La somatizzazione della precarietà
Roberta Cavicchioli e Andrea Pietrantoni (a cura di)
M@gm@ vol.9 n.2 Maggio-Agosto 2011
LA PERCEZIONE DELLA PRECARIETÀ IN UN RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO
Simone Ortolani
simone.ortolani@yahoo.it
Laureato in Economia e Commercio. Pubblicista e giornalista economico. Da diversi anni, collabora con un'associazione datoriale per la quale segue le relazioni sindacali e, attualmente, il settore formazione.
Non è facile parlare di lavoro in modo oggettivo, soprattutto
se si parla del proprio e in un momento storico così critico a livello
economico. Quando mi è stato chiesto se volevo dare un mio contributo
a questo numero di Magma ho accettato per due motivi piuttosto istintivi:
il primo è che, seppur in modo trasversale, ho vissuto e percepito la
precarietà, e in poco meno di un anno la qualità della mia vita è peggiorata
in relazione alla situazione che si era venuta a creare sul posto di lavoro,
e per questo sento l’argomento vicino. Il secondo motivo, in parte conseguenza
del primo, è che mi piacerebbe se questo mio contributo potesse essere
d’aiuto a chi sta vivendo problemi legati al lavoro simili ai miei, e
magari da alcune riflessioni cui sono arrivato dopo la mia personale esperienza
possa trovare uno o più spunti per provare a risolvere le difficoltà che
vive a causa del lavoro. Voglio anche sottolineare un altro aspetto prima
di entrare nel merito della vicenda: non sono un teorico dei fenomeni
sociali ed economici, e non ho l’ambizione di raccontare un’esperienza
teorizzando la realtà. L’ultimo anno lavorativo, però, mi ha insegnato
quanto la condivisione di problemi complessi e la condivisione del sapere
rappresenti ancora oggi l’ancora di salvezza per molti problemi della
nostra vita. Non ultimo, il lavoro. Voglio fare un’altra, e ultima, premessa
aggiuntiva: quello che sto per raccontare è per me ad oggi fortunatamente
solo un brutto ricordo, perché ho nel frattempo cambiato lavoro. Nell’ottica
di questo piccolo mio contributo, quindi, questo è sicuramente un beneficio
perché credo che mi permetta di analizzare gli eventi che ho vissuto in
modo oggettivo. In ottica personale, invece, posso dire che cambiare lavoro
mi ha parzialmente reso quella serenità che la situazione difficile in
cui mi sono trovato mi aveva tolto.
Trovare e cambiare lavoro in Italia oggi è difficile. La difficoltà in
questo senso si potrebbe misurare a svariati livelli e con molteplici
dati, ma credo due semplici parametri economici siano sufficienti ad evidenziare
la nostra situazione: i salari reali, il cui livello negli ultimi anni
in Italia tende sempre più a diminuire [1],
e la curva della domanda di lavoro che, in un mercato sempre
più complesso come quello globale, tende a scendere anch’essa in misura
inversamente proporzionale alla specializzazione e alla seniority
che si può offrire sul mercato. In altre parole, oggi chi non possiede
competenze specifiche e non ha esperienza lavorativa pregressa, si ritrova
in uno dei periodi storici forse più difficili di sempre per poter trovare
un’occupazione. Mettendo insieme questi due semplici parametri economici
al caso italiano, il livello dei salari reali tra i più bassi in Europa,
e la curva decrescente della domanda di lavoro in relazione alle proprie
competenze specifiche, si può capire come, per le condizioni che si è
costretti ad accettare, trovare o cambiare un lavoro oggi in Italia è
difficile, molto difficile.
Arrivando alla mia storia personale, posso dire che gli studi universitari
mi avevano fornito mezzi abbastanza efficaci per affacciarmi sul mercato
del lavoro, e la posizione lavorativa che avevo fino a qualche tempo fa
nel settore dei servizi per le imprese e consulenziale, era, con un termine
purtroppo largamente abusato, considerata “tranquilla”. Avevo raggiunto
un’assunzione a tempo indeterminato nel 2008 dopo due anni di rapporto
a progetto, e l’obiettivo raggiunto dell’assunzione mi aveva dato un’ulteriore
spinta a crescere nell’ambito di questa realtà lavorativa. In un anno,
però, tutto quello che ritenevo acquisito andò progressivamente, inesorabilmente
a sgretolarsi, pezzo dopo pezzo. Il cambiamento interno che stravolse
la mia ex realtà lavorativa, coincise con un cambio nella Direzione conseguente
ad una piccola “fusione” tra due micro realtà consulenziali e di servizi,
con un conseguente allargamento del personale e l’inserimento di una nuova
figura direzionale. Il nuovo assetto organizzativo nato da questa micro-fusione
vedeva così due responsabili direzionale affiancati in ruoli e compiti
attigui, e talvolta sovrapposti; e probabilmente, col senno di poi, non
delineati a sufficienza, e nell’arco di tre mesi l’organizzazione e l’organigramma
così impostati cominciarono a vacillare. Annoierei chiunque raccontando
quali e quante sfumature nella gestione del lavoro portarono alla situazione
di crisi, ma credo di poter dire senza sbagliarmi che fu il responsabile
della struttura entrante, il nuovo direttore “aggiunto”, complice un modo
di fare non trasparente, persuasivo, strisciante e ambiguamente suadente,
a riuscire a sgretolare progressivamente ciò che si era costruito fino
ad allora. A partire dal suo ingresso, iniziò infatti una guerra psicologica
strisciante e tediosa a chi non si dimostrava allineato alle sue scelte
e ai suoi modi di fare, o a chi, forse, semplicemente non gli andava a
genio.
La cosa però che mi rimase chiara per tutto il periodo in cui anch’io
iniziai ad essere “preso di mira” da questa persona, era che l’impegno
e il tempo che dedicavo al lavoro rimanevano invariati rispetto agli anni
precedenti. Ma questo non importava evidentemente. Iniziò infatti, subito
successivamente al suo ingresso, a portare avanti azioni di stress psicologico
come il togliere il saluto al mattino, lanciare battute malevole e mortificanti
per mettere in ridicolo il singolo. Dopo poco tre mesi dal suo ingresso,
così, l’altro Direttore, che mal sopportava le angherie e le maldicenze
del nuovo, si dimise. Il successivo passo fu breve: il nuovo direttore,
attraverso tali modi di fare insinuanti e melliflui, instillò un clima
di nervosismo pervasivo a cui nessuno sfuggiva. Col senno di poi, posso
affermare che tali strumenti di guerra psicologica s’instauravano sulla
capacità di far sentire il lavoratore non più autonomo, inabile a decidere
perché costantemente messo di fronte al margine di libertà con cui un
datore di lavoro può “giocare” sui propri dipendenti. In ultimo, far diventare
il lavoratore un dipendente, anche a livello psicologico. Questo, in sintesi,
è il quadro che crebbe all’interno della struttura in poco meno di un
anno, in un crescendo in cui, a poco a poco, ogni azione, ogni decisione,
ogni parola del singolo, non potevano più passare all’esterno senza il
beneplacito del direttore.
Mi sembra strano e irreale oggi guardare indietro e vedere come in poco
meno di sei mesi, arrivai personalmente a dubitare di poter fare ancora
un lavoro su cui avevo maturato un’esperienza di competenze triennale.
In questo quadro, un ex collega, una persona di una certa esperienza con
la tranquillità di chi poteva parlare senza preoccuparsi degli eventi,
amava ripetermi in ufficio “In questo momento, qui niente è più stabile
dell’instabilità, e niente è più certo dell’incertezza”. Devo ancora chiarirmi
se lo facesse per uno spirito di solidarietà o per un malcelato sadismo;
ma qualunque fossero i motivi, la situazione mi era comunque chiara, e
frasi di quel tipo non aggiungevano nulla. La situazione oltre tutto era
chiara come solo nelle strutture piccole e piccolissime può essere chiara,
dal momento che i risvolti congiunturali del lavoro, in positivo o negativo,
vengono vissuti senza diluirsi lungo più livelli gerarchici, ma vengono
vissuti in tempo reale. Inserito in questo quadro, è interessante un contributo
dal titolo “Flessibilità del lavoro e precarietà dei lavoratori in
Italia: analisi empiriche e proposte di policy”, di Fabio Berton,
Matteo Richiardi e Stefano Sacchi, che all’interno del loro breve saggio,
teorizzano quali quante possano essere le varie tipologie di flessibilità
che si possono venire a creare con delle premesse simili a quelle appena
raccontate. Ecco cosa dicono riguardo ai vari tipi di flessibilità:
- la flessibilità numerica, intesa come la capacità delle imprese
di adattare il volume della manodopera impiegata alle necessità contingenti;
– la flessibilità temporale, ovvero la possibilità di adattare
il normale orario di lavoro alle esigenze del lavoratore e del datore
di lavoro, in termini di numero complessivo di ore lavorate, della loro
distribuzione nel corso della settimana, del mese o dell’anno, nonché
della variabilità degli orari di ingresso e di uscita;
– la flessibilità retributiva, che fa riferimento alla possibilità
di adeguare il livello delle retribuzioni allo stato della domanda sul
mercato dei beni ed alla performance dei lavoratori e dell’impresa, di
contrattarne una parte a livello locale o aziendale e di erogare incentivi
alla produzione;
– la flessibilità funzionale, cioè la possibilità di fare ricorso
alla mobilità aziendale interna, ciò che richiede lavoratori in grado
di adattarsi rapidamente a nuove mansioni o funzioni; - la flessibilità
spaziale, ovvero la possibilità che la prestazione lavorativa venga svolta
in un luogo diverso da quello in cui ha sede l’impresa.
Di tali accezioni della flessibilità, nel mio caso specifico, la situazione
che ho vissuto mi portò ad essere flessibile in quasi tutte le accezioni
sopramenzionate. Fui costretto ad essere, o “diventare”, flessibile a
livello funzionale, spaziale, e retributivo.
Funzionale perché dovetti abbandonare progressivamente il mio vecchio
ruolo, spaziale perché dovetti accettare di non lavorare più nella mia
sede di lavoro prestabilita, quella ciò in cui ero previsto secondo contratto,
ma di recarmi in sedi distaccate senza il riconoscimento della condizione
da trasfertista. In ultimo, flessibile a livello retributivo, perché gli
stipendi, erogati in forma di assegni, venivano consegnati brevi manu
dal direttore, solo su esplicita e reiterata richiesta da parte dei dipendenti.
L’alternativa, quando tali novità venivano introdotte, era cambiare lavoro.
Questo, chiaramente, era l’unico messaggio che passava in modo trasparente
dal Direttore quando impartiva tali novità.
La mia esperienza che ho raccontato è terminata mesi fa con la ricerca
fortunatamente andata a frutto di un nuovo lavoro, in un periodo dove
cercare un nuovo lavoro poteva forse essere considerato un azzardo. Prima
di arrivare a questo ultimo salvifico passaggio, però, avevo fatto numerosi
“chiacchierate” con un amico, avvocato, per capire se ci fosse una soluzione
a tali comportamenti vessatori da parte di un datore di lavoro. Quello
che mi rispose, e che mi rimase impresso, fu che “Purtroppo sono situazioni
diffuse, per quanto sia difficile da credere, e non è facile “bloccare”
soggetti del genere. Io quello che ti consiglio, e consiglio a tutti coloro
che vivono situazioni del genere, è cercare un nuovo lavoro. Altre soluzioni
sono difficilissime da percorrere, e io onestamente non te le consiglio.”
Al di là della considerazione forse scontata, ho tratto la conclusione
che non si debba mai smettere di credere alle proprie potenzialità e competenze
in casi del genere, e quando la situazione diventa insopportabile, cercare
di usare la propria energia per trovare qualcosa di nuovo, piuttosto che
cercare di risolvere problemi che, purtroppo, in alcuni casi non hanno
soluzione logica e immediata.
Note
1] In un rapporto Eurispes riferito
al periodo 2000-2005 si può vedere come il livello dei salari reali in
Italia, e cioè espressi in termini di potere d’acquisto, sia tra i più
bassi in Europa.
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