La somatizzazione della precarietà
Roberta Cavicchioli e Andrea Pietrantoni (a cura di)
M@gm@ vol.9 n.2 Maggio-Agosto 2011
ANATOMIA DELLA PRECARIETÀ: STORIE DI VITA
Maria Cristina Ferrarazzo
mcf333@libero.it
Giurista e assistente sociale, ha scelto di operare nel mondo della comunicazione. Da giornalista politica e tenico di redazione ha collaborato e collabora con varie emittenti locali e testate.
Introduzione
Storie di ordinaria precarietà, di un quotidiano disagio in mezzo al guado dell'esistenza fra pesanti limiti e indeterminatezza. Dove si va e dove si arriva fra mille tormenti esistenziali, punti interrogativi e dubbi, pesanti dubbi, mentre per taluni è più importante apparire, rispetto all'essere? Si può diventare ombra di sé stessi o fingersi quello che non si è a volte per sopravvivere, per raccontarsela, per fingere che tutto possa andare avanti, comunque. Banali considerazioni, deja vù, espressioni anche trite dell'ordinaria quotidianità perché è un sentire comune la difficoltà dell'esistere, del mantenere con dignità un posto di lavoro, solo quello, senza sperare in un miglioramento economico impensabile a meno che non si vinca alla lotteria o al gratta e vinci.
Guardarsi alle spalle, altro che solidarietà del gruppo, stare attenti a chi ti sorride e poi ti può mettere i bastoni fra le ruote per soffiarti il posto, un posto anche da precario, da 800 euro al mese. Ecco il precario, uomo o donna che sia non ha importanza anche se quest'ultima avrà un trattamento salariale peggiore ,con il rischio di un licenziamento qualora intenda avere un bimbo. Intanto lei sa che il suo è un conto alla rovescia perché ha firmato in anticipo e in bianco la lettera delle sue dimissioni, obtorto collo, ma è così.
Si tratta di coloro, persone metropolitane del periodo postindustriale che raccolgono le briciole di ciò che fu il boom economico prima e poi delle varie bolle speculative, bolle di sapone che scoppiarono velocemente travolgendo peggio di uno tsunami intere economie, persone, situazioni e in realtà, a vari livelli, ognuno di noi. Nei racconti c'è vita vera, situazioni tatuate sulla pelle anche indurita di giovani e non solo che hanno deciso di imprimere un giorno, non a caso, una svolta mentre il resto del mondo fissa o non vede o non guarda, come spesso accade, ciò che si svolge nel tratto del quotidiano.
Chi perde il filo d'Arianna, chi non ha la forza di reagire, chi non riesce a vedere oltre il tunnel può cadere in depressione, perdere riferimenti, interessi, voglia di vivere. E lascia un silenzio plumbeo a modellare ciò che non si è svelato che non si conosce, che non si recupera nel vuoto, per assurdo, pieno di magma. C'è chi reagisce con un gran colpo di reni e vince la partita ma c'è anche chi non sa adattarsi per varie circostanze al cambiamento, allo sradicamento, all'espulsione dal mondo produttivo e non sa come fare per recuperare una parte di sé fondamentale. E ci sono i casi di chi sa riciclare la propria unicità adattandosi, cambiando pelle a seconda delle circostanze, apparendo irreprensibile impiegata e nel giro di breve tempo un'artista sui generis che sa giocare la partita delle emozioni e dei sentimenti preservando la parte creativa, come una piccola pianta da coltivare, accudire, seguire nella crescita.
Ci si imbatte nell'opportunista per dovere, colui che a tutti i costi vuole vincere una partita parziale ma importante,anzi, fondamentale per uscire dalle sabbie mobili. Sa vestirsi della circostanza, cavalca il modus operandi di chi gli sta di fronte, assume un atteggiamento camaleontico e ottiene quanto desidera. Sa fingere e mascherare tutto per proprio uso e consumo ma vive una doppia identità interna per preservare parti di sé, per non cedere alla tentazione di essere un automa come a volte capita. Essere snaturati, deprivati delle emozioni comporta l'incapacità di mantenere affettività, sensibilità e, a lungo andare, un equilibrato rapporto con gli altri e con sé stessi.
Sprazzi di vita in questi brevi racconti che snodano situazioni con enfasi, aggressività, risolutezza, paura, emozione, sentimenti, quelli che accompagnano molti di noi nel difficile cammino dell'esistenza. Il risultato è variabile, non prevedibile come ogni partita a scacchi che pone di fronte a situazioni impreviste o ad avversari impensabili.
Tre drammatiche e intense di vite «vissute» per il lavoro. Chi per realizzare proprie aspirazioni, chi per poter sopravvivere. Un’indiretta intervista con una parte del male di vivere fra incertezze, sentimenti spezzati e delusioni. I racconti, brevi, rappresentano un parziale spaccato di quella che è anche la frantumazione dell’essere umano di fronte a problemi personali, che non riesce a risolvere, da solo. Come può opporsi o intervenire su meccanismi operativi più grandi di lui, che ne fagocitano illusioni e speranze? C’è l’anziano operaio licenziato per esubero del personale che a 60 anni non sa come andare avanti. Si fa la conoscenza del giovane storico, lavoratore precario, totalmente disilluso. Ma c’è anche chi vuole il riscatto, studiando e lavorando.
Lo storico
«No, sono proprio una testa di cazzo!
Ho sprecato quattro anni della mia vita dietro ad una laurea che non serve a niente!...Mi chiedo come abbia potuto essere così coglione..e non avrò mai, sottolineo, MAI la possibilità di realizzare nulla...
Ma va a... ffanculo a tutti...»
Sì, avrebbe voluto proprio esternare dal profondo quell’aggressività dura, cruda, esacerbata dalle recenti sconfitte,Michele, laureato senza speranza, 26 anni inutili, come lui stesso sottolineava internamente.
Ma al colloquio che stava effettuando per poter entrare come commesso alla Feltrinelli della sua città, mascherò la rabbia e lo sconforto dietro ad sorriso stereotipato, di quelli incollati e fissati con puntine acuminate, ma apparentemente inermi, con quel discreto e pacato modo di “essere”che piace tanto ai selezionatori del personale, tanto a modo quanto indagatori superficialmente che spesso hanno l’impudicizia di concludere un incontro con la domanda tipo: ma lei, cosa vede? Il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno?
Risposta impossibile anche per uno non sprovveduto come Michele, vicoli e anfratti della sua Genova nel sangue come gli odori pesanti e raccapriccianti della vita che conosceva bene per essere un volontario di una “croce”,tracce di altre orme che ti segnano dentro anche se, con occhi disincantati, cerchi di allontanare dalla mente le impudiche e autodistruttive pene esistenziali di molti.
Sobbalzò solo internamente all’ovvietà di ciò che l’interlocutore si sarebbe aspettato lui dovesse dire...e l’altra parte di sé, quella studiata, incline alla lieve falsità, si preparò ad agire.
Come si fa a capire la vita? Di noi riusciamo a intuire qualche cosa? Ma poi cosa? Immagini, apparenze, frammenti di una coperta troppo stretta ...perchè la vita spesso può soffocare, annullare e distruggere, mentre passeggia sopra alle nostre anime, ammesso che alcuni l’abbiano?
«Pieno, senza dubbio pieno» rispose con un sorriso appena accennato e compiaciuto mentre la sua consapevolezza, da un lato gridava alla capacità di “fregare” il selezionatore e dall’altra si sarebbe presa a schiaffi , anzi avrebbe preso Michele stesso a calci nel sedere dicendogli sottovoce: «sei proprio un lecchino, per un posto di lavoro ma và ...mi fai schifo...».
Il dott. Rossi, il selezionatore, nel prendere appunti precari, fintamente o sul serio, rimase colpito dai modi e dalle capacità nervose di Michele, acuto, veloce, intelligente e guizzante, con una buona preparazione culturale, elemento quest’ultimo affatto secondario.
Guizzante?- si interrogò Michele, ma cosa voleva dire?
«...Sì lo so, si tratta della capacità di tirare fuori un ragno dal buco e di costruire con la tela la trama per la sopravvivenza...chiamasi anche mestiere di vivere», pensò fra sé con finta noncuranza aspettando le mosse finali dell’altro che, disteso, stava giungendo alla conclusione del colloquio.
Una stretta di mano vigorosa come da manuale,senza il minimo accenno alla tensione ed alla deprecata facilità di sudorazione, un ampio sorriso reciproco, come da copione, ed il cronometro che scatta nell’esatto momento in cui si esce da quella porta.
Mi chiamerà? Gli sarò piaciuto? E mentre chiudeva dietro di sé il possibile spiraglio dell’incontro, nel girarsi vide il resto della lunga coda di chi era ancora in attesa di prospettare il proprio curriculum vitae.
Facce strane, interlocutorie, alcune fissate dentro il display del cellulare a cercare conforto in improbabili sms, altre annoiate e lì perchè spinte dai genitori ad alzare il sedere per fare qualcosa, ma senza la minima convinzione.
Guadagnò l’uscita provando un’ambivalenza di sentimenti. Da un lato era felice di aver finito di subire quella piccola tortura ma dall’altro una vocetta interiore gli palesava che comunque quel posto, se ottenuto, sarebbe stato almeno l’inizio di un qualcosa e sentì, dentro, che lo avrebbe desiderato, sì, sul serio, nonostante tutto. E poi il profumo dei libri che lui amava tanto, sapeva restituirgli la piacevolezza di ricordi giovanili, quando con la cartella di cavallino andava alle elementari ed il suo sussidiario aveva subito gli assalti della penna stilo che nemmeno Forte Apache, avrebbe mai dovuto respingere in tutta la sua storia.
Passò una settimana con Michele sempre più convinto che non ce l’avrebbe fatta fra tanti e magari qualche raccomandato di troppo,poi una telefonata,un altro incontro liberatorio ed un sì. E la sua vita cambiò fra scaffali di libri, gente che parla anche a vanvera e chiede le informazioni impossibili, che scrocca la lettura, che fa salotto, che cerca di infilarsi in tasca i pocket, guadagnando l’uscita, indisturbato. Si rese conto che lì, in quel centro che ormai non è più solo una grande libreria, una parte del suo piccolo mondo infinito si era concretizzato. Non guadagnava molto ma si sentiva nel ruolo giusto per il momento, come sulla tolda di una imbarcazione a dare consigli, a sintonizzarsi con le richieste, ad ascoltare gli altri, perchè anche quello di un commesso di una libreria famosa o Mega Store,che dir si voglia,rappresenta un ruolo sociale importante.
Alle volte un libro può cambiare una vita come una piccola e rapida illuminazione, inconsueta e casuale, forse,ma mai abbastanza scontata, per farla in barba al destino.
Sum
Piangeva, il cielo piangeva sottili stille, uggiosamente riposte negli anfratti di cuori spezzati, che senza senso, si aggiravano plumbei, cercando ancora il rumore del loro tonfo pesante.
Penzolava quell’uomo, l’ennesimo che in un momento di tragico eroismo aveva deciso di strapparselo, il cuore ed il fiato. Silentemente, con una corda lunga e precisa ad incidere il definitivo tatuaggio violaceo, aveva oltrepassato la soglia, con decisione.
Non un parlare, non un accenno,un nulla che segna e solca nell’anima, per chi resta, il senso e l’evolversi del male di vivere.
Nessun biglietto, nessun addio, nessuna preghiera...Nulla, il nulla vischioso ed imperturbabile, assoluto ed ineffabile, a martellare le tempie.
Un corpo lasciato ondeggiare alla malasorte, in una macabra apparenza.
60 anni, ma non ancora pensionabile, era stato espulso dal lavoro come un quasi invisibile reietto: «sai, la nostra piccola azienda è in crisi...non possiamo andare avanti...cercati altro». Due occhi scuri ma di circostanza, avevano incontrato i suoi, smarriti e trafitti dalla notizia e si era paralizzato, incapace di reagire. Lo sapeva che l’azienda non andava a gonfie vele ma Piero, che da molti anni era lì,oramai “boccia” in pectore, non poteva accettare l’espulsione, l’allontanamento. Quella vita era parte della sua vita, del suo sangue, del suo essere, una propaggine di sé. E di colpo annientata da quattro parole in croce e da una raccomandata che aveva sancito la fine di un rapporto. Si era spezzato un equilibrio, per sempre.
Da giovane Piero, aveva manifestato la passione per gli infissi, sacralizzata ed approvata dalla carezza di sua madre con quella mano solida che con affetto,gli aveva tributato un grazie per la riparazione...«Oh Piero, sì che tu sei un ometto...quello spiffero maledetto se n’è andato». E gli aveva sorriso, guardandolo intensamente, con orgogliosa ammirazione.
Quel giorno lui si era sentito fiero e grande, felice di aver trovato un modo per essere.
Ma passarono alcuni anni prima che Piero potesse ottenere una regolare assunzione.
Ogni volta che si trovava in difficoltà sul lavoro il suo sguardo interiore ricordava quel sorriso soddisfatto di sua madre, donna grande e forte, pungente come le spine che aveva dovuto eliminare da una vita di modesta contadina. Se lo ricordava bene. In premio aveva ricevuto una dose aggiuntiva di castagne buttate sulla stufa a deflagrare simpaticamente come botti a capodanno.
Era dunque diventato un operaio specializzato, considerato preciso e molto serio. Uomo di poche parole, aveva ottenuto, grazie al suo lavoro, anche un certo riscatto sociale. Si era comprato una casetta, si era fatto la moto galletto prima e poi la macchina, una Fiat 600, ed infine, aveva sposato una solida donna di campagna, solida e forte come le montagne alle spalle della valle in cui viveva.
Da bambino, suo padre, rude contadino, con la testa avvizzita da sole e le spalle prosciugate dal lavoro dei campi, le scarpe ricucite e piene di terra, con l’animo e le mani incalliti dalla fatica, gli aveva detto in un giorno di giugno mentre il grano del campo ondeggiava nel sole potente che benediceva il raccolto: «Piero, ricordati...poche storie. Appena finite le scuole si lavora!».
Piero aveva in bocca una spiga di grano che rigirava fra i denti assaporando l’intensità del gusto indiretto della terra ed aveva capito.A suo padre si doveva ubbidire, punto e basta. E così era avvenuto. Non si sarebbe spezzato le reni fra i campi ma avrebbe preso la strada di molti, puntando su un lavoro da operaio.
E nel tempo aveva mostrato di essere in gamba, molto in gamba. Aveva saputo arredare con semplicità, la sua casetta, senza rinunciare alla stufa, al divano grande, al tavolo di legno con le sedie impagliate...alle foto dei suoi, in bianco e nero, nel giorno del loro matrimonio, a vegliare il suo futuro. Ed aveva preso per moglie un’altra donna solida e di sani principi, votata alla costruzione, giorno per giorno, di un futuro modesto ma migliore, tirando su due bravi ragazzi.
Penzolava, penzolava nel garage sotterraneo, il Piero e quando se ne accorsero i familiari,fra lo sconcerto generale, l’imbrunire aveva reso meno evidente lo smacco, allungando le ombre della sera, di una lunga sera legata anche a ricordi lontani.
Eppure...
Picta
C’è qualcosa che colpisce, passando e poi ti giri, ritorni indietro, perchè?
Non c’è una vera risposta o forse sì...se si crede alla forza magnetica delle rappresentazioni.
E Pia, donna solare di 45 anni è nei suoi quadri, in quello che con un tratto particolare sa esprimere in forme che cambiano al mutare della luce e dello sguardo che può fermarsi su un dettaglio o nella visione d’insieme... strano.
Ma non si può non essere catturati dal magnetismo di quanto dipinge, tratteggia, ti fa immaginare e realizza. Si potrebbe dire che il quadro che ottiene è per la persona che lo sentirà suo, ne farà un compagno di avventura fra meditazione, pensieri e silenzio, magari in una giornata estiva solare zeppa anche di brezza tiranna che strizza l’occhio alla potenza della natura.
C’è la vita, l’amore, le vibrazioni, l’essere, il tutto.
Va bene, ma di quadri ce ne sono molti e non è un caso unico, si potrebbe obiettare.
Vero!
Ma l’energia vitale di Pia è particolare, unica, e lei passa giornate intere sotto il sole per mostrare le sue opere come un’artista di strada, lei che comunque un lavoro lo ha come impiegata, anche se part-time, a causa dei tagli occupazionali. Arrotonda, se riesce, con la vendita delle sue opere.
Mani grandi e raggomitolate con un cuore ed un sorriso disarmante, sa essere accogliente come una madre di molti e legge dentro le persone. Conforta, rassicura e dona una parola, quella che spesso manca fra di noi, donne e uomini di questo mondo apparente, presi da mille affari, questioni, appuntamenti, noi che dimentichiamo l’importanza di comunicare emozioni, sentimenti, sensazioni, come i quadri che lei dipinge...
Manichini senza storia, disuniti e talora sguaiati, alle volte facciamo male agli altri solo per il gusto di una vendetta, per acquietare il dolore, quel dolore plumbeo che attanaglia e non dà pace perchè essa è leggera, lontana dall’affanno e dalla bramosia del successo, del denaro a tutti i costi, della forma perfetta, dell’impossibile.
E Pia, ai lati della promenade, cappellino da baseball calcato in testa sulle ventitrè, a fermare le ciocche dei suoi voluminosi capelli biondi, aspetta chi dovrà passare, con la pazienza del pescatore tranquillo, di chi sa debba essere così. Non si fa domande. Agisce e basta.
Persevera e, nel suo piccolo mondo, nel nido dell’anima, racconta di sguardi curiosi, di parole non dette, di sensazioni forti, alle volte appena accennate...
Anche Sgarbi l’ha notata, fra molti, proprio lei, che usa tinte gialle stranamente delineate e profili levigati come il mare tranquillo che si stempera, accompagnato da cieli tersi e vividi.
Un bambino si è fermato, incantato, rapito. Osserva il volo impreciso di gabbiani che salutano il tramonto del sole ancora forte e generoso.
Ma è nel quadro o nella realtà?
Nessuna risposta è necessaria, il piccolo ha capito e ricambia il sorriso.
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