Mappe domestiche: la casa e le sue memorie
Marina Brancato (sous la direction de)
M@gm@ vol.9 n.3 Septembre-Décembre 2011
NUOVE DOMESTICITÀ: LA CASA CONNESSA E LE TECNOLOGIE PERVASIVE PER LA MOBILITÀ
Giuseppina Pellegrino
g.pellegrino@unical.it
Ricercatrice di Sociologia e processi culturali all’Università
della Calabria. Insegna “Comunicazione e società” e “Studi culturali e
innovazione sociale” alla Facoltà di Scienze politiche. I suoi interessi
di ricerca si focalizzano su tecnologie e mobilità; scienza e innovazione
nel laboratorio scientifico; design di infrastrutture avanzate di comunicazione;
media, vita quotidiana ed approcci etnografici.
Introduzione
La casa si configura come osservatorio privilegiato delle trasformazioni che attraversano la vita quotidiana, rendendo le routine sempre più fittamente intrecciate ad infrastrutture e dispositivi tecnologici. Essendo per eccellenza l'ambito della domesticità e dell’addomesticamento come processo di progressiva familiarizzazione con il nuovo (cfr. Silverstone, 2000), la casa costituisce un punto di snodo e un confine (cfr. Cella, 2006) storicamente significativo dei percorsi attraverso i quali non solo la vita quotidiana, ma anche consolidate distinzioni (pubblico-privato, estraneo- familiare, mobile-stanziale, visibile-invisibile, produzione-consumo) sono soggette a ristrutturazione.
Partendo da queste ipotesi, si cercherà di mostrare come il paesaggio tecnologico contemporaneo (nella accezione di Appadurai, 1996, tecnorama) possa essere “riletto” attraverso lo spazio domestico. Quello della casa, infatti, si struttura come uno spazio progressivamente mediatizzato, che da una iniziale apertura verso l’esterno si articola in modo sempre più (inter)connesso ai tecnorami e mediorami (Appadurai, 1996) che lo circondano e lo inglobano in reti di comunicazione pervasive.
Obiettivo di questo contributo è proporre un insieme composito di coordinate teoriche per inquadrare il ruolo ‘acquisito’ dalla casa e dallo spazio domestico nei riguardi di tecnologie vecchie, nuove e nuovissime, se non del tutto in fieri nell’immaginazione progettuale proiettata verso il futuro (cfr. Pellegrino, 2010).
Una prima parte di queste coordinate articola le relazioni tra la casa e i processi comunicativi come processi latu sensu sociali, che nello spazio domestico si manifestano sia attraverso la modalità face-to-face, sia attraverso una mediazione tecnologica multipla e molteplice.
A partire da questa premessa, si farà riferimento alle riflessioni elaborate in tre “campi” di studio– i Cultural Studies, i Mobility Studies e i Science and Technology Studies. L’intento è quello di argomentare che all’intersezione di tali campi si colloca la trasformazione dello spazio comunicativo domestico, nella direzione di una progressiva ibridazione, mobilità e interconnessione dei confini della casa. Al fine di integrare questo quadro, si farà inoltre riferimento ai risultati di una ricerca in corso di svolgimento sulla mobilità e le tecnologie ubique (cfr. Pellegrino, 2009a).
La casa connessa prefigurata dalle infrastrutture tecnologiche in fieri, unitamente alle tecnologie pervasive per la mobilità, contribuisce a disegnare un nuovo spazio della vita domestica e quotidiana, in cui i flussi della comunicazione – mediata e non – non si limitano ad arrivare dall’esterno dentro la casa per essere “fruiti” e restituiti all’esterno, ma articolano lo spazio domestico come punto di emersione di più vaste e complesse infrastrutture tecnologiche.
Questa ri-articolazione della domesticità non è priva di problemi e paradossi, che rimettono in questione la tradizionale visione della casa come luogo dell’intimità, della protezione e della riservatezza, riproponendo antichi dilemmi sull’interazione tra dimensione pubblica e privata, ma anche nuovi interrogativi sulle frontiere che rendono sempre più fragile la soglia di invisibilità della vita quotidiana.
1. Lo spazio domestico come spazio della comunicazione (im)mediata
E’ a partire dalla nascita dei primi mezzi di comunicazione di massa e non, particolarmente della radio e poi del telefono, ai primi del Novecento, che la casa si apre lentamente e progressivamente al mondo esterno e alla comunicazione mediata; fino ad allora, la casa rappresenta l’hic et nunc dell’interazione faccia a faccia tra membri della stessa famiglia. Si tratta di relazioni comunicative che non conoscono la mediazione tecnologica, ma enfatizzano invece la crucialità del corpo come superficie significante, medium fondamentale dell’articolazione del linguaggio verbale e non. Sarà la scuola di Palo Alto (Watzlawick, Beavin e Jackson, 1971) con la sua assimilazione della comunicazione al comportamento – e la conseguente inevitabilità – a disvelare le potenzialità patologiche della comunicazione familiare e domestica, le asimmetrie di potere e i risvolti clinico-psicopatologici che trovano nella casa, e nella intimità della comunicazione intrafamiliare, il palcoscenico privilegiato della loro manifestazione.
Le relazioni comunicative faccia-a-faccia designano inoltre, all’interno della casa e della famiglia, soprattutto dopo la seconda rivoluzione industriale, quell’ambito definito “privato”, in cui le relazioni sono personali, intime, prevalentemente informali, e si svolgono tra una cerchia ristretta di persone. In questo senso, la casa diviene locus delle relazioni di consumo (con l’urbanizzazione e l’industrializzazione che separa i luoghi di lavoro dai luoghi del non lavoro) e di quelle relazioni non soggette alla pubblicità, ovvero non accessibili a tutti.
“In questa accezione, la dicotomia pubblico-privato rimanda all’opposizione tra pubblicità e riserbo, tra apertura e segretezza, tra visibilità e invisibilità” (Thompson, 1998, p. 174). Queste coppie concettuali, elaborate nel corso della storia occidentale, si sono ristrutturate e trasformate profondamente, risultando sempre più ibride e meno distinte. Gran parte di questa “perdita di distinzione” si deve alla crescente tecnologizzazione della casa e dell’ambiente domestico; tra le tecnologie più rilevanti e partecipi di questo processo, quelle di comunicazione (di massa, interpersonali, dell’informazione e, infine, personali e sociali, come il cellulare e i social networking sites) assumono un ruolo decisivo nell’aprire uno spazio chiuso, riservato e virtualmente segreto quale quello del privato domestico alle influenze (e ai flussi comunicativi) dello spazio esterno “pubblico” (sia questo inteso come economico, politico, culturale e sociale in senso più ampio).
Questa apertura, consolidatasi in un tempo relativamente breve (meno di un secolo, quello definito appunto “breve” da Eric Hobsbawm) vede alternarsi (ma anche coesistere) fasi in cui la casa sembra cruciale nel consumo e fruizione di informazione (si pensi a tutta l’elettronica destinata al segmento “home consumer”, in particolare all’intrattenimento e ai videogiochi) con fasi in cui la crescente mobilità, portabilità e miniaturizzazione dei dispositivi tecnologici paiono scindere dalla casa la possibilità di essere raggiunti e raggiungibili dagli altri lontani, ma anche delocalizzare il senso locativo e fisico dell’espressione “sentirsi a casa”.
Se i media elettronici si collocano “oltre il senso del luogo” (Meyrowitz, 1985) – e la televisione con la sua quasi-interazione mediata (Thompson, 1998) è il più compiuto attore di quel regime che la critica francofortese aveva definito “amministrazione dello svago” (Adorno e Horkheimer, 1947) la casa e la famiglia in quanto “unità morale domestica” (Silverstone, 1994) continuano a detenere la posizione di vettori cruciali nel processo di addomesticamento e appropriazione delle nuove tecnologie e dei nuovi media (cfr. par. 1.1).
Ed è proprio la televisione il new medium in the household che attira l’attenzione non tanto e non solo dei mass-mediologi, ma di quegli autori e critici orientati a cogliere la trasformazione e la commistione delle forme della cultura contemporanea. Si tratta dei Cultural Studies, che pongono al centro della loro analisi, tra le altre, le relazioni di fruizione e le strategie di appropriazione della televisione da parte del pubblico a casa.
1.1. La casa nei Cultural Studies: dalla privatizzazione mobile
all’addomesticamento ‘esteso’
La centralità della casa è cara a molti degli studi sulla ricezione che si rifanno al filone mediatico dei Cultural Studies e alle analisi etnografiche delle pratiche e delle esperienze del consumo mediale (cf. Moores, 1999). Il rapporto con i pubblici (audiences, cfr. Livingstone, 2000) nel contesto di fruizione dei contenuti mediali diventa chiave di volta metodologica dei media studies che traggono dalla tradizione del Centro di Birmingham la loro ispirazione: dalle famiglie di diverse classi sociali (Morley, 1986) alle casalinghe (Hobson, 1982) l’attenzione è per come i rapporti genitori-figli e le relazioni di genere vengono ristrutturati dalla visione di telefilm, soap opera e dall’ingresso di un nuovo “componente” dell’ambiente domestico (il televisore in quanto elettrodomestico e la televisione in quanto medium).
La casa è dunque uno dei punti di riferimento in rapporto ai quali il rapporto tra media e vita quotidiana viene ad essere sviscerato ed analizzato, ed è la casa uno degli elementi costitutivi di ciò che Raymond Williams definisce “privatizzazione mobile”.
Come scrive Williams (2000, p. 46) “Da un punto di vista sociale il fenomeno della complessità è caratterizzato da due tendenze, apparentemente contraddittorie ma intrinsecamente connesse, dello stile di vita della moderna società urbana industriale: da un lato la mobilità, dall’altro l’apparente autosufficienza della residenza familiare. Il primo periodo della tecnologia pubblica, ben esemplificato dalle ferrovie e dall’illuminazione urbana, veniva sostituito da un tipo di tecnologia per il quale non è stata ancora trovata una definizione soddisfacente; una tecnologia funzionale ad uno stile di vita mobile, ma allo stesso tempo centrato sull’abitazione familiare: una forma di privatizzazione mobile”.
L’accezione individualistica ed individualizzante che il termine privatizzazione mobile evoca e suggerisce si adatta alla forma assunta da taluni new media nei loro usi, ed in particolare alle forme ubique e cosiddette nomadi di computer e connessione in rete senza fili (ad esempio le tecnologie wireless o wi-fi) che svincolano la fruizione e l’accesso a molteplici servizi tanto dal luogo di lavoro quanto dalla casa come ambito domestico privilegiato del consumo e della fruizione mediale (cfr. par. 2 e 2.1).
In questo senso, l’analisi di Roger Silverstone (Silverstone, 2000) - che si occupa di televisione e vita quotidiana venti anni dopo Williams - coglie che la televisione è solo un tassello di un più ampio mosaico di tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Appare chiaro che processi culturali, economici ed istituzionali di convergenza tra settori e media ricollocano la televisione entro un quadro nuovo e diverso nei moderni contesti urbani e sub-urbani, modificando il rapporto dentro-fuori, centro-periferia, lavoro-non lavoro, pubblico-privato. Per Silverstone la casa si configura come alveo di quell’unità morale domestica (la famiglia) entro cui i significati simbolici e materiali della tecnologia televisiva (ma anche di altre tecnologie domestiche, come il videoregistratore o il personal computer) vengono rielaborati, appropriati e infine addomesticati, secondo le tappe cruciali del modello individuato da Silverstone e Hirsch come “addomesticamento” (Silverstone e Hirsch, 1992). Si tratta di un modello che, pur con un eccesso di linearità successivamente smussato (Berker et al., 2006), articola le fasi della trasformazione di tecnologia e media da elementi “alieni”, “selvaggi” ed estranei, ad entità appropriabili, familiari e domestiche (addomesticate, per l’appunto). L’addomesticamento ha contiguità significative con quel processo che la fenomenologia definisce come routinizzazione o tipizzazione (Schutz, 1974), ovvero il divenire invisibile ed automatico di ciò che in principio è nuovo e sconosciuto (quando non del tutto ignoto).
Così accade anche per tecnologie e media nuovi che, essendo introdotti nell’ambiente domestico (fase della “appropriazione”), perdono il loro statuto di merci sul mercato per essere collocati nello spazio e nel tempo della casa (fase della “oggettivazione”) e nelle routine quotidiane (fase della “incorporazione”), rientrando infine nel flusso delle comunicazioni “pubbliche” ed esterne alla casa, sotto forma di discorso (“conversione”). Quest’ultima fase, che potrebbe essere assimilata alla “mediatizzazione estesa” (Thompson, 1998), ricollega il privato domestico alle logiche pubbliche del mercato, dei mezzi di comunicazione di massa e della pervasività che i contenuti (multi)mediali raggiungono nella vita quotidiana domestica e non.
La linearità del modello, che pure cerca di tenere insieme logiche parzialmente contraddittorie (potere, uso quotidiano, consumo, controllo), viene riarticolata negli ultimi lavori di Silverstone e altri (Berker et al., 2006) nei quali si enfatizzano le molteplici identità degli utenti, la complessità dell’appropriazione (simbolica tanto quanto materiale) e soprattutto il fatto che l’addomesticamento non è confinato alla casa come ambiente domestico, ma può verificarsi in una molteplicità di luoghi, con esiti e gradi differenti di integrazione nella quotidianità, a seconda degli utenti e degli artefatti che vengono addomesticati. A questo addomesticamento “esteso” o “allargato”, sono soggette anche quelle tecnologie che, per la loro diretta connessione alla mobilità dell’informazione, sembrano essere più slegate e indipendenti dalla domesticità tout court.
2. Mobilità multiple e infrastrutture: la saturazione delle tecnologie
ubique
Le ricerche sui media si sono confrontate, nell’ultimo quindicennio, con tecnorami e mediorami in rapido cambiamento, caratterizzati da una molteplicità di tecnologie per la comunicazione che aspirano a diventare media, che stanno per diventarlo o si stanno istituzionalizzando come tali (dal wireless all’ubiquitous computing, dal bluetooth allo smartphone). Altre (concomitanti) tendenze indicano che la tecnologia si miniaturizza, diventa sempre più portatile, portabile o indossabile (dai palmari, agli accessori e gadget tecnologici): gli artefatti tecnologici tendono a divenire trasparenti, pervasivi, ubiqui, invisibili, ad incorporarsi e a costituire l’ambiente circostante. Qual è allora il ruolo detenuto dall’ambito domestico in questo mutato (e mutante) contesto sociotecnico ed istituzionale?
La centralità dell’abitazione privatizzata intorno alla quale secondo Williams si dipanava il paradosso della complessità battezzato come “privatizzazione mobile” si ristruttura attorno a tecnologie diverse dall’automobile e dalla televisione, che della privatizzazione mobile erano le tecnologie-chiave. La caratteristica che sembra contraddistinguere invece la fase attuale è la mobilità, plurima e plurale, di persone, oggetti ed informazioni; tale mobilità, supportata e resa possibile da infrastrutture sociotecniche sempre più complesse, finisce per configurarsi come cifra della vita quotidiana contemporanea, ispirando un processo di appropriazione e addomesticamento che diventa sempre più l’essenza del “venire a patti” con l’innovazione e la rottura dell’ovvio. Si tratta di una ricostituzione di ciò che è dato per scontato lungo un continuum che non separa più il luogo di lavoro da quello di non-lavoro e che non si limita, come Williams notava in riferimento alla privatizzazione mobile, a generare mobilità per effetto della rottura di tipologie di insediamento e lavoro produttivo tipiche di una certa fase del capitalismo.
Rispetto ai nuovi media, la privatizzazione mobile è sempre più una mobilità individualizzata o individualizzante, entro la quale si aprono forme di socialità nuove e ibride, mediate da organizzazioni che a vari livelli concorrono a costituire tecnologie, modelli culturali e modalità comunicative in corso di sperimentazione ed aggiustamento.
“Mobilità” e “infrastrutture” sono dunque le parole-chiave che saranno di seguito analizzate per riconfigurare la nuova domesticità tecnologizzata. Si tratta di categorie che rinviano a due ambiti di riflessione teorica ed empirica, rispettivamente il Mobility Turn ispirato principalmente al lavoro di John Urry (Urry, 2000 e 2007) e l’ecologia delle infrastrutture nei Science and Technology Studies (Bowker e Star, 2000).
Il Mobility Turn individua nell’intreccio di differenti mobilità (fisiche, simboliche, immaginative e virtuali) la cifra costitutiva della società contemporanea, in cui ad essere in movimento non sono solo le persone, ma anche gli oggetti, le informazioni, le rappresentazioni, le stesse identità. In quello che viene definito new mobilities paradigm (Sheller e Urry, 2006) tanto la comunicazione faccia a faccia quanto quella mediata si configurano come processi amplificatori di mobilità. Entrambi, inoltre, fanno affidamento ad artefatti ed infrastrutture tecnologiche: la possibilità della mobilità fisica, come anche di quella immaginativa e virtuale (Urry, 2002) è infatti sempre legata ad una qualche forma di mediazione tecnologica. Che si tratti di reti (di trasporto o di comunicazione), di infrastrutture informative, di media (mass o new media), per essere mobili occorre il supporto e l’intervento di un apparato sociotecnico. Un insieme di «attori e pratiche sociali, ma anche tecnologie, immagini, testi e altri oggetti materiali» che configura geografie ibride (Hannam, Sheller e Urry, 2006, p. 14, trad. mia). La mediazione tecnologica della mobilità è basata sia su singoli artefatti/media (ad esempio, il cellulare, il portatile netbook o il Personal Data Assistant), sia incorporata in complesse infrastrutture di reti tecnologiche (ad esempio, la rete elettrica, Internet, le reti a banda larga, le reti senza fili).
La pervasività delle infrastrutture è l’esito di complessi, quanto fragili, sistemi ecologici interconnessi, invisibili e installati dentro routine (Bowker e Star, 2000: Star e Bowker, 2007) che il singolo individuo dà per scontati fino a quando una qualche forma di guasto o rottura non interviene, fenomenologicamente, a sospendere l’epoché dell’atteggiamento naturale che si è consolidato nei loro confronti (Schutz, 1979). La pervasività delle infrastrutture viene definita, con un termine più specifico, come “saturazione”, un concetto che designa la presenza nelle infrastrutture di una caratteristica “viscosità”, definita da Geoffrey Bowker e Susan Leigh Star, nella loro analisi dei sistemi di classificazione e degli standard, come “una gigantesca ragnatela di interoperabilità” (Bowker e Star 2000, p. 38, trad. mia). Questa interoperabilità, che chiama in causa la convergenza e l’ibridazione tra settori, mercati e tecnologie, ha come conseguenza la difficoltà di separare, distinguere ed operare differenziazioni. La vastità della scala delle interconnessioni dei sistemi sociotecnici, in altre parole, comporta da un lato una specifica forma di concentrazione ed “esaurimento” delle possibilità di comunicazione; dall’altro si manifesta in una ampia distribuzione delle infrastrutture, fino a saturare le possibilità ambientali di accogliere artefatti (si veda par. 2.1).
Ai fini della riconfigurazione dell’ambiente domestico, saturazione e distribuzione disegnano la relazione tra il pubblico al privato all’insegna di un continuum sotto il segno di una tecnologizzazione mobile. L’essere a casa o fuori casa, in questo senso, non rappresenta, potenzialmente, una distinzione discriminante rispetto alle possibilità di comunicazione, data la disponibilità di dispositivi tecnologici che ci accompagnano stabilmente, mediando e ristrutturando le relazioni di lavoro, l’interazione con le organizzazioni, le situazioni più intime e private. Muoversi in un contesto saturo di tecnologie significa avere a portata di mano una vasta gamma di infrastrutture, funzioni e opportunità tecnologiche, che rendono, potenzialmente, l’interazione mediata ubiqua, ovvero onnipresente, istantanea, centrata sui network individuali. Tuttavia, muoversi in un ambiente siffatto non esclude le disuguaglianze della distribuzione e della saturazione, le differenze di densità infrastrutturale spesso dimenticate, l’accesso diseguale alle opportunità di comunicazione a distanza e di mobilità come trasporto fisico.
Al fine di completare il quadro della domesticità nell’epoca della saturazione tecnologica, si farà riferimento ad alcune delle tendenze che definiscono i paradigmi di costruzione delle infrastrutture sociotecniche in fieri: ubiquitous computing, ambient intelligence, Internet of Things. Si tratta di altrettanti concetti che designano architetture infrastrutturali pervasive, accomunate dalla crescente invisibilità della tecnologia e dal tentativo di rendere la casa nodo connesso in una più vasta rete infrastrutturale.
2.1. Casa connessa e pervasività tecnologica: ubiquitous computing,
ambient intelligence, Internet of Things
La caratteristica di “ubiquità” attribuita alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione di ultima generazione può essere riferita, in primis, alla densità della loro distribuzione e disponibilità – dunque a quella che è stata sopra definita “saturazione”. Ubiquo è il telefono cellulare, la cui diffusione eguaglia e talora supera le linee telefoniche fisse in alcuni paesi (tra cui l’Italia); ubiqua è la rete Internet, ormai disponibile senza fili e attraverso gli stessi cellulari “intelligenti” (smartphone). L’uso di tale aggettivo, tuttavia, evoca una forte componente simbolica, essendo l’ubiquità dono e prerogativa della divinità. E’ dunque l’aspirazione all’onnipresenza, alla comunicazione e raggiungibilità sempre e dovunque (anytime, anywhere), al “contatto perpetuo” esemplificato dal cellulare (Katz e Aakhus, 2002) ciò che il termine “ubiquo” designa: una continuità della comunicazione mediata che la assimilerebbe pienamente a quella faccia a faccia, o corpo a corpo, pur essendo sempre più discutibile il fatto che quest’ultima sia il prototipo più adeguato per analizzare la comunicazione mediata (cfr. Fortunati, 2005).
Sull’aspirazione all’ubiquità e alla pervasività della comunicazione, si fondano i concetti di architetture tecnologiche ed infrastrutture che puntano, pur nella varietà delle denominazioni e definizioni, a “disseminare” la connettività delle reti nell’ambiente domestico ed extradomestico, estendendola dai dispositivi sino ad oggi deputati a svolgere tale funzione (computer e cellulare) a superfici ed oggetti di uso quotidiano.
A titolo esemplificativo, si farà riferimento a tre filosofie o paradigmi, ispirati alla convergenza tra tecnologie (rete Internet, sensori, reti senza fili, nanotecnologie) e al principio della progressiva invisibilità della materialità degli artefatti tecnologici.
Si tratta dell’ubiquitous computing, la cui visione “originaria” si deve a Mark Weiser, che alla fine degli anni ’70 individuò nella riduzione dell’intrusività il futuro delle infrastrutture informative (cfr. Greenfield, 2006); dell’ambient intelligence, che mira ad incorporare nell’ambiente diffuso, appunto, la capacità di comunicazione; dell’Internet of Things, che è una sorta di “etichetta” alternativa alle prime due, e che consiste nell’applicazione dell’architettura acefala e distribuita di Internet non solo ai computer o ai cellulari, ma ad oggetti d’uso quotidiano (cfr. ITU, 2005).
Ad ispirare il principio dell’ubiquitous computing, nelle parole di designer e ricercatori intervistati nel corso di una ricerca sul tema della mobilità (cfr. Pellegrino, 2009a) è la volontà di separare la disponibilità dell’informazione digitale dal singolo artefatto, così da rendere l’utente in grado di organizzare nella maniera più personale le proprie risorse informative, i propri artefatti digitali.
“L’ubiquitous computing non è una tecnologia, ma un paradigma (…) significa liberarsi della dipendenza tra artefatti digitali e strumenti fisici” (R., dottorando, Università di Klagenfurt).
Queste infrastrutture implicano l’accurata progettazione di transizioni dal fisico al digitale, dalla materialità all’immaterialità, dalla visibilità all’invisibilità, “realtà miste (mixed realities) [che si configurino] come continuum tra spazi digitali e spazi reali” (R.).
Perché ciò sia possibile, “[devono esserci] molti oggetti capaci di connettersi tra di loro (…) La mobilità è molto importante nell’Ambient Intelligence perché gli oggetti devono essere interconnessi e mobili, devono “parlare” tra loro mentre sono in movimento, e non staticamente” (W., coordinatore di ricerca, Università di Klagenfurt).
Nel contesto di queste nuove infrastrutture, la casa assume il ruolo di “nodo” interconnesso, in cui le tecnologie d’uso quotidiano e della comunicazione automatizzano ed incorporano nuove routine, come nella casa “intelligente” progettata per essere fruita da utenti disabili (…..).
In questo senso, il confine “dentro-fuori”(casa) perde, dal punto di vista tecnologico, il carattere fortemente distintivo che lo caratterizzava prima dello sviluppo di tecnologie per la mobilità dell’informazione e di infrastrutture pervasive, fase in cui la casa passa da centro della privatizzazione mobile a nodo della mobilità pervasiva.
3. La porosità dei confini: domesticità mobile ed esposizione
dell’intimità
Il processo che porta alla definizione e ristrutturazione dei confini è un oggetto sociologicamente rilevante, tanto più nella società contemporanea, la cui cifra costitutiva sembra essere quella della mobilità come spostamento, trasformazione, movimento.
Tracciare confini consiste di un’operazione cognitiva, sociale e culturale, che si rivela funzionale alla distinzione (Cella, 2006); nel caso della domesticità tecnologizzata, la distinzione tra la casa come sede delle relazioni private ed intime, non accessibili al pubblico, e il fuori casa come ambito della realizzazione di identità pubbliche performative, risulta sempre più labile.
Da un lato, la domesticità si estende al di fuori delle pareti della casa, attraverso gli apparati mobili e portatili che consentono di mantenere relazioni di familiarità con parenti e amici, ma anche di “alleggerire” e selezionare le memorie significative che accompagnano le routine quotidiane (Buffardi, Isabella e Jedlowski, 2010). Il cellulare diventa punto di riferimento e di rintracciabilità anche nell’immobilità della casa, svolgendo sempre più le funzioni di numero unico e sostituendo il numero “fisso”.
Dall’altro lato, l’esposizione volontaria (ma non per questo consapevole) del privato al di fuori della casa o della casa stessa come spazio e come luogo, rivela una trasformazione quasi violenta dell’intimità domestica e delle routine quotidiane, in quanto oggetto da esibire e scambiare in pubblico. Gli esempi, dai social networking sites ai reality televisivi, alle webcam piazzate nelle proprie case, abbondano. I confini si erodono, si spostano, si sovrappongono.
L’indebolimento di soglie considerate prima invalicabili, la disseminazione delle pratiche di sorveglianza in una molteplicità di dispositivi e infrastrutture distribuite e convergenti ad un tempo (cfr. Pellegrino, 2009b) rendono la casa più simile ad una maglia nella rete che ad un’unità autosufficiente, configurando la domesticità come l’esito di processi condotti anche e soprattutto al di fuori delle pareti domestiche, sempre più sottili e permeabili agli echi e alle interconnessioni di complesse infrastrutture distribuite su vasta scala (da Internet agli elettrodomestici di ultima generazione).
Conclusione
Briggs e Burke dichiarano, in conclusione della loro “Storia sociale dei media”, che “di rado i pionieri dei nuovi media si sono preoccupati del lungo periodo, una prospettiva che adesso tocca agli storici – più che ai futurologi – fornire” (Briggs e Burke, 2007, p. 396).
E’ pur vero che la storia dei media e della tecnologia è ispirata da empiti visionari tradotti in discorsi pubblici più o meno obsolescenti ed immaginifici, veicolati dai mass media tanto quanto dalla letteratura, e considerati parte integrante dell’immaginario tecnologico (cfr. Flichy, 1996). Anche sul ruolo della casa e sul rapporto tra pubblico e privato si possono rintracciare visioni parzialmente contraddittorie, in cui l’ambiente domestico torna ad essere anche luogo di lavoro, come nel telelavoro domestico in auge negli anni ’90; o una mera appendice di reti e infrastrutture in cui la comunicazione tra gli oggetti diventa predominante, come nell’Internet of Things, o nell’Ambient Intelligence.
Ciò che muta non sono soltanto i confini informativi e comunicativi della casa e la sua densità tecnologica, ma le relazioni che con e in essa si intrattengono, la scena e il retroscena nella complessa ibridazione tra pubblico e privato, le transizioni, zone grigie ancora non ben identificate ma già, potenzialmente, sature di tecnologia.
Ciò che non muta, tuttavia, è il bisogno di addomesticare il mondo, di sentirsi a casa, di orientarsi e abitare paesaggi in cui le infrastrutture governano, con le loro classificazioni nascoste (Bowker e Star, 2000), i nostri gesti e le nostre abitudini, dentro e fuori le pareti domestiche.
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