La somatizzazione della precarietà
Roberta Cavicchioli e Andrea Pietrantoni (a cura di)
M@gm@ vol.9 n.2 Maggio-Agosto 2011
CORPI DI KNOWLEDGE WORKERS FORZATAMENTE A DISPOSIZIONE
Emilia Armano
emi_armano@yahoo.it
Dottore di ricerca in Sociologia economica. Partecipa alle attività
di ricerca del Dipartimento Studi del Lavoro e del Welfare dell’Università
Statate di Milano. I suoi interessi riguardano i nuovi diritti nella società
dell’informazione, i modelli di welfare state, la flessibilità e la precarietà
nel mondo del lavoro. Ha collaborato con Romano Alquati e Sergio Bologna,
pionieri della ricerca sociologica in Italia. Ha pubblicato diversi saggi
in Italia e in Germania sui temi della soggettività e del lavoro.
Annalisa Murgia
annalisa.murgia@unitn.itDottore di ricerca in Sociologia e Ricerca Sociale. I suoi attuali interessi di studio e ricerca riguardano principalmente le tematiche della precarietà e delle differenze di genere nei percorsi professionali. È docente del Master in Politiche di genere nel mondo del lavoro e del corso di Introduzione al mondo del lavoro presso la Facoltà di Sociologia dell'Università degli Studi di Trento. Ha recentemente pubblicato “Dalla precarietà lavorativa alla precarietà sociale. Biografie in transito tra lavoro e non lavoro” (Odoya, 2010) e “Interventi organizzativi e politiche di genere” (con Barbara Poggio e Maura De Bon, Carocci, 2010).
Introduzione [1]
Nel contesto di analisi delle condizioni di lavoro nell’era della conoscenza
e delle tecnologie digitali, il nostro contributo vuole mettere l’attenzione
sulle rappresentazioni dei/lle knowledge workers sulla progressiva
ridefinizione dell’esperienza corporea, in direzione della perdita di
rapporto con il corpo concreto, a favore di un corpo astrattamente inteso.
Il discorso si colloca nella logica del “capitalismo tecno-nichilista”,
inteso come “un sistema che, sfruttando la sistematica separazione tra
le funzioni e i significati, si è progressivamente affermato quale modello
di riferimento nel corso degli ultimi decenni” (Magatti, 2009: 1).
La domanda di ricerca che ci poniamo in questo contributo è: in qual modo
la precarizzazione del lavoro modifica le percezioni dei soggetti, e nello
specifico dei lavoratori e delle lavoratrici della conoscenza, nella relazione
con il proprio corpo? Nel discutere tale questione, intendiamo concentrarci
non solo sugli effetti, ma anche sui processi e sulle relazioni sociali
in cui i soggetti – e in varie forme anche le loro esperienze corporee
– sono coinvolte.
Nell'ormai celebre saggio “The corrosion of character” (1998) Richard
Sennett ha messo in luce le conseguenze del lavoro nel nuovo capitalismo
sulle personalità individuali, ma in qual modo possiamo raccontare anche
la “corrosione” dei corpi? Se l'“essere corpi a disposizione” riguarda
tutti i lavoratori e le lavoratrici che svolgono occupazioni temporanee
e/o task oriented e che devono essere sempre pronti/e a un nuovo
incarico, come riuscire ad interpretare la somatizzazione della precarietà
non solo dei singoli, ma in termini collettivi? E, soprattutto, a partire
dalle auto-rappresentazioni, come si può far sì che l’attitudine critica
e le pratiche sociali ci consentano di riappropriarci socialmente del
corpo che ci è stato sottratto?
Corpi che (s)compaiono nel lavoro de-spazializzato
In tutti i paesi a capitalismo avanzato si assiste ad una riconfigurazione
delle strutture produttive e sociali (Boltanski, Chiapello, 1999), in
contesti in cui le tecnologie dell'informazione e della comunicazione
hanno fortemente contribuito allo sviluppo di nuove forme di organizzazione
del lavoro e alla commistione di ambiti precedentemente nettamente separati:
tempi di lavoro e tempi di vita, spazi professionali e spazi privati,
attività di produzione e di riproduzione. Questi processi, in Italia,
come altrove, sono stati da un lato accelerati dal sopravvento della cosiddetta
economia della conoscenza (Rullani, 2004), che richiede ai soggetti un
alto livello di capacità di tipo linguistico e comunicativo (Lazzarato,
1997; Marazzi, 1994; Virno 2001), e dall'altro sono stati veicolati dalle
tecnologie mobili, dal contenuto connettivo e ubiquitario. La rete e la
e-mail non si collocano, infatti, né in uno spazio pubblico, né in uno
privato, così come né in uno spazio solamente tecnologico, né in uno solamente
di relazioni interpersonali. Il lavoro si è in questo senso riterritorializzato
in uno spazio intermedio (Alquati, Pentenero, Wessberg, 1994; Armano,
2010), sradicato, de-fisicizzato, dove non ci sono corpi e contatti vis
à vis, ma solo immaginari e rappresentazioni di esperienze. Nel cosiddetto
regime di accumulazione flessibile (Harvey, 1990) i soggetti corporei
sono sempre più sradicati da ambienti, luoghi e territori e connessi tra
loro astrattamente dalla tecnologia mobile. Si tratta dello spazio vissuto
quotidianamente dai/lle precari/e della conoscenza – il “cognitariato”
– definito da Bifo Berardi (2001) come il proletariato del lavoro cognitivo,
sottoposto ad una massiccia intensificazione del lavoro che ridefinisce
la relazione con i corpi, oltre che le relazioni sociali e la materialità.
Emerge in questo quadro l’aspetto estraniante della condizione precaria.
O meglio l’estraneità dei corpi nella condizione precaria. Il “corpo proprio”
– per quanto sia difficile definire che cosa sia un corpo proprio dal
momento che dal punto di vista antropologico il corpo naturale, proprio,
non esiste, essendo noi animali culturali e sociali – il “corpo proprio”
ci diventa in un certo qual modo alieno, sovrastato dal corpo simulato,
estraneo al sentire del soggetto e ai suoi tempi di vita, vissuto, interpretato
e re-interpretato nel passaggio infinito tra pubblico e privato, tra palcoscenico
e quinte.
Con uno sguardo etnografico potremmo infatti dire che c’è una sorta di
palcoscenico nel quale i/le precari/e della conoscenza collocano
e simulano un corpo immaginario, impeccabile, efficiente, perfetto, scattante,
sempre disponibile a rispondere a ciò che gli viene richiesto. Accanto
a questo palcoscenico si affianca una realtà dietro le quinte del lavoro
nel quale l’apporto lavorativo effettivo si situa nella disponibilità
forzata (Marazzi, 1994), nell’informalità delle competenze relazionali,
nell’“esserci sempre”, nel “prendersi cura”, nel saper “essere intercambiabili”
(Morini, 2010) nell’indistinzione tra tempo di vita e di lavoro, dell’indistinguibilità
dei limiti e dei confini tra casa e luogo di lavoro, tra giorno e notte,
e soprattutto, tra dimensione relazionale personale e rapporto professionale
di lavoro (la cosiddetta domestication di cui ci parla Sergio
Bologna, 1997: 16-23).
Contesto della ricerca e metodologia
Con l’intento di riflettere intorno a tali questioni presenteremo alcuni
risultati provenienti da due ricerche sul campo condotte in provincia
di Torino e in provincia di Trento (Armano, 2010; Murgia, 2010) tra il
2006 e il 2008. Nello specifico la nostra discussione si basa sull’analisi
di 60 interviste in profondità, realizzate con donne e uomini all'interno
di numerose filiere del lavoro della conoscenza: dall’informatica alle
produzioni web e video, alla ricerca, alle attività artistiche e culturali,
ai servizi qualificati di consulenza, fino alla pubblica amministrazione.
Le storie raccolte ci parlano di nuove soggettività del lavoro; la maggior
parte di esse sono state realizzate prevalentemente durante alcuni significativi
“eventi” nei due contesti oggetto di indagine: Virtuality, Linux Day,
Artissima, Festival del Cinema [2],
Festival dell'Economia.
In termini metodologici, l’utilizzo di un approccio biografico e narrativo
ci ha consentito di comprendere i vissuti dei/lle precari/e della conoscenza
che abbiamo intervistato, a partire dai significati attribuiti soggettivamente
alle proprie esperienze lavorative, e dai diversi modi in cui la precarizzazione
incide sugli aspetti materiali, sociali e simbolici del lavoro della conoscenza.
L’analisi delle interviste ci ha infatti restituito un quadro d'insieme
della dimensione dell’attraversamento dei singoli vissuti e dei rapporti
che i soggetti hanno costruito con il loro mondo sociale (Schütze, 1987).
Da questo punto di vista, le narrazioni si configurano come uno strumento
adatto per rompere il quadro paradigmatico dei tradizionali studi sul
lavoro, dove si procede facendo del lavoro e dei/lle lavoratori/trici
degli oggetti di analisi e studio, anziché farli parlare in prima persona.
Il focus non è quindi rendere conto pienamente dei “fatti” e delle trasformazioni
in atto nel mercato del lavoro contemporaneo, ma guardare alle narrazioni
come pratica che consenta alle soggettività di attivarsi (Bermani, 2010;
De Lorenzis, 2010) attraverso il processo dell’interpretazione e della
significazione e di elaborare nuove rappresentazioni del lavoro e delle
condizioni di vita.
Rappresentazioni del corpo tra scena e retroscena nel lavoro della
conoscenza
In questa sezione, nell'intento di fornire un contributo puntuale, organizzeremo
la discussione delle interviste che abbiamo realizzato intorno a cinque
parole chiave (Montaldi, 1961), cinque “concetti” ricavati
induttivamente dalle categorie implicite contenute nelle narrazioni
(Bertaux, 2005), parole chiave a nostro avviso capaci di cogliere alcuni
aspetti rilevanti, aspetti – spesso sfumati e talvolta contraddittori
– che contraddistinguono l'esperienza dei soggetti corporei – in termini
sia materiali che simbolici.
Le parole chiave: 1) Forzatamente a disposizione;
2) Essere sradicati/e dai luoghi e astrattamente connessi/e dalla
tecnologia mobile; 3) Se le persone si appassionano i corpi workaholic
sono messi a valore; 4) Narrazioni e immagini di corpi simulati e estranei;
5) …e di corpi indisponibili.
1. Forzatamente a disposizione
Sottoposti al ricatto di poter accedere o meno alla possibilità di lavorare
e alla minaccia della reversibilità e della retrocessione sociale, i/le
precari/e esperiscono la condizione di dover “esserci sempre” ed essere
sempre a disposizione. Sono le competenze relazionali, discorsive e “femminili”,
il “prendersi cura”, il saper “essere intercambiabili” che vengono messe
in produzione.
«Ci sono periodi in cui ti offrono più lavori, siccome tu sai che non
sempre ci sarà questa opportunità, è comunque importante che tu sia anche
disponibile, perché insomma, devi stare sul mercato. Perché uscire dal
mercato del precariato, poi vuol dire che rientrare è più difficile, perché
non ci sei solo tu, c’è un sacco di gente, almeno che tu non sia il più
bravo di tutti quanti. Però ne trovano di gente, a bizzeffe, che ti possa
sostituire. Uno dei giochi è anche quello comunque di essere disponibile
e di essere sempre presente». [Gaia_38 anni_Consulente organizzativa
per l'Azienda sanitaria_Trento] [3]
«…Maledetto telefonino! ero reperibile praticamente sempre… riesco
a liberarmi di questa lucetta maledetta, […] maledetta perché il lavoro,
lì, era sempre rispondere al telefono e schizzare a destra e a sinistra.
Era molto, molto impegnativo» [Catia_30 anni_ Fotografa free lance_Torino]
«Gli orari sono abbastanza fissi, perché alla fine rispetto quelli che
sono gli orari d’ufficio della *** (ente pubblico), anche se, avendo una
collaborazione, in teoria potrei gestirmi come voglio. Al mattino dalle
otto e mezza, fai conto, fino alle quattro e mezza. Io di solito mi
fermo di più, fino alle cinque e mezza, sei. Oggi poi sono andata
in palestra per esempio, son tornata ho mangiato e adesso sono qui con
te, altrimenti mi sarei rimessa al computer. Ci sono dei periodi che devi
stare fino a mezzanotte, perché c’è la scadenza e devi fare le cose.
Ci sono i periodi in cui sei oberata, ti dividi tra progetti,
quindi dividere il tempo su tre cose…». [Rossana_33 anni_Ricercatrice
in un istituto privato_Trento]
Dagli stralci di intervista emerge con chiarezza la condizione di disponibilità
forzata e di differenziazione esperita tipicamente dai/lle cognitari/e,
a differenza dei/lle loro colleghi/e con contratti stabili. Mentre gli
“altri” timbrano il cartellino e alle 16, al termine dell’orario, escono
dall'ufficio, il tempo di chi lavora attraverso collaborazioni non ha
limiti. Ciò che sembra essere costante, a prescindere dal settore lavorativo
e del contesto geografico, è l’importanza di mostrarsi sempre disponibili
nei confronti del datore di lavoro e di ogni eventuale occasione di lavoro
retribuito. Come già sottolineato, infatti, il lavoro contemporaneo si
trasforma progressivamente in un lavoro di relazione (Marazzi, 1994).
Disponibilità, autonomia, reperibilità, sono concetti che, nei nuovi discorsi
dominanti, regolano i comportamenti e chiedono a certi individui e gruppi
di rendersi sempre disponibili quando l’economia lo richiede.
La disponibilità forzata, anche in termini di presenza fisica, ha dei
risvolti interessanti anche sui corpi dei precari che popolano il mondo
del lavoro della conoscenza. Infatti, se da un lato i nuovi impieghi corrispondono
a occupazioni fragili, spesso a tempo parziale, dall'altro emergono situazioni
di “superlavoro” (Castel, 2002), che paiono progressivamente moltiplicarsi
e diventare più frequenti per chi lavora in modo intermittente, a cui
è costantemente richiesto un lavoro “stra-ordinario”, sia in termini di
carico e di tempo sia, in diversi casi, per il fatto di svolgere più lavori
in contemporanea, nell’arco della stessa giornata o della settimana (Murgia,
2010).
«Ti faccio un esempio, ci è arrivato un grosso lavoro sei mesi fa, di
una multinazionale processato da un’altra multinazionale, e tu non sei
una multinazionale. E allora dovevi trovare il modo di lavorare o sedici
ore, diciotto-venti ore al giorno oppure lavorare con tre-quattro volte
le persone con cui lavoravi normalmente. [...] Lavoravi in quel periodo
con estrema frenesia, con condizioni di lavoro, con un work flow
di cui non eri responsabile, se non per un piccolo step, però, lì, dovevi
dare tutto, in quei quindici giorni dovevi processare una quantità
di parole che era impressionante. Finite quelle, finito
il lavoro». [Diego_43 anni_Traduttore freelance e Co-partecipante
a società di traduzione_Torino]
«Un po’ troppo qua il lavoro e allora ci sono giorni che vado a casa alle
10, alle 9, ti fai 12 ore lavorative, 13… Però ho due tipi di giornata:
giornata in cui lavoro al museo, giornata in cui lavoro sia al museo che
a scuola. A scuola devo essere lì alle 8 e mezza, perciò arrivo lì alle
8, prendo il treno da *** (paese in provincia di Trento), vado a *** (nome
della scuola), faccio le mie 2, 3, 4 ore, quello che c’è, dopo di solito
sono qua al museo alle 11, 11 e mezza, 10, secondo quante ore faccio là.
Arrivo qua, si impizza il PC e inizio a vedere le varie richieste
che ci sono. Ci sono sempre 3000 cose, mangi, ricominci, sino a quando
non hai finito. Dopo prendi il treno e torni a casa, ultimamente cucini
e dopo niente, divano, letto». [Alessandro_30 anni_Operatore museale
e Tecnico nelle scuole superiori_Trento]
La disponibilità forzata non riguarda dunque esclusivamente la presenza
fisica, ma anche il progressivo consumo e logoramento dei corpi esposti
ad un continuo lavoro “stra-ordinario”, spesso peraltro associato ad un
forte investimento formativo, emotivo e motivazionale che le attività
e i lavori della conoscenza talvolta – come vedremo in seguito – comportano
e mettono a valore.
2. Essere sradicati/e dai luoghi e astrattamente connessi/e dalla
tecnologia mobile
Nelle descrizioni del lavoro della conoscenza, il corpo può diventare
un attributo astratto del lavoro, indifferente, perlomeno così appare
rispetto al processo e al risultato di produzione, certo non per il soggetto
che ha bisogno anche solo del riposo, ad esempio. Il lavoro mobile quando
viene remunerato a risultato si misura con le nuove modalità di comunicazione
connaturate al mezzo digitale che portano con sé la completa saturazione
dei tempi che diventano privi di limiti. E il rapporto del corpo con il
tempo può alterarsi dilatandosi nella interazione differita della
comunicazione digitale e accelerarsi senza controllo.
«È vero che chi non ha il cartellino e può lavorare da casa è libero di
prendere i figli e un martedì di giugno andare a Gardaland, però è vero
che tu dopo cena sai benissimo che devi rimetterti a lavorare. Cioè, non
avere orari è veramente una, una schiavitù. Io sento sempre questa
sensazione di dover continuamente andare avanti, di dover continuamente
tirare la carretta. È una sensazione molto spiacevole ecco, è l’insicurezza
dovuta al fatto che non sai mai quando devi, quando puoi staccare». [Enrico_40
anni_ Storico in un ente di ricerca pubblico_Trento]
Chi lavora con un contratto a progetto, co.co.co. o partita IVA, come
nel caso delle persone che abbiamo intervistato, svolge un’attività in
larga parte immateriale e di tipo cognitivo, che potenzialmente può essere
svolta in qualsiasi luogo e momento della giornata. In questo senso i
tempi di lavoro e quelli dedicati alla propria vita privata si intrecciano
tra loro fino a confondersi e i ritmi di vita e di lavoro tendono ad unificarsi,
facendo perdere di vista le linee di confine. Qui i corpi sono sradicati
e riconnessi, sradicati in quanto fisicamente dislocati in molti luoghi
fisici, riconnessi nella misura in cui il lavoro e le relazioni di lavoro
si incontrano riposizionati nel territorio della rete (Armano, 2010).
L’ambivalenza della condizione del lavoro nell’era digitale sta
nel fatto che, contemporaneamente, il lavoro della conoscenza attraverso
la tecnologia mobile appare liberatorio, fornendo ulteriori gradi di libertà
legati alla potenza delle tecnologie digitali e all’universalità e univocità
dei linguaggi che consentono l’espansione della comunicazione al di là
dei vincoli di tempo e di spazio.
«Tutto via mail. Ci sono situazioni abbastanza curiose dove non sono
mai andato. Ci sono stati contatti telefonici per la Stampa di Milano,
ho conosciuto una redattrice che mi ha detto “scrivi delle cose” e poi
lì ho conosciuto un’altra redattrice e ho continuato a collaborare, senza
mai andare appunto fisicamente alla sede della Mondadori». [Gianni_30
anni_Giornalista web freelance_Torino]
«La rete la utilizziamo in una maniera molto intensa, anzitutto non
abbiamo un ufficio fisico, una segreteria, e cerchiamo di non averlo
[…] Lo scambio di documenti è tutto via mail, molto spesso si
manda un’offerta tramite e-mail, si ottiene un ordine tramite
e-mail o fax, si invia una fattura tramite e-mail, questo oramai
è abbastanza acquisito anche qui in Italia, questo proprio negli ultimi
anni, tipo quest’ultimo anno. Mi ricordo che prima andavo in posta con
i francobolli a spedire le fatture, adesso molti accettano la fattura
tramite e-mail con .pdf e se la stampano» [Alberto_40 anni, Co-titolare
software house_Torino]
I corpi messi al lavoro non hanno un luogo fisico comune, dove interagire
faccia a faccia. L’interazione umana nei lavori della conoscenza è spesso
mediata dalla tecnologia digitale e questa modalità è divenuta così abituale
da apparirci scontata, ovvia e “naturale”. È persino difficile renderci
conto di come spontaneamente essa rimodelli l’interazione umana e le sottragga-riformuli
l’esperienza corporea. Nella comunicazione via mail a cui si fa riferimento
negli ultimi stralci di intervista la funzione del linguaggio sembra essere
di tipo neutro e informativo. Il linguaggio, che in questo caso è linguaggio
CMC (Computer Mediated Communication) ci appare come un semplice veicolo
tecnico che informa, cioè trasmette i contenuti da un parlante a un ascoltatore.
Anche il linguaggio naturale, che distinguiamo come linguaggio F2F (face
to face) fa questo: ma non è la sua caratteristica principale. Nella comunicazione
face to face la trasmissione del messaggio avviene in un ambiente “ricco”
e “caldo”: abbiamo il contesto, l’espressione emotiva,
il poterci guardare, magari in viso, il suono, l’ascolto della voce,
la simultaneità, tutti elementi di grande fisicità e corporeità
che entrano vivamente nel messaggio e che invece perdiamo totalmente nel
linguaggio della comunicazione digitale dei media di prima generazione:
univoco, asettico, uniforme, astratto, impersonale. Il corpo è ridotto
a potente immaginario e rappresentazione.
Proprio a fronte di questi limiti, si sono sviluppati successivamente
i nuovi media di ultima generazione (web 3.0, social network quali Facebook
e molti altri) che consentono di mettere a disposizione ed espropriare
(Formenti, 2011) anche i contenuti emotivi e di forte interattività della
comunicazione umana. Nel social network le persone – che lavorino o meno
– mettono infatti a disposizione gratuitamente affetti, sensazioni, legami
personali, intimità, amicizie, esperienze e conoscenze in comune, nuove
forme di cooperazione spontanea, commons immateriali, insomma
il mondo vivo della reciprocità che il capitale usa e di cui
si appropria, codificandolo e riterritorializzandolo ancora una
volta nella rete. Ricordiamo che ciò che ci appare come piacevole salotto
e luogo di informale, libera e amichevole conversazione, è anche e principalmente
una piattaforma web tecnologica; non a caso per partecipare con
il proprio profilo a un social network si firma un vero e proprio contratto
di cessione delle informazioni e delle immagini immesse. Di nuovo
abbiamo riterritorializzazione, sradicamento dai luoghi fisici
e connessione.
3. Se le persone si appassionano i corpi workaholic sono messi
a valore
Nelle narrazioni, oltre alla disponibilità forzata dei corpi imposta dai
tempi esterni di consegna del lavoro, emerge il peculiare fenomeno dell’immedesimazione
dei soggetti nell’attività che svolgono: la convinzione, per talune attività
ricche di senso, di svolgere qualcosa di bello, importante e per se stessi.
I corpi allora sono sottoposti a forme duplici di stress (auto-stress?)
e auto-sfruttamento; corpi che nell’iper-identificazione workaholic
(Robinson, 1998) sono volontariamente e allo stesso tempo forzatamente
in produzione.
«È molto interessante, è un cosa in divenire. La cosa forse più stimolante
che c’è perché si trovano sempre aspetti nuovi per poter applicare le
cose che si studiano […] Penso che se uno lo fa con piacere,
è la cosa più importante, se uno lo fa con piacere, è contento e stimolato
da quello che fa, fare due ore-cinque ore in più non pesano.
Fare due ore in più o anche un minuto in più di una cosa che non piace
sicuramente pesa da morire [...] Io entro qua in ufficio alle
otto e esco più o meno alle sei e mezza, togliamo l’ora di pausa, sono
dieci ore di lavoro al giorno più o meno, dal lunedì al venerdì […] Poi
può capitare il sabato, anche alla domenica, quello non ti saprei dire».
[Fabio_29 anni_ Assegnista di ricerca al politecnico di Torino]
«Era bello perché quando traducevo per i quotidiani era molto stressante
perché in due giorni dovevi tradurre dei testi complessi e anche molto
lunghi, a volte, e sapevi che ti leggevano tre- quattrocentomila persone
e quindi di una certa responsabilità, però dava anche soddisfazione,
insomma. [...] Soprattutto per questo, perché per altri versi no, sono
momenti di grande crescita quando traduci un libro di storia e di filosofia
del diritto che devi penetrare completamente il linguaggio, l’ambiente
in cui il libro è calato, è proprio molto, molto bello, ti si
aprono anche dei mondi, conosci delle persone che ti possono aiutare,
con cui scambiare delle idee». [Diego_43 anni_Traduttore freelance
e Co-partecipante a società di traduzione_Torino]
«Ritengo che lavoro e vita privata per me siano la stessa identica cosa.
Cioè voglio dire, vorrei che il lavoro diventasse la stessa vita quotidiana,
nel senso che è un lavoro molto dinamico, non è un lavoro di routine,
continua a cambiare, le cose che hai da fare sono tantissime, diversissime,
sei in contatto con tantissima gente e quindi non hai una giornata che
è uguale all’altra. Quindi per me il lavoro diventa anche la quotidianità.
Io comunque la maggior parte del mio tempo libero la dedico sempre comunque
al mio lavoro. Di tempo libero alla fine non te ne rimane, nonostante
la scusa di avere un lavoro autonomo è quella di dire “Mi gestisco il
tempo libero come voglio io”…». [Roberta_33 anni_Architetta nella
pubblica amministrazione_Trento]
Una via di fuga diffusa o di spontanea compensazione è costituita dal
lavorare per propri progetti, una pratica e una forma mentis incentrate
su immedesimazione e autonomia: il nuovo ésprit du capitalisme secondo
Boltanski e Chiappello (1999). Lavoratori dipendenti e autonomi, partite
IVA e contratti atipici, dottorandi e docenti precari, stagiste di un’organizzazione
di eventi raccontano che si stanno innamorando del “proprio progetto”.
Nella auto-attivazione “felice” (Formenti, 2011) lo sforzo a
cui si sottopone il corpo, per quanto sia “scelto” dal soggetto, è uno
sforzo di elevato stress anche perché molto spesso tra i precari della
conoscenza convivono nella stessa persona impegni svolti per remunerazione
e mera sopravvivenza economica con impegni lavorativi svolti - anche gratuitamente
- tesi prevalentemente alla realizzazione personale, vissuti come momenti
espressivi, liberatori e di gratificazione. L’effetto complessivo è quello
di accumulo e di sovraccarico sui corpi anche se i significati
che si assegnano ai due sforzi e momenti sono del tutto differenti.
Sarebbe poi interessante indagare approfonditamente su queste “altre”
attività, in che misura effettivamente esse consentano di realizzare finalità
espressive e quanto invece siano a loro volta sottoposte rigidamente ai
format comunicativi dominanti e/o brutalmente vincolate alle logiche di
mercato e dunque siano fonte di illusione oltre che di auto-sfruttamento.
Ma questo è un altro discorso.
4. Narrazioni e immagini di corpi simulati e estranei
Nel mondo industriale, di fronte all’intensificazione dei ritmi, non c’era
bisogno di nascondere la fatica e la stanchezza. Il soggetto nel capitalismo
tecno-nichilista deve invece saper rielaborare soggettivamente come proporre
(e riproporre in continuazione) l’immagine impeccabile del suo corpo pubblico
al lavoro.
«A me hanno chiesto prima di rinnovare il contratto: “Sì, ma te come ti
senti?” ...capito? Perché sapevano che ero stata male, quindi sono anche
costretta a fare: “Yea! Benissimo!”. Per avere il lavoro, comunque devi
dare un’immagine… di efficienza, perché se sembri ammalata, allora
evitano a priori di prenderti». [Noemi_37 anni_Consulente della Pubblica
Amministrazione_Trento]
«Poi ti chiamano magari il giorno prima e non è che puoi dire no. La disponibilità
è totale, cellulare sempre acceso, devi essere sempre sorridente,
mai indisponente, deve sempre andare tutto bene, disponibile. E questo
è l’altro aspetto negativo, se c’è qualche aspetto che non ti va, ti
deve andar bene». [Patrizia_27 anni_Promotrice software _Torino]
«Ci sono delle volte che ho delle consegne alle dieci di mattina di mercoledì
ed ero stato sveglio dalla domenica su di un computer, poi magari dormo
due giorni di fila […] Dormo con il cellulare acceso, però i clienti ti
chiamano. Se mi chiamano cerco di far finta di essere sveglio
e gli rispondo. Poi mi appunto cosa mi hanno detto, dormo e poi mi rileggo
cosa mi hanno detto perché se no mi dimentico rigorosamente. Così. Però,
ti dirò che è un modello che funziona». [Claudio_32 anni_Web designer_Torino]
La paura di un mercato del lavoro che è feroce, che ha tempi rapidissimi,
e che se sbagli ti esclude, ti costringe a reagire simulando un’immagine
e un corpo che è solo un simulacro corrispondente e indistinguibile al
corpo immaginario richiesto dal mercato. Dentro la vetrinizzazione
del sociale (Codeluppi, 2007; 2008), la spettacolarizzazione della merce,
dei processi lavorativi e del consumo che fa credere che tutto sia possibile,
l’aspetto estraniante della condizione precaria sta nel fatto che l’immagine
impeccabile del proprio corpo è una simulazione e non corrisponde a come
il soggetto vive e sente. Il corpo simulato è un estraneo, una maschera
necessaria per la sopravvivenza lavorativa? Come riporta riflessivamente
e ironicamente una degli intervistati, la finzione però funziona nel gioco
contingente della costruzione sociale. Il comportamento rituale genera
l’apparenza perfetta, l’illusione istantanea, attesa e desiderata dal
cliente. Oppure richiesta dal datore di lavoro, il quale può richiedere
ai precari della conoscenza non solo un corpo costantemente sano, meglio
se eternamente giovane, e che non mostra i segni della fatica, ma anche
un corpo che sa rendersi invisibile quando occorre.
«Dovevo essere presente in ufficio, però non dovevo figurare.
Mi è stato detto di cancellare qualsiasi traccia della mia presenza.
Sì, perché comunque essendo una co.co.co., con specificato che non
vengono utilizzati i luoghi dell’ente dove lavoro, mi è stato
detto che né sulle cartelle presenti in computer, né in qualsiasi
modo deve rimanere la mia traccia. Mi è stato anche detto che nel
momento in cui dovesse venire un controllo, io devo dire che sono passata
a trovare un’amica e la cosa assurda è che formalmente, a parte sentirsi
un clandestino in un ufficio, formalmente c’è una segreteria organizzativa
che non si sa dove sia, abbiamo un numero di telefono ma è il mio
ologramma che risponde, è una situazione assurda. Infatti per telefono
o comunque sulle e-mail, quando chiedono della dottoressa ***, sono
un effetto della fantasia catartica dei mezzi di comunicazione moderni».
[Simona_31 anni_Organizzatrice di eventi culturali nella Pubblica
Amministrazione_Trento]
Si parla di un corpo flessibile, disciplinato; gli si chiede di adattarsi
docilmente alle richieste a tal punto da saper diventare persino invisibile.
E tuttavia l’umiliazione di colui/lei che deve sapere quando e come rendersi
invisibile non è a nostro avviso riducibile agli aspetti contrattuali
come appare a prima impressione nel caso dell’intervista in oggetto. Infatti,
nelle filiere del lavoro della conoscenza è frequente che ai/lle precari/e
si richieda di partecipare alle attività con tutte le loro capacità, conoscenze,
mettendoci l’anima e contemporaneamente nella presentazione dei progetti
il loro nome scompaia improvvisamente dai testi e dai lavori che hanno
realizzato privandoli di riconoscimento pubblico e negando loro lo spazio
urbano. Tipica di questa modalità di sottrazione della dignità e del corpo
è la figura del ghost writer nell’attività di ricerca e o dell’autore-ombra
nelle filiere creative a cui si chiede persino di non presenziare nel
caso di eventi. È il signor nessuno, l’invisibile, ma, pur essendo “invisibile”,
è sempre meglio non si presenti proprio perché potrebbe essere alquanto
“imbarazzante” se qualcuno lo “vedesse”.
5. …e di corpi indisponibili
Nelle rappresentazioni dei soggetti con cui abbiamo realizzato le ricerche
qui descritte si parla di corpi che vengono richiesti e pretesi come sempre
efficienti, perfetti, scattanti, eternamente giovani e “disponibili” al
lavoro e solo a quello, senza essere attraversati da altre situazioni
biografiche (quindi non malati, non incinta, senza vincoli familiari,
abitativi o addirittura geografici, ecc.). Ma cosa accade quando i corpi
non riescono – o non vogliono – essere “a disposizione”? In qual modo
– ad esempio – viene esperito un evento di malattia o maternità da soggetti
a cui non viene garantita – de iure o de facto – alcuna forma
di protezione sociale?
«Io ho avuto una bimba, la mia prima bimba, e ho lavorato fino all’una
di notte del giorno che ho partorito, nel senso che sapevo che il mattino
entravo in ospedale alle sette perché avevo finito i termini e dovevo
partorire, quindi mi ricoveravano d’ufficio. Dopo un’ora che avevo partorito
o poco più, ho detto al mio compagno cosa andare a dire il giorno dopo
in ufficio perché questi potessero continuare il lavoro. E appena rientrata
a casa, ho fatto cinque giorni di maternità, più o meno lavorando da casa.
Non mi potevo permettere di non esserci, io non ero dipendente, quindi
di maternità non se ne parlava, e l’anno successivo ho lavorato sempre
con una fatica e un peso pesantissimo, proprio una stanchezza da arrivare
all’oberazione più totale». [Sara_38 anni_Coordinatrice di percorsi
di formazione_Trento]
«Avevo un posto con un co.co.co, poi in aprile mi hanno telefonato dall’ospedale
di *** dove ero andata a farmi visitare, mi hanno detto che se volevo
si era liberato un posto il 2 aprile. Siccome dovevo fare un trapianto
di cartilagine e avevo un male pazzesco ho detto “Bene, accetto, pazienza,
vediamo cosa succede”. E invece di pagarmi la malattia o comunque tenermi
lì, mi hanno fatto firmare la carta delle dimissioni, che è assolutamente
fuori da ogni logica, e soprattutto dalla legalità. Comunque l’ho firmata,
perché quando sei in quelle condizioni lì, e dici “tra un po’ mi ritroverò
a cercare lavoro, è meglio se la firmo la carta delle dimissioni”…». [Manuela_41
anni_Consulente per la Pubblica Amministrazione_Trento]
«…per forza devo accettare anche condizioni che non sono
giuste, soprattutto se uno si ammala non è coperto, se uno perde
dei giorni di lavoro per malattia diciamo che è un problema vero e quindi
bisogna stare in salute e sperare di stare sempre in
salute» [Frank_40 anni_Traduttore e insegnante di lingue_Torino]
La parola chiave corpi indisponibili ci mostra un punto di collisione:
ci sono situazioni – peraltro talvolta desiderate e/o fisiologiche – nelle
quali la simulazione dei corpi perfetti può essere impossibile
e/o può non essere desiderabile. Sono allora i corpi stessi che pongono
limiti e potenziali forme pratiche di resistenza, anche quando
i soggetti non intendono consapevolmente attuarle. Si tratta di narrazioni
di condizioni limite, che ci si ritrova ad esperire spesso individualmente.
Ci interessano però per aprire un discorso intorno a quali altre condizioni
tali pratiche di resistenza possano attivarsi e generalizzarsi.
Discussione e conclusioni
Nell’ambito dell’economia della conoscenza si sono diffuse nuove forme
di lavoro caratterizzate da alto contenuto cognitivo, emotivo, relazionale,
elevato grado di precarietà contrattuale, contingent e task oriented commitment
e situate in un contesto organizzativo strutturato dall’uso delle tecnologie
digitali.
La nostra analisi ha indagato sul nesso tra nuove forme di lavoro, precarietà
ed esperienze corporee messe a valore incentrandosi particolarmente su
come mutano i modi di relazionarsi con il proprio corpo nel quadro dei
processi di trasformazione sociale del capitalismo tecno-nichilista, quindi
non limitandoci strettamente al tema degli effetti.
Secondo Magatti (2009) i dispositivi del capitalismo tecno-nichilista
definiscono un immaginario sociale che rischia di arrivare fino al punto
di distruggere “l'unità psichica e corporea dell'individuo” (p. 21).
L’analisi del contenuto riferita a un campione significativo di narrazioni
biografiche e storie di vita di lavoratori e lavoratrici della conoscenza
appartenenti a diverse filiere produttive, ci ha consentito di mettere
in evidenza alcune parole chiave (Montaldi, 1961) capaci di descrivere
il fenomeno della precarietà e della corrosione dei corpi. Disponibilità
forzata, ricatto, mobilità, dispositivi di controllo, “passione” e individualizzazione
sono le più frequenti che abbiamo incontrato e che abbiamo cercato di
indagare. La precarietà dei corpi nel lavoro della conoscenza ci è apparsa
rappresentata e sperimentata attraverso una pluralità di forme, le più
evidenti riguardano l’intensificazione legata all’immedesimazione e all’interiorizzazione
degli obiettivi, le esperienze dei corpi workaholic, dei corpi
che si sottopongono “volontariamente” allo stress, felici di autosfruttarsi.
Vi sono poi corpi che subiscono l’umiliazione di doversi rendere invisibili
alla vita lavorativa pubblica. Non mancano forme più sottili di alienazione
con la simulazione dell’immagine di corpi perfetti su un palcoscenico
pubblico che faticano a riconnettersi con i retroscena della
vita lavorativa. Siamo di fronte a un insieme di nuove fragilità che si
compongono di deprivazione (forzata e “volontaria”) dei diritti,
a corpi espropriati di un proprio tempo interiore e di un proprio
spazio di esistenza.
Le rappresentazioni soggettive si declinano in maniera differente, si
accentuano, si distorcono, divergono in relazione a varie situazioni quali
l’attività, la mansione, la condizione contrattuale, l’età e il genere
delle persone che abbiamo intervistato, la filiera di produzione e i gradi
di autonomia nell’attività svolta.
I dispositivi di ricatto e di messa a disposizione forzata dei corpi
si presentano principalmente nei contratti temporanei e nelle esperienze
di multiattività. La condizione workaholic è frequente nelle
filiere di attività dal contenuto più creativo, nei lavori task oriented
e a progetto. Nelle fasi non ancora adulte della vita si preferiscono
attività ricche di senso con un forte grado di immedesimazione e socialità.
Le condizioni sociali di provenienza e il reddito, nel lungo
periodo, giocano ancora un ruolo selettivo tra chi ha la possibilità di
scegliere l’attività nella quale impegnarsi e chi si sperimenta come corpo
a disposizione. Le donne ci appaiono le più soggette a mettere
a valore capacità, affetti e saperi relazionali e corporei. La simulazione
dei corpi e la riterritorializzazione veicolate dalle tecnologie
mobili paiono essere una sorta di denominatore comune, una costante che
accompagna la precarietà delle esperienze al di là delle diverse tonalità.
Sono queste solo alcune delle evidenze. Non siamo però di fronte a modelli
interpretativi biunivoci; nulla esclude la compresenza di alcune di queste
rappresentazioni in altri segmenti. Nella formazione della soggettività
le rappresentazioni infatti si intrecciano inestricabilmente alle condizioni
sociali.
Nel nostro lavoro di ricerca oltre a proporci di descrivere in profondità
alcune di queste rappresentazioni ci siamo chieste attraverso quali percorsi
e pratiche sociali l’attitudine critica, l’impegno, ci consentano di riappropriarci
socialmente del corpo che ci è così sottratto. Quindi il nostro contributo
ha voluto fornire, da una parte, una descrizione riflessiva della soggettività
corporea, dell'esperienza di affaticamento/logoramento/adesione/estraneità/
dei corpi a fronte di un'aspettativa di corpi perfetti; dall'altra, ha
inteso sollecitare una riflessione sulla necessità e sulle modalità di
riappropriazione sociale del corpo. Come è possibile la riappropriazione
dei corpi quando si ha l’immedesimazione dei soggetti nel lavoro e dunque
la disponibilità “volontaria” illimitata dei corpi per la produzione?
Di quale corpo parliamo? Di corpo sociale o di corpo individuale? Anche
il corpo individuale al lavoro sembra infatti essere definito a sua volta
dai modelli culturali dominanti. Come può sottrarsi allora una intera
generazione di corpi dall’essere docile, disciplinata e magari nell’illusione
di vivere nella migliore delle realtà possibili? Come, oltre alla mera
empatia e al rispecchiamento, potrà scattare anche un senso di ragione
pratica condivisa? Nell’era postfordista della de-procedimentalizzazione
e della tecnologia mobile occorre pensare a come riconnettere e risocializzare
le persone impresizzate e i corpi individualizzati per
immaginare pratiche sociali e nuove forme di rappresentanza e coalizione
(Bologna, Banfi, 2011). Occorre pensare l’auto-rappresentazione dei soggetti
come primo passo verso l’auto-tutela in una condizione di orizzonte aperto
delle traiettorie lavorative e sociali.
Note
1] Il presente articolo è il frutto
di riflessioni condivise tra le due autrici, i cui nomi appaiono in ordine
alfabetico. Se, tuttavia, dovesse essere attribuita responsabilità individuale,
Emiliana Armano ha scritto il paragrafo 1, le parole chiave 2, 3, 4 e
le Conclusioni; Annalisa Murgia ha scritto l’Introduzione, il paragrafo
2, 3 e le parole chiave 1 e 5.
2] Le interviste realizzate a
Torino sono accessibili per nuove e ulteriori interpretazioni, in libero
download alla pagina web.
3] Per tutelare l’anonimato degli/lle
intervistati/e abbiamo sostituito i loro nomi, così come quelli di coloro
cui fanno riferimento nella narrazione, con nomi di fantasia. Per ogni
stralcio di intervista abbiamo inoltre riportato l’età, l'attività lavorativa
svolta al momento dell'intervista e il contesto provinciale di riferimento.
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