Quei lavoratori senza progetti, cui sarcasticamente si allude nel titolo, debbono essere sempre pronti ad un nuovo incarico (non a caso si parla di missione), capaci di immaginarsi in nuove attività, plastici e performanti; traggono la loro motivazione e un’improbabile compensazione in un’impiegabilità, sempre revocabile e provvisoria, che trasforma il lavoro in una ricerca trobadorica, in un percorso spirituale. La possibilità di accedere ad un’occupazione è vincolata a un continuo rimodellamento della proprie caratteristiche, attitudini, abilità, con un dispendio di risorse, materiali e simboliche, che supera ampiamente la riorganizzazione di tempi e spazi di vita in funzione della produttività imposta dal fordismo, o l’iperidentificazione con il proprio lavoro nel senso weberiano del sentirsi vocati a ciò che si fa.
Nel contesto di analisi delle condizioni di lavoro nell’era della conoscenza e delle tecnologie digitali, il nostro contributo vuole mettere l’attenzione sulle rappresentazioni dei/lle knowledge workers sulla progressiva ridefinizione dell’esperienza corporea, in direzione della perdita di rapporto con il corpo concreto, a favore di un corpo astrattamente inteso. Il discorso si colloca nella logica del “capitalismo tecno-nichilista”, inteso come “un sistema che, sfruttando la sistematica separazione tra le funzioni e i significati, si è progressivamente affermato quale modello di riferimento nel corso degli ultimi decenni”. La domanda di ricerca che ci poniamo in questo contributo è: in qual modo la precarizzazione del lavoro modifica le percezioni dei soggetti, e nello specifico dei lavoratori e delle lavoratrici della conoscenza, nella relazione con il proprio corpo? Nel discutere tale questione, intendiamo concentrarci non solo sugli effetti, ma anche sui processi e sulle relazioni sociali in cui i soggetti – e in varie forme anche le loro esperienze corporee – sono coinvolte.
Partendo da alcune considerazioni antropologiche, che si riferiscono all'uomo come "narrativus" o "narrans" che dir si voglia, identificherei come condizione di benessere psicofisico il bisogno di vivere narrativamente, il bisogno cioè di biografia. Procederei poi a identificare come la medicina sia oggi spesso messa sotto accusa perché ha smarrito questa dimensione nell'eccesso di tecnologia e specializzazione. così si è creata un'estraneità tra medicina e salute in senso ampio. Procederei poi a rilevare come la posizione dell'uomo oggi venga resa frammentaria anche a livello lavorativo, impedendo il consolidarsi di biografie lineari- la precarietà sul lavoro costituirebbe come ulteriore attacco all'homo narrativus. In conclusione evidenzierei come recupero di salute "antropologica" implichi un modificarsi e della medicina e del lavoro.
Oggi la ricerca del posto “fisso” sembra essere il sogno irraggiungibile di molti giovani precari e la “flessibilità”, una parola d’ordine con cui si aspirava a riformare il mondo del lavoro e che tanto in voga sembrava essere negli anni ’90, è diventata sinonimo di incertezza, precarietà, se non addirittura sfruttamento. Ma c’era chi proprio nel lavoro che oggi definiremo precario, vedeva l’unica possibilità per restare libero dalle leggi di mercato e dai potenti poteri editoriali Newyorkesi. In questo articolo proviamo a gettare uno sguardo al mito letterario con cui, il rifiutare un posto fisso, significava rivendicare la propria libertà, un mito romantico certo, e sicuramente distante dalla realtà, ma che ha affascinato un’intera generazione di scrittori, poeti, musicisti. Da Jack London, passando attraverso la San Francisco Renaissance e la Beat Generation, fino ad arrivare al fenomeno della così detta generazione Hippy, il sogno americano sembrava essere quello di una frontiera mobile in cui, la strada, sembrava non avere mai fine.
Il tema della precarietà – sul piano lavorativo e su quello, correlato al primo, “esistenziale” – trova, in Italia, un primo momento di formulazione attorno alla metà degli anni Settanta. Si tratta innanzitutto di una formulazione, non esclusivamente sociologica né macroeconomica, ma direttamente politica, fermo restando che queste tre dimensioni non sono realmente separabili nel discorso marxista, che ha indubbiamente “tenuto a battesimo” l’emergenza della figura del precario, ed in particolar modo nella sua variante operaista che ha rappresentato un punto di riferimento incontestabile per i movimenti e le creazioni politiche da cui la Penisola è stata investita nel secondo dopoguerra.
Bisogno, diritto, bene commerciabile. La salute è anzitutto domanda, – in senso letterale perché consente di riflettere sui valori, l’equità e sulla direzione di una società – per traslato, perché alimenta un mercato in continua espansione, mettendo a dura prova le strutture assistenziali preesistenti, poco competitive, o addirittura anacronistiche per cui già si auspicava una seria ristrutturazione. Incapaci di supportare concretamente le assunzioni di principio che andavano nella direzione di uno sviluppo universalistico e solidaristico, le politiche sanitarie dei paesi occidentali hanno oscillato, negli ultimi sessant’anni fra la salvaguardia della salute diritto inviolabile e la promozione spregiudicata di un mercato troppo promettente per essere sottoposto a vincoli.
La mia sociologia è clinica, ha lo sguardo clinico, lo sguardo che si infila nelle pieghe dove si può osservare il malato sociale e il normale sociale. Malattia e normalità nel sociale sono equipollenti. La mia sociologia è il mio racconto che nasce dal sangue del mio cuore e dal sangue del cuore di colui o di colei o di coloro che osservo. È il racconto che vuole emozionare, commuovere, far riflettere, fermare un microsecondo il lettore\umanità muovendosi fra l’analisi, la passione, l’epica del cambiamento possibile. Ciò che sono sta lì nelle mille scintille dell’universo umano che osservo e che si riflettono nella struttura policroma del pensiero e dei suoi rimandi ad altri. Sono stufo dell’eterna e sterile liturgia dell’oggettività di una para-natura. Che solo lei sappia nutrire i pensieri e fondare il canone che rende infecondo il pensare con la generazione di pensieri che non osano perché inautentici e dunque disonesti. Non ci si può cristallizzare fra numeri e numeretti - che poi mica tanto sono conosciuti – ma val la pena emozionare. L’emozione domina l’occhio e fa aprire il pensiero e lo rigenera e il sangue ritorna al cuore. Così dico, comunico, comunichiamo con gli Altri e la natura è strumento. La mia sociologia nasce dal cuore e a esso ritorna. Se riesco attrarre è tutto. Il resto è mestizia e malinconia. Qualcuno dirà che non è sociologia ma malinconia. Io dico che è sociologia che osa.
Storie di ordinaria precarietà, di un quotidiano disagio in mezzo al guado dell'esistenza fra pesanti limiti e indeterminatezza. Dove si va e dove si arriva fra mille tormenti esistenziali, punti interrogativi e dubbi, pesanti dubbi, mentre per taluni è più importante apparire, rispetto all'essere? Si può diventare ombra di sé stessi o fingersi quello che non si è a volte per sopravvivere, per raccontarsela, per fingere che tutto possa andare avanti, comunque. Banali considerazioni, deja vù, espressioni anche trite dell'ordinaria quotidianità perché è un sentire comune la difficoltà dell'esistere, del mantenere con dignità un posto di lavoro, solo quello, senza sperare in un miglioramento economico impensabile a meno che non si vinca alla lotteria o al gratta e vinci.
Non è facile parlare di lavoro in modo oggettivo, soprattutto se si parla del proprio e in un momento storico così critico a livello economico. Quando mi è stato chiesto se volevo dare un mio contributo a questo numero di Magma ho accettato per due motivi piuttosto istintivi: il primo è che, seppur in modo trasversale, ho vissuto e percepito la precarietà, e in poco meno di un anno la qualità della mia vita è peggiorata in relazione alla situazione che si era venuta a creare sul posto di lavoro, e per questo sento l’argomento vicino. Il secondo motivo, in parte conseguenza del primo, è che mi piacerebbe se questo mio contributo potesse essere d’aiuto a chi sta vivendo problemi legati al lavoro simili ai miei, e magari da alcune riflessioni cui sono arrivato dopo la mia personale esperienza possa trovare uno o più spunti per provare a risolvere le difficoltà che vive a causa del lavoro.
Il seguente articolo prende le mosse dal progetto di ricerca “Migrazione e Salute”, ovvero un monitoraggio sul sistema di accoglienza verso la popolazione immigrata dei servizi sanitari e la verifica dell’osservanza del diritto alla salute di queste popolazioni. Per comprendere meglio la situazione il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali ha promosso e finanziato questo progetto, con la responsabilità scientifica e il coordinamento dell’Istituto Superiore di Sanità, e attraverso la partecipazione di diversi enti tra cui Labos – Fondazione Laboratorio per le Politiche Sociali. Il prodotto che in questa sede intendo presentare, è caratterizzato sulle condizioni di lavoro che modificano il rapporto del singolo con il proprio corpo; prendendo in considerazione gli immigrati e il loro stato di salute e tutte le privazioni che questo gli comporta. Indagando, poi, sulla povertà relativa che genera una precarietà che si traduce nella mancata soddisfazione dei bisogni primari: l'immiserimento rispetto alle esigenze quotidiane e l’esclusione dai riti sociali.
Il problema della rappresentanza dei lavoratori atipici può essere affrontato da diverse prospettive. Lo si può fare analizzandolo dal punto di vista del sindacato , dal punto di vista dei lavoratori o infine dal punto di vista dell’impresa. Gli attori sociali che entrano in gioco in questa analisi sono appunto tre: il sindacato, i lavoratori atipici e l’impresa. Quello che segue è un tentativo di argomentare il problema della rappresentanza sindacale dei lavoratori atipici centrando il focus dell’analisi sui lavoratori e sui motivi che li spingono a decidere se aderire o no al sindacato.
Gli autori considerano in questo articolo la figura degli operatori di Call Center, riscattando storie di ordinaria precarietà rispetto alla problematicità di un’occupazione professionalmente debole, al fine di valorizzare risorse e conoscenze invisibili. Il testo è il frutto di un confronto e di un costruttivo scambio di idee ed esperienze, sollecitato da una collaborazione intergenerazionale e dall’interazione tra due esperti senior e junior con competenze di tipo sociologico e nelle scienze dell’educazione e della formazione. Il mito di Proteo ci è sembrato indubbiamente appropriato, riflettendo sull’operatore di Call Center come figura simbolica dell’alienazione del terzo millennio, per mettere in risalto quelle conoscenze e responsabilità che l’esperienza lavorativa quotidiana genera, trasformando identità professionali ed intimando un rinnovamento dei processi organizzativi e della formazione professionale. E’ questa la prima riflessione che proponiamo all’attenzione dei lettori per considerare la figura dell’operatore di Call Center.
Che la formazione del soggetto, come singolo essere umano inserito in una molteplicità di relazioni sociali, sia legata all'attività lavorativa è storicamente un’evidenza, ma negli ultimi trenta anni è emerso un fenomeno che al tempo stesso amplifica e rovescia tale dinamica. Per un verso infatti non si può negare il ruolo formatore di soggettività che la diversificazione dei ruoli lavorativi detiene ancora oggi, ma il mutamento – in termini estensivi e inglobanti – del rapporto tra tempo produttivo e tempo improduttivo giunge a istituire un piano di esistenza le cui coordinate dipendono direttamente dalle variabili che il mondo del lavoro esibisce. In altre parole, se oggi sembra realizzarsi una precarizzazione della vita a partire dalla precarizzazione del lavoro, ciò non è dovuto solamente alle condizioni socioeconomiche che un determinato impiego può offrire, ma essenzialmente al fatto che “la vita stessa è stata messa al lavoro”, nel senso che nessun aspetto dell’esistenza sfugge alla dimensione produttiva. Indagare il peso che il rapporto tra vita e lavoro esprime nella formazione di soggettività è allora l'obiettivo di questo contributo, teso alla ricerca di strumenti concettuali idonei a esplorare il significato della precarietà e orientare possibili percorsi di “resistenza”.
Roberta Cavicchioli e Andrea Pietrantoni
Quei lavoratori senza progetti, cui sarcasticamente si allude nel titolo, debbono essere sempre pronti ad un nuovo incarico (non a caso si parla di missione), capaci di immaginarsi in nuove attività, plastici e performanti; traggono la loro motivazione e un’improbabile compensazione in un’impiegabilità, sempre revocabile e provvisoria, che trasforma il lavoro in una ricerca trobadorica, in un percorso spirituale. La possibilità di accedere ad un’occupazione è vincolata a un continuo rimodellamento della proprie caratteristiche, attitudini, abilità, con un dispendio di risorse, materiali e simboliche, che supera ampiamente la riorganizzazione di tempi e spazi di vita in funzione della produttività imposta dal fordismo, o l’iperidentificazione con il proprio lavoro nel senso weberiano del sentirsi vocati a ciò che si fa.
Emilia Armano e Annalisa Murgia
Nel contesto di analisi delle condizioni di lavoro nell’era della conoscenza e delle tecnologie digitali, il nostro contributo vuole mettere l’attenzione sulle rappresentazioni dei/lle knowledge workers sulla progressiva ridefinizione dell’esperienza corporea, in direzione della perdita di rapporto con il corpo concreto, a favore di un corpo astrattamente inteso. Il discorso si colloca nella logica del “capitalismo tecno-nichilista”, inteso come “un sistema che, sfruttando la sistematica separazione tra le funzioni e i significati, si è progressivamente affermato quale modello di riferimento nel corso degli ultimi decenni”. La domanda di ricerca che ci poniamo in questo contributo è: in qual modo la precarizzazione del lavoro modifica le percezioni dei soggetti, e nello specifico dei lavoratori e delle lavoratrici della conoscenza, nella relazione con il proprio corpo? Nel discutere tale questione, intendiamo concentrarci non solo sugli effetti, ma anche sui processi e sulle relazioni sociali in cui i soggetti – e in varie forme anche le loro esperienze corporee – sono coinvolte.
Gloria Bardi
Partendo da alcune considerazioni antropologiche, che si riferiscono all'uomo come "narrativus" o "narrans" che dir si voglia, identificherei come condizione di benessere psicofisico il bisogno di vivere narrativamente, il bisogno cioè di biografia. Procederei poi a identificare come la medicina sia oggi spesso messa sotto accusa perché ha smarrito questa dimensione nell'eccesso di tecnologia e specializzazione. così si è creata un'estraneità tra medicina e salute in senso ampio. Procederei poi a rilevare come la posizione dell'uomo oggi venga resa frammentaria anche a livello lavorativo, impedendo il consolidarsi di biografie lineari- la precarietà sul lavoro costituirebbe come ulteriore attacco all'homo narrativus. In conclusione evidenzierei come recupero di salute "antropologica" implichi un modificarsi e della medicina e del lavoro.
Antonio Casillo
Oggi la ricerca del posto “fisso” sembra essere il sogno irraggiungibile di molti giovani precari e la “flessibilità”, una parola d’ordine con cui si aspirava a riformare il mondo del lavoro e che tanto in voga sembrava essere negli anni ’90, è diventata sinonimo di incertezza, precarietà, se non addirittura sfruttamento. Ma c’era chi proprio nel lavoro che oggi definiremo precario, vedeva l’unica possibilità per restare libero dalle leggi di mercato e dai potenti poteri editoriali Newyorkesi. In questo articolo proviamo a gettare uno sguardo al mito letterario con cui, il rifiutare un posto fisso, significava rivendicare la propria libertà, un mito romantico certo, e sicuramente distante dalla realtà, ma che ha affascinato un’intera generazione di scrittori, poeti, musicisti. Da Jack London, passando attraverso la San Francisco Renaissance e la Beat Generation, fino ad arrivare al fenomeno della così detta generazione Hippy, il sogno americano sembrava essere quello di una frontiera mobile in cui, la strada, sembrava non avere mai fine.
Andrea Cavazzini
Il tema della precarietà – sul piano lavorativo e su quello, correlato al primo, “esistenziale” – trova, in Italia, un primo momento di formulazione attorno alla metà degli anni Settanta. Si tratta innanzitutto di una formulazione, non esclusivamente sociologica né macroeconomica, ma direttamente politica, fermo restando che queste tre dimensioni non sono realmente separabili nel discorso marxista, che ha indubbiamente “tenuto a battesimo” l’emergenza della figura del precario, ed in particolar modo nella sua variante operaista che ha rappresentato un punto di riferimento incontestabile per i movimenti e le creazioni politiche da cui la Penisola è stata investita nel secondo dopoguerra.
Roberta Cavicchioli
Bisogno, diritto, bene commerciabile. La salute è anzitutto domanda, – in senso letterale perché consente di riflettere sui valori, l’equità e sulla direzione di una società – per traslato, perché alimenta un mercato in continua espansione, mettendo a dura prova le strutture assistenziali preesistenti, poco competitive, o addirittura anacronistiche per cui già si auspicava una seria ristrutturazione. Incapaci di supportare concretamente le assunzioni di principio che andavano nella direzione di uno sviluppo universalistico e solidaristico, le politiche sanitarie dei paesi occidentali hanno oscillato, negli ultimi sessant’anni fra la salvaguardia della salute diritto inviolabile e la promozione spregiudicata di un mercato troppo promettente per essere sottoposto a vincoli.
Augusto Debernardi
La mia sociologia è clinica, ha lo sguardo clinico, lo sguardo che si infila nelle pieghe dove si può osservare il malato sociale e il normale sociale. Malattia e normalità nel sociale sono equipollenti. La mia sociologia è il mio racconto che nasce dal sangue del mio cuore e dal sangue del cuore di colui o di colei o di coloro che osservo. È il racconto che vuole emozionare, commuovere, far riflettere, fermare un microsecondo il lettore\umanità muovendosi fra l’analisi, la passione, l’epica del cambiamento possibile. Ciò che sono sta lì nelle mille scintille dell’universo umano che osservo e che si riflettono nella struttura policroma del pensiero e dei suoi rimandi ad altri. Sono stufo dell’eterna e sterile liturgia dell’oggettività di una para-natura. Che solo lei sappia nutrire i pensieri e fondare il canone che rende infecondo il pensare con la generazione di pensieri che non osano perché inautentici e dunque disonesti. Non ci si può cristallizzare fra numeri e numeretti - che poi mica tanto sono conosciuti – ma val la pena emozionare. L’emozione domina l’occhio e fa aprire il pensiero e lo rigenera e il sangue ritorna al cuore. Così dico, comunico, comunichiamo con gli Altri e la natura è strumento. La mia sociologia nasce dal cuore e a esso ritorna. Se riesco attrarre è tutto. Il resto è mestizia e malinconia. Qualcuno dirà che non è sociologia ma malinconia. Io dico che è sociologia che osa.
Maria Cristina Ferrarazzo
Storie di ordinaria precarietà, di un quotidiano disagio in mezzo al guado dell'esistenza fra pesanti limiti e indeterminatezza. Dove si va e dove si arriva fra mille tormenti esistenziali, punti interrogativi e dubbi, pesanti dubbi, mentre per taluni è più importante apparire, rispetto all'essere? Si può diventare ombra di sé stessi o fingersi quello che non si è a volte per sopravvivere, per raccontarsela, per fingere che tutto possa andare avanti, comunque. Banali considerazioni, deja vù, espressioni anche trite dell'ordinaria quotidianità perché è un sentire comune la difficoltà dell'esistere, del mantenere con dignità un posto di lavoro, solo quello, senza sperare in un miglioramento economico impensabile a meno che non si vinca alla lotteria o al gratta e vinci.
Simone Ortolani
Non è facile parlare di lavoro in modo oggettivo, soprattutto se si parla del proprio e in un momento storico così critico a livello economico. Quando mi è stato chiesto se volevo dare un mio contributo a questo numero di Magma ho accettato per due motivi piuttosto istintivi: il primo è che, seppur in modo trasversale, ho vissuto e percepito la precarietà, e in poco meno di un anno la qualità della mia vita è peggiorata in relazione alla situazione che si era venuta a creare sul posto di lavoro, e per questo sento l’argomento vicino. Il secondo motivo, in parte conseguenza del primo, è che mi piacerebbe se questo mio contributo potesse essere d’aiuto a chi sta vivendo problemi legati al lavoro simili ai miei, e magari da alcune riflessioni cui sono arrivato dopo la mia personale esperienza possa trovare uno o più spunti per provare a risolvere le difficoltà che vive a causa del lavoro.
Marco Pasini
Il seguente articolo prende le mosse dal progetto di ricerca “Migrazione e Salute”, ovvero un monitoraggio sul sistema di accoglienza verso la popolazione immigrata dei servizi sanitari e la verifica dell’osservanza del diritto alla salute di queste popolazioni. Per comprendere meglio la situazione il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali ha promosso e finanziato questo progetto, con la responsabilità scientifica e il coordinamento dell’Istituto Superiore di Sanità, e attraverso la partecipazione di diversi enti tra cui Labos – Fondazione Laboratorio per le Politiche Sociali. Il prodotto che in questa sede intendo presentare, è caratterizzato sulle condizioni di lavoro che modificano il rapporto del singolo con il proprio corpo; prendendo in considerazione gli immigrati e il loro stato di salute e tutte le privazioni che questo gli comporta. Indagando, poi, sulla povertà relativa che genera una precarietà che si traduce nella mancata soddisfazione dei bisogni primari: l'immiserimento rispetto alle esigenze quotidiane e l’esclusione dai riti sociali.
Andrea Pietrantoni
Il problema della rappresentanza dei lavoratori atipici può essere affrontato da diverse prospettive. Lo si può fare analizzandolo dal punto di vista del sindacato , dal punto di vista dei lavoratori o infine dal punto di vista dell’impresa. Gli attori sociali che entrano in gioco in questa analisi sono appunto tre: il sindacato, i lavoratori atipici e l’impresa. Quello che segue è un tentativo di argomentare il problema della rappresentanza sindacale dei lavoratori atipici centrando il focus dell’analisi sui lavoratori e sui motivi che li spingono a decidere se aderire o no al sindacato.
Orazio Maria Valastro e Vincenzo Gentile
Gli autori considerano in questo articolo la figura degli operatori di Call Center, riscattando storie di ordinaria precarietà rispetto alla problematicità di un’occupazione professionalmente debole, al fine di valorizzare risorse e conoscenze invisibili. Il testo è il frutto di un confronto e di un costruttivo scambio di idee ed esperienze, sollecitato da una collaborazione intergenerazionale e dall’interazione tra due esperti senior e junior con competenze di tipo sociologico e nelle scienze dell’educazione e della formazione. Il mito di Proteo ci è sembrato indubbiamente appropriato, riflettendo sull’operatore di Call Center come figura simbolica dell’alienazione del terzo millennio, per mettere in risalto quelle conoscenze e responsabilità che l’esperienza lavorativa quotidiana genera, trasformando identità professionali ed intimando un rinnovamento dei processi organizzativi e della formazione professionale. E’ questa la prima riflessione che proponiamo all’attenzione dei lettori per considerare la figura dell’operatore di Call Center.
Paolo Vignola
Che la formazione del soggetto, come singolo essere umano inserito in una molteplicità di relazioni sociali, sia legata all'attività lavorativa è storicamente un’evidenza, ma negli ultimi trenta anni è emerso un fenomeno che al tempo stesso amplifica e rovescia tale dinamica. Per un verso infatti non si può negare il ruolo formatore di soggettività che la diversificazione dei ruoli lavorativi detiene ancora oggi, ma il mutamento – in termini estensivi e inglobanti – del rapporto tra tempo produttivo e tempo improduttivo giunge a istituire un piano di esistenza le cui coordinate dipendono direttamente dalle variabili che il mondo del lavoro esibisce. In altre parole, se oggi sembra realizzarsi una precarizzazione della vita a partire dalla precarizzazione del lavoro, ciò non è dovuto solamente alle condizioni socioeconomiche che un determinato impiego può offrire, ma essenzialmente al fatto che “la vita stessa è stata messa al lavoro”, nel senso che nessun aspetto dell’esistenza sfugge alla dimensione produttiva. Indagare il peso che il rapporto tra vita e lavoro esprime nella formazione di soggettività è allora l'obiettivo di questo contributo, teso alla ricerca di strumenti concettuali idonei a esplorare il significato della precarietà e orientare possibili percorsi di “resistenza”.