandosi a loro volta per una maneggevolezza e una portabilità sempre crescenti (Fortunati, Katz, Riccini, 2002). Computer portatili, telefoni cellulari, lettori digitali audio e video diventano tecnologie sempre più personali e personalizzabili, con apparati di memoria sempre più consistenti ed efficienti software che consentono di conservare, ordinare e lavorare con una quantità di dati maggiori, e qualitativamente migliori, rispetto a quelli in uso sino a pochi anni fa.

    Rispetto alla memoria, la portabilità di questi supporti tecnologici apre tutta una serie di questioni legate alla costruzione delle mediateche e al senso che queste assumono per gli individui. Se l’ambiente domestico (o di lavoro) era, fino a qualche tempo fa, l’unico luogo in cui costruire mediateche e, di conseguenza, strutturare memoria sia a livello individuale che collettivo, con la diffusione delle tecnologie mobili parte di queste memorie domestiche esce dalla casa e segue l’individuo nei suoi spostamenti. Queste memorie digitalizzate, ormai impalpabili e portatili, si trasformano a misura di un soggetto mobile (e contemporaneamente rendono possibile una maggiore mobilità). A volte rimandano a ciò che in casa è conservato più stabilmente; ma a volte non corrispondono a nessuna memoria depositata nell’abitazione: sono file che aleggiano nel Web, accessibili da qualunque posto del mondo, purché si abbia la possibilità di accedere alla Rete. Ed è soprattutto per i giovani e per i giovani adulti, anche se ormai non più solo per loro, che sembra verificarsi effettivamente quel passaggio da un’economia dell’informazione legata alla produzione industriale ad un’“economia dell’informazione in Rete”, o all’“era dell’accesso” (che si sostituisce al “possesso”) che diversi autori contemporanei descrivono (cfr. Benkler, 2007; Rifkin, 2000).

    I new media però non fanno scomparire ciò che li ha preceduti. Le nuove mediateche digitali, virtuali e portatili, si affiancano a mediateche tradizionali all’interno delle medesime abitazioni. Quello che sembra perdersi è piuttosto il valore collettivo di queste mediateche: da spazi personali ma a disposizione di tutti i co-abitanti, tendono a divenire spazi individuali. Il loro uso – con la gestione, la catalogazione e la fruizione di ciò che contengono - si addensa in zone personalizzate, dove si affermano diverse logiche generazionali e differenti rapporti con le tecnologie. Dalle interviste emerge chiaramente che le pratiche d’uso e le modalità di raccolta e conservazione di questi oggetti mediali cambiano con l’età. Le mediateche dei più giovani risultano infatti organizzate attraverso i nuovi strumenti digitali in misura decisamente maggiore rispetto a quelle degli adulti che mostrano comunque un’attenzione crescente verso le possibilità offerte dalle nuove tecnologie. Gli anziani, invece, ne sono toccati solo in maniera marginale, sebbene anche loro, quando sono spinti da un’importante motivazione, riescono a colmare il gap tecnologico.

    Per quel che riguarda la memoria, a quel senso di continuità dato dalla memoria lunga della casa si affiancano le memorie leggere, a breve termine [8], tipiche delle tecnologie mobili. Questi artefatti tecnologici si configurano dunque non solo come depositi di piccole memorie individuali (le foto o gli sms nel telefonino) ma assolvono anche ad alcune funzioni: una strettamente comunicativa, una più organizzativa (tramite i vari reminder e organizer), una di intrattenimento, nei momenti di pausa o di spostamento (attraverso giochi e musica), e contemporaneamente ci rendono sempre reperibili.

    Anche l’idea di mediateca come “teatro della memoria”, è rimessa in discussione. Ciò che è conservato in formato digitale non si presta all’esibizione se non in forme specifiche (non tutti possono vedere quel che si è conservato nel PC). Il desktop del proprio computer richiama in qualche modo una scena, ma, se è un teatro, è un teatro parallelo a quello che la casa esibisce. E’ più personale ed anche il suo ordine è un altro: non solo quello stabilito dall’utente ma anche quello inscritto nella tecnologia. Lo stesso sovrappiù di senso che, in una libreria è dato, per esempio, dalla contiguità spaziale di un libro e di un altro, o dalla possibilità fisica della condivisione e della trasmissione, si perde.

    Se, fino ad un certo momento, le mediateche sono come teatri della memoria, atte non solo a conservare ma anche ad esibire, lungo le nostre pareti domestiche, a mostrare a sé e agli altri pezzi d’identità, con i computer e i nuovi media, la metafora del teatro diventa meno stringente (cfr. ancora Jedlowski, Buffardi, Isabella, 2010) ma non per questo sparisce del tutto. Ciò che avviene, infatti, è piuttosto un trasferimento: i file archiviati all'interno del computer vengono spesso esibiti nelle pagine personali messe a disposizione dai vari Social Network presenti nel Web. Seppure in maniera virtuale ecco che si ricompongono album di fotografie e “scaffali” pieni di oggetti mediali (ad esempio link ad articoli di giornale o a stralci di video con spezzoni di film o di trasmissioni televisive) che, seppur principalmente per un pubblico del Web, vengono esibiti esattamente come quelli tradizionali conservati all'interno dell'ambiente domestico [9].

    Pur con tutte queste trasformazione, in ogni caso, una certa aura mnestica rimane. Trasferiti su supporti digitali i testi incorporano memorie leggere e trasportabili, ma non per questo meno evocative. Memorabilia portatili e minuscole, riempiono il nostro presente di suoni e immagini e anche quando vanno in disuso restano nei nostri cassetti e nello nostre soffitte, come ancore di tempi più o meno lunghi.

    Note

    1] Il contributo è curato da Olimpia Affuso e Simona Isabella. Olimpia Affuso ha scritto il 2° e il 3° paragrafo, mentre Simona Isabella ha scritto l’introduzione e il 4° paragrafo.
    2] Si tratta della ricerca “Memorie domestiche. Conservazione ed uso dei prodotti mediali negli spazi domestici”, diretta da Paolo Jedlowski, unità locale dell’Università “L’Orientale” di Napoli del Prin 2006 “Costruzione e ricostruzione dello spazio-tempo nelle pratiche del quotidiano” di cui la coordinatrice nazionale è stata Giuliana Mandich. Tale ricerca è stata svolta nelle città di Napoli, Roma, Cosenza e Avellino. Oltre ad una serie di interviste esplorative (autointerviste) ai membri del gruppo di ricerca, sono state raccolte 35 interviste narrative rivolte a persone di entrambi i sessi, di varia istruzione e in diverse condizioni professionali, in età fra i 20 e gli 80 anni, con prevalenza di giovani adulti istruiti. I risultati della ricerca sono stati pubblicati nel volume Culture quotidiane curato da Giuliana Mandich (Carocci, 2010). In questo saggio riprendiamo e riarticoliamo quanto scritto nello stesso volume in Jedlowski, Brancato, Luchetti; in Affuso, Iannicelli, Paolo, Savonardo; in Jedlowski, Buffardi, Isabella.
    3] Da questi due ambiti di studio abbiamo assunto due presupposti: 1) il carattere dinamico, selettivo e costruttivo della memoria e il rapporto fra le tecnologie disponibili e le memorie degli individui; 2) il carattere attivo dei processi di fruizione, la complessità dei processi di appropriazione di ogni nuova tecnologia e l’esistenza di meccanismi di negoziazione fra offerta mediale e modalità d’uso. E da qui derivano alcune ipotesi generali. La prima è che il consumo dei prodotti mediali non si esaurisce nell’atto dell’acquisizione o della prima fruizione del prodotto, ma si prolunga entro lo spazio domestico (o in sue eventuali estensioni) costituendo depositi che si prestano a usi ed a significati ulteriori (le “mediateche domestiche”, appunto). La seconda è che queste mediateche configurano archivi in grado di esprimere e di sostenere le memorie personali dei soggetti coinvolti, intrattenendo con queste un rapporto dinamico.
    4] Su questo, tra gli altri studi, v. Fanchi, 2002; Affuso, 2010.
    5] Riferimento per questa metafora è Il teatro della memoria di Frances Yates (1966). Si tratta del teatro progettato da Giulio Camillo nel XVI secolo, un dispositivo in cui tutte le nozioni dello spirito umano erano legate ad immagini disposte a raggiera e su più livelli secondo un ordine logico, per cui non solo ogni nozione poteva essere facilmente ritrovata, ma l’insieme delle nozioni corrispondeva al criterio con cui il soggetto immaginava e comprendeva la realtà e le proprie esperienze.
    6] Cfr. Donati, 2008; Bertocchi, 2007.
    7] Per questo paragrafo il riferimento principale è Jedlowski, Buffardi, Isabella, 2010.
    8] Utilizziamo questo termine per indicare il fatto che spesso quanto viene conservato in questi supporti digitali portatili è transitorio. Da quanto emerge dalle interviste la “leggerezza” dei supporti portatili sembra estendersi anche agli oggetti mediali che gli utenti vi conservano: le foto, la musica, i video resteranno in memoria solo per un tempo limitato.
    9] Esattamente come per l'archiviazione dei file all'interno del PC, la differenza sostanziale tra i teatri della memoria fisici e quelli virtuali consiste nel fatto che nei secondi spesso i criteri sottesi alla conservazione e all'esposizione sono dettati da un programma e non direttamente dall'utente.

    Bibliografia

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