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  • La somatizzazione della precarietà
    Roberta Cavicchioli e Andrea Pietrantoni (a cura di)

    M@gm@ vol.9 n.2 Maggio-Agosto 2011

    LA SALUTE PRECARIA: QUANDO DIVENTA TROPPO FACILE GUADAGNARE IN SALUTE

    Roberta Cavicchioli

    robertacavi@yahoo.it
    Storica delle idee e Antropologa; Osservatorio Lavoro Atipico presso OS; Dottorato di Ricerca in Filosofia, Storia del Pensiero Politico, presso l'Università degli Studi di Genova.

    Bisogno, diritto, bene commerciabile. La salute è anzitutto domanda, – in senso letterale perché consente di riflettere sui valori, l’equità e sulla direzione di una società – per traslato, perché alimenta un mercato in continua espansione, mettendo a dura prova le strutture assistenziali preesistenti, poco competitive, o addirittura anacronistiche per cui già si auspicava una seria ristrutturazione. Incapaci di supportare concretamente le assunzioni di principio che andavano nella direzione di uno sviluppo universalistico e solidaristico, le politiche sanitarie dei paesi occidentali hanno oscillato, negli ultimi sessant’anni fra la salvaguardia della salute diritto inviolabile e la promozione spregiudicata di un mercato troppo promettente per essere sottoposto a vincoli.

    L’imperativo della riduzione dei costi dell’assistenza ha fatto spostare l’ago della bilancia in direzione di un responsabilismo ipocrita che riporta in auge le riflessioni di Luc Boltanski sulla percezione della malattia da parte di coloro che vivono del qui e dell’ora, che sono per così dire, intrappolati in una rete di rapporti sociali ed economici improntati alla precarietà. I costi della regressione ad una concezione strumentale della salute sono tanto più elevati, quanto più pregiudicano la possibilità del singolo di mettere in atto misure preventive, con ricadute sociali evidenti; la creazione di un sistema sanitario a più velocità va a discapito della capacità di pianificazione delle grandi campagne per la Salute, che, a queste condizioni, si riducono ad un inutile carosello di intimidazioni e indicazioni morali.

    Progetto di vita e business, la ricerca ossessiva della salute individua il grand enjeu delle moderne liberal-democrazie, proprio quando gli oneri della prevenzione vengono palesemente demandati ai singoli individui. Con la devoluzione di tali oneri si afferma una mutata concezione dei doveri di cittadinanza, concepiti in termini biologici anziché politici, epidemiologici piuttosto che sociali. La delega fiduciaria fonda, infatti, una sorta di contratto sociale in cui la limitazione del rischio viene percepita come lo scopo supremo cui la comunità tenderà, la prevenzione verrà socializzata, i danni privatizzati. Ciò definisce uno scarto significativo fra una governance che si proponeva di regolare l’accesso alle risorse e la partecipazione dei singoli ad un sistema di diritti ed una che dispone l’esclusione dei soggetti su base biologica, negando loro lo statuto di esseri umani “normali” [1]. Dicotomia apparentemente risolta nella dialettica biomedica, quella di esclusione e inclusione permane come l’antinomia fondamentale che non trova soluzione nella possibilità meramente teorica di “abolire” il patologico e di espungerne le fastidiose epifanie dall’esistenza.

    Gli individui hanno assunto su di sé la duplice responsabilità che consegue all’integrazione delle prospettive somatica e genetica – la prevenzione non si concretizza più nell’astensione dai comportamenti ritenuti dannosi ma si esplica nell’acquisizione di cognizioni e di registri tecnici tali da permettere una costante auto-ispezione. In quanto indegni dello statuto di cittadini, i recidivi debbono essere sottoposti ad un controllo costante, con cui si intende arginare il rischio da essi rappresentato, sia in termini biologici che sociali; questa forma di inadempienza rappresenta un duplice costo per la collettività che chiede conto della dissipazione del “capitale umano” di cui si è stati cattivi custodi e per cui si domanda un soccorso tanto tardivo quanto esoso. Uniti in un mantra efficientista, i tre termini di prevenzione dei rischi, ottimizzazione delle performance e razionalizzazione delle risorse acquisiscono una valenza normativa nella misura in cui, superando le distinzioni fra pubblico e privato, fra lavoro e leisure, modificano gli stili di vita e cambiano il rapporto di ciascuno con l’esistenza.

    Più che ad un’ulteriore specificazione del dispositivo attivato per “mettere la vita al lavoro” ci troveremmo innanzi ad una mutata concezione dei diritti di cittadinanza disegnata attorno a specificità biologiche di cui i singoli si farebbero carico – è ciò che sostiene Nikolas Rose, che, elaborando criticamente il concetto di biosocialità, riflette sulle cause dell’obsolescenza di un paradigma di riproduzione sociale dei rapporti sociali tendenzialmente solidaristico e universalitico. La devoluzione libererebbe allora vaste fasce della popolazione dai vincoli di solidarietà, e, nel contempo, le abbandonerebbe alle alterne fortune delle proprie decisioni, incoraggiando atteggiamenti di insofferenza per quei doveri della vita associata che si fanno coincidere con la partecipazione politica: «La spoliticizzazione consiste nel pensare la società come una serie di gruppi capaci di far valere i propri interessi in modo immediato e come un insieme retto da uno stile di governo i loro diritti senza alcun impegno nella riforma dell’insieme collettivo di cui essi fanno parte.» [2]

    Gli stessi dispositivi che agiscono virtuosamente nella Corporation bene amministrata determinano un totale appiattimento nella società civile, proprio perché la pluralità degli interessi e dei bisogni presenti al suo interno può essere mutilata solo con la terrificante generalizzazione di un’insicurezza che, per dirla con Pierre Bordieu, tende a costringere i lavoratori alla sottomissione e all’accettazione dello sfruttamento [3]. Votate all’insuccesso a meno che non vengano poste sotto l’egida della forza, le strategie aziendali non portano a compimento l’improbabile composizione di ordine e libertà; applicata ad un settore delicato quale quello della salute, la razionalizzazione delle strutture rischia di distruggere senza costruire, nonché di restituire al contribuente un’assistenza più povera e meno umana.

    Del resto, l’erogazione dell’assistenza da parte della sanità pubblica o di privati che agivano per suo conto era sostenibile solo in virtù dell’accentramento delle risorse derivanti dallo scambio sinergico dello Stato nazionale e del sistema economico fordista. A partire dai tardi anni Ottanta, quando l’irradiazione della politica neo-liberista conquista le cittadelle dell’Occidente si registra un’inversione di tendenza, che culmina nello smantellamento delle strutture assistenziali e di controllo messe in campo dal potere centrale. Assistiamo, oggi, agli effetti di un fenomeno di privatizzazione realizzato tra le resistenze dei privilegi offesi e dei diritti calpestati, ma governato con scarsissima lungimiranza.

    In questo senso, la caratteristica saliente di una strategia coerente con l’assetto postfordista, consiste nel tentativo di allineare le condotte “morali” relative alla gestione della vita ai principi della razionalità economica. Le strategie volte a rendere “direttamente” responsabili sia gli individui sia gli aggregati, come le famiglie, i gruppi o le associazioni, fanno sì che la presa in carico dei rischi sociali, come la malattia, la disoccupazione o la povertà si trasformino nel problema della “cura di sé”, che gli individui devono accollarsi in prima persona per trasformarsi in imprenditori di se stessi [4].

    Promotori di una trasformazione che non hanno poi saputo dirigere con gli strumenti loro propri, gli stati nazionali si sono attrezzati per tagliare i costi dell’assistenza e trarre profitto da una voce passiva a bilancio – persino superando la loro resistenza ad operare in sinergia gli con altri soggetti attivi sul mercato per promuovere la ricerca e l’innovazione.

    Vediamo come la duplice ingerenza dei committenti privati e pubblici agisca una pressione insostenibile per gli operatori del settore e intervenga pesantemente a ridimensionare l’autonomia dell’attività di ricerca. A dispetto dell’irrigidirsi delle procedure di selezione dei contributi e del rigore epistemologico atteso dai ricercatori, le pressioni esercitati dai finanziatori sono tante e tali che, è arduo pensare che la valutazione non tenga conto delle ricadute di uno studio sull’andamento delle vendite di un prodotto o sulla scelta di un trattamento. Il sapere degli esperti è sempre più spesso chiamato in causa in arbitrati fra cittadini, istituzioni, grandi gruppi o per pronunciarsi sulla liceità di un indennizzo, una compensazione o un trattamento. Mano a mano che queste rivendicazioni vengono recepite in ambito politico, esse effettivamente ridefiniscono priorità, mobilitano fondi, trasformano relazioni sociali e vengono tradotti in mutamenti nella disponibilità delle risorse terapeutiche e delle compensazioni.

    Esposta a logiche commerciali, la divulgazione scientifica cessa di rappresentare il momento di condivisione dei risultati di una ricerca, il punto di articolazione fra un’attività riservata agli esperti e l’acquisizione di un patrimonio comune di conoscenza che ne fanno un bene pubblico globale. Se si può ancora sostenere che la distorsione prodotta dall'imperativo della redditività della ricerca non riduca drasticamente le possibilità di sperimentazione per ciascuno, è certo che la sovrapposizione della sfera economica e scientifica, di interesse e oggettività, complica enormemente il compito della nuova generazione di questi professionisti, che debbono far fronte ai vincoli del bilancio, più che con scontrarsi con l'impenetrabilità del reale [5].

    La permeabilità delle dimensioni di lavoro e conoscenza pone una pesante ipoteca su un “sapere” che deve necessariamente tradursi in un “saper fare”, in un produrre; una simile concezione dell’impresa scientifica sembra modellata da un consumismo miope che separa le “eccedenze” da ciò che può essere capitalizzato. Se, in qualche caso felice, l’eccedenza viene riscattata e incanalata verso un’operatività, nella generalità dei casi agisce come un filtro che riduce drasticamente la possibilità di uscire dal tracciato dei programmi di ricerca [6].

    L’accento posto sui fenomeni di appropriazione da parte dell’impresa economica dimenticano che, sino ai giorni nostri, l’investimento sulle potenzialità della ricerca- quello che ha concorso all’accelerazione delle biotecnologie- è stato effettuato conformemente alle ambizioni (e aberrazioni) degli stati nazionali.

    Da notare come in Buchanan, Brock, Daniels e Winkler, un pool di studiosi che da oltre un decennio anni si interroga sulle implicazioni della diffusione delle biotecnologie, trovino impensabile che una rinegoziazione dei valori messi in campo nella pratica terapeutica sopravviva alle esigenze del mercato. I servizi alla persona sono concepiti come prodotti, dunque senza riconoscere l’equità e la distribuzione dei costi e benefici come premessa fondamentale. In tal modo, la libertà di scelta diventa appannaggio di coloro che si possono permettere di esercitarla, ma è subita dagli altri. Forte in questi autori, che auspicano una nuova eugenetica non più particolaristica ed escludente, ma universalistica ed inclusiva, mirata cioè al miglioramento delle condizioni per il genere umano, la tensione assiologica con cui sottraggono il dibattito alla contrapposizione tra la prospettiva utilitaristico-consequenzialista degli entusiasti e all’argomento della slippery slope utilizzato principalmente dagli scettici di matrice cattolica [7].

    Come non osservare il carattere paradossale di un’industria scientifica che prolifera grazie all’esistenza di knowledgeable citizens, di un pubblico avvertito che reclama, conseguentemente, una partecipazione attiva consapevole all’impresa scientifica e risponde con un paternalismo cinico e segregante? Ciò esaspera quelle disuguaglianze, drammaticamente presenti già sul piano della fruizione dei benefici delle scoperte, allargando la forbice fra i pochissimi in grado di vagliare le informazione trasmesse e le masse di consumatori destinati al ruolo di amplificatori di sedicenti scoperte che pagheranno con l’inefficacia dei trattamenti. Ed è qui che si colloca la stessa contraddizione tra uno sviluppo irresistibile delle biotecnologie – capaci di intervenire in profondità sulla “materia vivente” e di condizionare le forme e i tempi della vita e della morte in termini finora inimmaginabili – e l’aspirazione, altrettanto irresistibile, dell’individuo contemporaneo all’autodeterminazione nelle scelte fondamentali.

    Ciò non è praticabile quando invalga una visione iper-liberistica del paziente/cliente che trova riscontro della drastica riduzione delle opzioni terapeutiche disponibili al cittadino; il sedicente risanamento economico – oggi ancora di là da venire – è passato attraverso la precarizzazione dei giovani medici e un'esternalizzazione dei servizi non sempre felice per gli utenti (ex-pazienti) [8]. Anche in ragione di questi fenomeni, ampiamente documentati, comincia ad affermarsi la consapevolezza che una riorganizzazione costruita attorno al mantra di “aziendalizzazione”, “management”, “efficienza” non scardini affatto le logiche di un’istituzione sanitaria paternalistica ed autoreferenziale.

    La compromissione di salute e mercato non si arresta né alle decisioni cruciali che riguardano la spesa pubblica nazionale e internazionale né alla faticosa composizione degli indirizzi della ricerca sanitaria con le pressioni del mercato, esiste un ulteriore campo di applicazione ove risulta particolarmente stridente la coabitazione di scienza e business: si tratta dell’attività del medico. Ultimo anello della catena di commercializzazione del farmaco, il medico è la cerniera fra produttore e consumatore, il testimonial volontario o involontario del ritrovato che prescriverà al suo assistito. Come osserva Raffaele Prodromo: «l’economia insegna che il medico svolge nel mercato sanitario un ruolo che non ha equivalenti in quello normale, in quanto conosce il mezzo necessario per conseguire il “bene” del paziente; nel momento in cui prescrive un farmaco o un esame, contemporaneamente compra per il suo paziente e vende per l’industria coprendo entrambe le parti dell’acquirente e del venditore.» [9] In questo senso, la quotidianità della clinica è il banco di prova della trasparenza di un mercato sanitario che influenza circolarmente le politiche di investimento dei governi e con cui si confrontano incessantemente gli Organismi Internazionali. L’incremento della spesa sanitaria nei paesi sviluppati ha incoraggiato riflessioni sull’utilizzo delle risorse esistenti da parte di una popolazione che continua a invecchiare e, pertanto, comporta un investimento cospicuo, anche solo per evitare un ulteriore scadimento del livello di vita [10]. Caplan ipotizza per gli Stati Uniti e per i paesi dell’Europa Settentrionale, un aumento della spesa capace di assorbirne l’intero prodotto lordo: che si tratti o meno di una previsione eccessivamente pessimistica, la prospettiva di una popolazione molto più anziana, con una significativa riduzione dell’autosufficienza desta più di una perplessità e interroga sull’attuale indirizzo della sanità pubblica. Assumendo vieppiù una struttura conica, l’assistenza ha dovuto modellare le sue previsioni di spesa sul un concetto di rischio portato al parossismo, ma il risk assessment è, per dirla con Paolo Vineis, un processo complesso, che coinvolge per definizione valori e interessi di una società o di un gruppo di individui, integrando la componente più oggettiva e scientifica, la valutazione quella soggettiva e politica dell’intera procedura [11].

    Si delineano, allora, più chiaramente, i rapporti fra capitale umano, capitale sociale e capitale economico, legati indissolubilmente in un progetto culturale, scientifico e politico che ha evidenti ripercussioni economiche non scevre di pericoli per la cittadinanza partecipativa.

    La volontà di “prevedere” e “limitare” il rischio è spesso all’origine di una discriminazione serpeggiante in cui si fondono moventi biologici e morali, acquisizioni scientifiche e pregiudizi atavici. Alle ragionerie zelanti delle strutture ospedaliere non possono sfuggire neppure quei rischi “invisibili” che appartengono alla nuova generazione delle minacce detectate dalla medicina scientifica, quali i virus e le malattie neurologiche: la constatazione di una complessità crescente accresce lo zelo semplificatorio e l’angoscia della certezza assoluta.

    Evocando il risk assessment il profano ha come termine di paragone immediatamente disponibile il modello assicurativo, in cui il contraente viene inserito in una precisa classe secondo il margine di rischio, che determinerà il costo dell’assicurazione, i benefits e le clausole limitative, fissando i requisiti di accesso e la soglia oltre la quale la compagnia rifiuta di erogare il premio. Limitante per gli statistici, l’associazione, come si tenterà di illustrare, non è del tutto errata, perché permette di cogliere una sfumatura non esplicitata nelle deliberazioni degli organismi sanitari: esiste la possibilità teorica dell’esclusione per il contraente che presenti un curriculum troppo accidentato. Ciò è compatibile con il proposito di non scaricare sui consumatori prudenti i costi del rischio corso dagli imprudenti e salvaguardare e massimizzare il profitto degli azionisti, cui si conforma da tempo l’azione del Legislatore anche in ambito sanitario.

    Meriterebbe, però, riflettere sul fatto che l’asservimento alla logica del bonus/malus non è auspicabile neppure nella prospettiva di una privatizzazione della sanità o di un suo allineamento all’oculatezza dei sistemi integrati. Se il pericolo più evidente consiste nell’incoraggiare la spregiudicatezza – dal momento che mentire sulla propria anamnesi comporta un vantaggio immediato – non è trascurabile un azzardo simmetrico da parte delle agenzie implicate, che potrebbero dirottare gli esclusi verso prodotti di nicchia, con premi alti e contratti capestro. Da notare, però, come la tendenza ad assicurarsi per un capitale più elevato si ritorca, già nel breve periodo contro il consumatore che vorrebbe tutelare, generando un aumento dei tassi di premio.

    Il polverone scatenato dall’introduzione di nuove tecniche diagnostiche e predittive offre un esempio perspicuo di come le razionalizzazioni economiche non costituiscano necessariamente una risposta più semplice: nuovi dilemmi e possibilità di truffa e sfruttamento nascono proprio all’ombra di quella certezza assoluta inseguita protervamente. Il caso dei test genetici è particolarmente controverso perché, se da un lato potrebbe venire utilizzato contro il soggetto, dall’altro potrebbe giovargli in termini economici, ad esempio, impegnandosi a tenere sotto controllo una patologia a carattere ereditario [12]. A livello informativo, la confusione è notevole: la diffusione di alcuni prodotti- semplici, affidabili e particolarmente predittivi- ha familiarizzato il pubblico con i test genetici, alimentando il mito della loto infallibilità.

    In ambito clinico, esistono varie forme di accertamento finalizzati ad interventi del tutto diversi: ai tests diagnostici che si effettuano, abitualmente, in presenza di uno stato patologico o di un’alterazione evidenziata al momento dell’anamnesi, si affiancano, impropriamente, gli screening genetici familiari, consigliabili in determinate situazioni per valutare i fattori di rischio [13]. Altra cosa, i test pre-sintomatici cui il singolo può sottoporsi per sua libera scelta o su richiesta, sovente indebita, di un soggetto altro, quale un datore di lavoro o una compagnia assicurativa.

    Numerosi gli studi che denunciano il carattere arbitrario e moralmente discutibile dei un’indagine che si estenda anche a patologie che non siano passibili di trattamento alcuno, il cui esito sia necessariamente infausto. Non è poi detto che nel soggetto a rischio si manifesti la patologia, che essa si manifesti in un intervallo di tempo più o meno lunga. È, però, elevata la possibilità che la predizione si trasformi in una profezia negativa per il malato, oggetto di una discriminazione pretestuosa e assolutamente ingiustificata dal momento che la semplice predisposizione genetica sembra non sufficiente a determinare in maniera certa l‘insorgere di una patologia mentre influiscono in maniera rilevante anche particolari condizioni fisiologiche e ambientali sulla evoluzione della salute del soggetto [14].

    Si tratta di una preoccupazione che trova riscontro anche nelle Venticinque raccomandazioni concernenti le implicazioni etiche, giuridiche e sociali dei test genetici, redatte nel 2004 dal gruppo di esperti della Commissione europea: dal punto di vista dei singoli Stati si tratta di garantire un uso delle informazioni genetiche compatibile con lo statuto morale che si riconosce al cittadino. Complica enormemente nella gestione dei dati genetici l’estensibilità delle informazioni alla linea genealogica pregressa e futura, che comporta l’esposizione di un gruppo familiare ad una profezia di dolore, in palese violazione del diritto individuale di “non sapere”, sancito dalla Convenzione di Oviedo [15]. Senza un’assistenza adeguata il singolo rischia di restare intrappolato in un onerosissimo double bind: rifiutando di sottoporsi al test potrebbe non avere accesso ad eventuali mezzi terapeutici; un risultato positivo potrebbe comportare una riduzione o una revoca della copertura assicurativa utile per la terapia.

    L’uso dei poteri predittivi della medicina per acquisire una maggiore conoscenza dei rischi cui siamo esposti o per elaborare delle possibili strategie preventive, costituisce anche una potente spinta individuale e sociale a stigmatizzare le persone, destituite della loro dignità e ridotte, esse stesse a fattori di rischio. Cogliendo una forte ambivalenza in questa pulsione ordinatrice, Foucault aveva mostrato come l’esaltazione del rischio fosse funzionale all’acclamazione delle pratiche di polizia, che gli individui accolgono di buon grado, salutando l’avvento di una società più “sicura”. Sempre operante la metafora del “corpo sano”- della senior pars - si alimenta di un razzismo che è sempre biologico e morale nel contempo, poiché tende ad assimilare colpa e malattia, untore e criminale. Neppure l’approccio freddo e oggettivo della medicina scientifica si sottrae alla logica istruttoria, sottesa alla pratica dell'accertamento mediante test: il terapeuta si lancia alla ricerca dei segni di evidenza, delle prove per stabilire le cause e le responsabilità, in un opera di scandaglio cui sottende una presunzione di colpevolezza.

    Diventa realtà la disutopia che Samuel Butler schizzò a tinte fosche in Erewhon, uno scritto a mezza strada fra il pamphlet di denuncia e il romanzo gotico; nella sua città paradossale chi si sospettava di lamentare un’affezione psichica o fisica veniva condannato ad una pena proporzionale alla gravità del disturbo, viceversa i criminali venivano curati con il massimo zelo e per un tempo proporzionale alla gravità della loro colpa [16].

    Sul paziente, in quanto portatore di una condotta sociale errata, irresponsabile o moralmente discutibile, si imprime lo stigma di una devianza particolarmente odiosa, poiché non soltanto grava sulla società che salda il conto della sua imperizia, ma perché costituisce, con il suo stesso esistere una minaccia sempre latente, la scaturigine del male.

    Note

    1] R. ESPOSITO, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino, 2002, pp. 3-4, «Nonostante la loro disomogeneità lessicale, gli avvenimenti prima richiamati risultano tutti riconducibili ad una risposta protettiva nei confronti di un rischio. Che si tratti dell’esplosione di una nuova malattia infettiva, della contestazione di consolidate prerogative giuridiche, dell’improvvisa intensificazione del flusso migratorio, o della manomissione dei grandi sistemi di comunicazione – per non parlare di un attacco terroristico – quello che comunque si presenta è la rottura di un precedente equilibrio e dunque l’esigenza della sua ricostituzione».
    2] D. INNERARITY, Il nuovo spazio pubblico, Meltemi, Roma, 2008, p.54.
    3] P. BOURDIEU, Oggi la precarietà è dappertutto, in Controfuochi, I libri di Reset, Milano, 1999, p. 98, «La precarietà infatti si inserisce in una modalità di dominio di nuovo genere, fondata sull’istituzione di uno stato generalizzato e permanente di insicurezza che tende a costringere i lavoratori alla sottomissione e all’accettazione dello sfruttamento (…)».
    4] E. GREBLO, Disciplina, postfordismo, governamentalità, in L. DEMICHELIS, G. LEGHISSA, Biopolitiche del Lavoro, a cura di, Mimesis, Milano, 2008, pp. 21-37, in particolare, p. 32.
    5] E. RULLANI, Valore, rischio e lavoro nella società della conoscenza, in D. DEMICHELIS, G. LEGHISSA, Biopolitiche del Lavoro, cit. pp.171- 183, specie, p. 181, «In questa condizione di reciproca convergenza, la conoscenza può in parte plasmare le caratteristiche della produzione e del valore economico, adattandole al suo spirito complesso e polivalente.»
    6] P. RABINOW, Fare scienza oggi, PRC: un caso esemplare di industria biotecnologica, Feltrinelli, Milano, 1999, p. 31.
    7] A. BUCHANAN, D.W. BROCK, N.DANIELS, D. WINKLER, From the chance to the choice. Genetics and justice, Cambridge University Press, Cambridge, 2001, pp. 21-23, Vedi pure p. 309.
    8] A. M. DI MISCIO, Identità aziendale e comunicazione medico/paziente, in Rivista di Antropologia Medica, n°2, Antropologia del corpo e sistemi medici.
    9] R. PRODROMO, L’idea di progresso e i limiti della medicina, in A.A. V.V., La fine della vita.., cit., pp. 5-43, in particolare p. 23.
    10] E. PELLEGRINO, AS. RELMAN, Professional medical associations., Ethical and practical guidelines., in JAMA- The Journal of the American Medical Association, 1999; pp. 984-6.
    11] P. VINEIS, Nel Crepuscolo della Probabilità, Einaudi, Torino, 1999.
    12] R. D. SMITH, N. RAITHATHA, Why disclosure of genetic tests for health insurance should be voluntary, Working paper n.9, Maggio 2006, su https://www.globalpolitics.org.
    13] Cfr. Analysis: impact of DNA patents on access to genetic tests and genomic science, World Health Organization.
    14] Cfr. Report on genetic data in private insurance allegato al documento Opinion on the use of genetic data in private insurance redatto dalla Commissione nazionale di bioetica della Grecia.
    15] S. RODOTA’, Il corpo tra norma giuridica e norma sociale, in L. PRETA (a cura di), Nuove geometrie della mente. Psicoanalisi e bioetica>, Laterza, Roma-Bari, 1999.
    16] S. BUTLER, Erewhon [1872], Penguin Classics, London, 1985, p.106. Il titolo, con cui si voleva dare un forte messaggio al pubblico, si poneva in continuità con Nowhere, la traduzione dell’Utopia di Thomas More a cura William Morris. Nell’anagramma la carica allusiva e l’ammiccamento alle tesi sostenute dal traduttore.

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