La somatizzazione della precarietà
Roberta Cavicchioli e Andrea Pietrantoni (a cura di)
M@gm@ vol.9 n.2 Maggio-Agosto 2011
I CORPI DISPONIBILI DEI LAVORATORI SENZA PROGETTI
Roberta Cavicchioli
robertacavi@yahoo.it
Storica delle idee e Antropologa; Osservatorio Lavoro Atipico presso OS; Dottorato di Ricerca in Filosofia, Storia del Pensiero Politico, presso l'Università degli Studi di Genova.
Andrea Pietrantoni
pietrantoniandrea@libero.it
Ricercatore nell'ambito delle relazioni industriali e sindacali, ha conseguito un Phd in “Scienze del Lavoro”, ha collaborato con vari enti e organizzazioni attive nel settore. E' l'autore di studi e inchieste sull'occupazione.
«Con l’imprenditoria di se stessi, è finalmente possibile
realizzare la messa al lavoro e la messa in valore di tutta la vita e
di tutta la persona. La vita diventa il capitale “più prezioso”. La frontiera
fra lavoro e non lavoro si cancella, non perché le attività lavorative
e quelle non lavorative mobilitano le stesse competenze, ma perché il
tempo della vita ricade interamente sotto il dominio del calcolo economico,
sotto il dominio del valore.» [1]
La crescente flessibilizzazione dei percorsi professionali, la discontinuità
delle traiettorie biografiche accentuata dall’instabilità delle unioni
e dalla crisi delle agenzie di socializzazione, la percezione diffusa
dell'isolamento dei singoli, il declino delle reti welfaristiche, il cortocircuito
dell’ascensore sociale che sembra precipitare incessantemente verso il
basso. All’apparire di questi e altri sintomi di una patologia che, ancorché
nota, sfugge a un’anamnesi certa, si è levato il grido d’allarme di psicologi
e sociologi, come pure la grancassa dei media che riportano costantemente
l’attenzione del pubblico a quella “liquefazione” dell’esperienza con
cui un pubblico quiescente si è familiarizzato.
Forti degli studi già intrapresi per rilanciare il dibattito sull'ineluttabilità
delle trasformazioni evocate – studi che abbracciano le dinamiche della
globalizzazione, della governamentalità nel postmoderno, della diffusione
di capitalismi senza diritti – intendiamo concentrarci sull’aspetto visibile
della conversione della flessibilità in precarietà: il passaggio repentino
da un orizzonte di attese in cui si bilanciavano “realizzazione professionale/efficienza”
a uno definito dalla totale asimmetria della coppia “investimento su di
se'/impiegabilità”.
Quei lavoratori senza progetti, cui sarcasticamente si allude nel titolo,
debbono essere sempre pronti ad un nuovo incarico (non a caso si parla
di missione), capaci di immaginarsi in nuove attività, plastici e performanti;
traggono la loro motivazione e un’improbabile compensazione in un’impiegabilità,
sempre revocabile e provvisoria, che trasforma il lavoro in una ricerca
trobadorica, in un percorso spirituale. La possibilità di accedere ad
un’occupazione è vincolata a un continuo rimodellamento della proprie
caratteristiche, attitudini, abilità, con un dispendio di risorse, materiali
e simboliche, che supera ampiamente la riorganizzazione di tempi e spazi
di vita in funzione della produttività imposta dal fordismo, o l’iperidentificazione
con il proprio lavoro nel senso weberiano del sentirsi vocati a ciò che
si fa.
Tuttavia, non c’è percorso spirituale che non si proponga di forgiare
il corpo con proprie tecniche, precetti, indicazioni. La “filosofia dell’impiegabilità”
non è esente da tale tentazione: propone ai suoi tanti seguaci ricette
e metodi per valorizzare le proprie potenzialità e collocarle opportunamente
sul mercato.
Inoltre, la condizione di estrema dipendenza in cui si trovano gli individui
impegnati in una ricerca di lavoro disperata e disperante, azzera con
la capacità di previsione, quella, tipicamente umana, della progettualità.
Gettate nel qui ed ora di una situazione che evoca scenari darwiniani,
le nutrite schiere dei precari sono ricacciate nella naturalità del loro
“essere corpi a disposizione”, forza che deve essere incanalata, come
nel caso dei corpi dolenti degli immigrati, cui si chiede di sparire nei
buchi neri del lavoro irregolare, o della “mezza forza”, tanto apprezzata
per la sua abitudine antica ad adattarsi a condizioni di lavoro non negoziabili.
Sappiamo che la precarietà ingenera una povertà relativa che, almeno nei
paesi sviluppati, raramente, si traduce nella mancata soddisfazione dei
bisogni primari. Più spesso, ciò il male che affligge la vita precaria
è un immiserimento serpeggiante che determina un’angoscia costante rispetto
alle esigenze quotidiane e l’esclusione dai riti sociali che implicano
una maggiore capacità di spesa – come avere un hobby, frequentare regolarmente
amici e conoscenti, abbandonare la città nei giorni di festa.
Non sappiamo ancora precisamente come l’identità personale sopravviva
alla sua destrutturazione- con la possibilità di riconoscersi in un’occupazione
e di immaginarsi nel tempo, viene meno il senso di appartenenza ad un
insieme di strutture e credenze di durkheimiana ascendenza.
Ci siamo proposti di indagare gli effetti sui percorsi di una soggettivazione
“precaria”, volgendoci alla vita. Nel farlo, teniamo a mente una lezione:
Nella precarietà, anche i “dati” sono precari. La mutevolezza dei riferimenti
è tale che le situazioni, altamente frammentarie ed effimere, presentano
sempre nuove configurazioni, emersioni ed immersioni, illuminazioni ed
oscuramenti. [2]
Ci siamo chiesti come i singoli reagissero ad una pressione crescente,
che origina non soltanto stati depressivi, stress o distress, incluse
le sindromi legate alla cosiddetta “costrittività organizzativa” o burn
out, ma stravolge i ritmi di vita con giornate che superano le dieci ore
di lavoro o col protrarsi di prestazioni professionali logoranti, spesso
in assenza degli opportuni controlli. L’ottimizzazione delle performances
passa attraverso una serie di piccole e grandi dipendenze, implica un
indurimento psichico e somatico che pure stride con l’agenda del salutismo
imperante.
Ci interessa sapere se le modalità di somatizzazione divergono a seconda
della mansione, del livello professionale, della richiesta, dell’età e
del genere e se suggerimenti utili possono giungere dall’incontro di competenze
ed esperienze diverse.
Il punto di partenza è una ricognizione sulla particolare società che
le trasformazioni del mercato del lavoro, prima evocate, hanno plasmato,
esplorando le nuove identità professionali individuali e collettive che
ad esse conseguono e tentando di descriverne le implicazioni sui singoli.
Gli strumenti di cui ci si è avvalsi per fornire uno spaccato di una realtà
in evoluzione, da cui non ci separa ancora una profonda distanza, sono
molteplici. Anzitutto, si è proceduto ad un’analisi storica e filologica
della nozione di precarietà, anche sfidando i luoghi comuni e gli approcci
correnti al tema. Ciò impone di adottare un'attitudine critica rispetto
ai label abitualmente invocati nel discorso accademico sulla “cattiva”
flessibilità del lavoro.
Ci orientano nel nostro percorso, alcuni riferimenti culturali condivisi,
con cui interlocuiremo anche polemicamente, per meglio comprendere il
segno di una trasformazione che ha ricadute importanti sulla percezione
del sé, dello spazio, del tempo.
Il primo è, senz'altro, André Gorz. Gorz sosteneva che la sfera produttiva
sarebbe diventata totalizzante quando si fosse azzerata la distinzione
fra tempo della vita e tempo del lavoro, quando la logica dell’ottimizzazione
e della valorizzazione si fossero imposte e avessero colonizzato le scelte
private; la profezia sembra aver trovato compimento proprio nell’avvento
del lavoro della conoscenza caratteristico di un modello produttivo, il
toyotismo che, se rivaluta forzosamente le abilità del lavoratore, individualizza
il rischio a livello globale. Rischio ed incertezza che vengono, impropriamente,
descritti nei termini di un’imprenditorialità diffusa in cui ciascuno,
ponendosi sul mercato con un diverso bagaglio di competenze e di capitale
da investire, affida la propria riuscita al libero gioco di interessi
della domanda e dell’offerta. Da tempo, infatti, si va affermando una
mutata visione dei rapporti di lavoro: sfuma la differenza nelle prerogative
di datore di lavoro e lavoratore che si vorrebbero equiparati nell’assunzione
di responsabilità sociali ed economiche. Si tratta, in fondo, di una differenza
obsoleta che, allo stato attuale, si mantiene solo nella scala; l’azienda
individuale presenterebbe gli stessi problemi e gli stessi interessi del
consulente o del collaboratore a progetto alla ricerca di un incarico.
Ben sappiamo che la retorica dell’autonomia e del responsabilismo funziona
come sovrastruttura ad un processo di devoluzione degli oneri sociali
che investe, nei paesi occidentali, tutti gli ambiti prima coperti dall’intervento
statale. A partire da tali premesse, potrebbe persino essere corretto
affermare che il vantaggio competitivo ed economico che derivava dall’aver
intrapreso un percorso di lavoro autonomo è oggi azzerato. Assistiamo
da tempo allo sgretolamento della piccola impresa che, dopo i ruggenti
anni Novanta, ha patito l’effetto di cattura della delocalizzazione dei
grandi gruppi e annaspa fra le lungaggini delle politiche industriali
nazionali. Per quanto riguarda le professioni liberali, il problema sta
ancora a monte- sopravvivere senza venire assorbiti da uno studio o da
una società di servizi è pressoché impossibile nello scenario di un turn
over bloccato dai meccanismi corporativi e dalla tendenza a federarsi
per mettersi al riparo dai rovesci e fronteggiare la concorrenza con un’offerta
più vasta.
Senza dubbio, l’elemento di maggiore discontinuità rispetto al passato
non risiede tanto nella riduzione delle fette di mercato disponibili per
la piccola impresa, nel contesto dei paesi sviluppati, quanto nell’ibridazione,
ad essa conseguente fra il lavoro autonomo e dipendente. Se nel lavoro
salariato classico l'asservimento originario era coatto, l'impiego attuale
è sfruttamento integrale di un individuo socialmente prodotto come agente
del suo stesso asservimento: ciò che viene richiesto, infatti, non è solo
la prestazione temporale di forza-lavoro, ma anche l'adesione agli intenti
in nome di un bene superiori, l'introiezione di un credo sociale. Tale
atteggiamento è tanto più manifesto nell'ambito del cognitariato, delle
cosiddette professioni liberali, di quelle attività che implicano un elevato
investimento, materiale e simbolico, per l'acquisizione delle competenze
di ruolo e favoriscono lo svilupparsi di un elevato senso di appartenenza.
Nell'ultimo decennio, importanti autori si sono cimentati nell'analisi
di quella che, per una breve stagione, si è definita come società della
conoscenza: radicata la convinzione che la maggiore autonomia, implicata
dalle stesse trasformazioni del mercato, avrebbe spezzato l'asservito
dei singoli e accresciuto il potere contrattuale dei singoli. La predizione
è stata smentita dalla dura realtà della contrattazione a ribasso, del
ricatto occupazionale, di un'imprenditorialità fittizia che, nei fatti,
mutilava ulteriormente le possibilità negoziali degli individui. In tal
senso, l'immagine topica del giovane manager con portatile e pilotina,
perennemente alla ricerca di una nuova posizione, descrive in modo molto
carente una realtà composita, in cui il dinamismo è più che altro apparente.
A fronte di una crescente resistenza delle classi dirigenti alla trasformazione,
i costi della flessibilità vengono scaricati prevalentemente sui settori
più deboli, ovvero sui lavoratori meno qualificati, e sulle nuove leve
che si trovano, sovente, al di là delle tutele corporative premessa al
patto di solidarietà caratteristico della società post-salariale - il
tutto, in un quadro di mobilità sociale estremamente limitata, la competitività
interna e esterna estreme, l’arbitrio di committenti non trova un contraltare
nello scarsissimo potere negoziale degli ingaggiati. Costantemente esposti
ai rovesci della discontinuità professionale, i lavoratori dell’oggi ripongono
le loro speranze nel intricato sistema di conoscenze, di relazioni familiari
o personali che aprono alla possibilità di un colloquio o di un incarico
volante. Ciò valica le logiche del clientelismo e della cooptazione sociale,
più o meno attive ad ogni latitudine e si precisa in una rinegoziazione
del rapporto di lavoro: la contrattazione individuale ha spianato la strada
per una letterale privatizzazione dei meccanismi di reclutamento, di incentivazione
del lavoro, di risoluzione dei contenziosi. Nell’orizzonte concettuale
della vecchia etica del lavoro si concepiva il lavoro come una “vocazione”,
si rispondeva ad una chiamata e si intraprendeva la strada cui le personali
inclinazioni avevano condotto- ed era vero per pochi, per gli altri si
trattava di affrontare gli scossoni dell’esistenza con un mestiere. Non
si tratta, però, di una generalizzazione del concetto, perché, di fatto,
si seguita a venire scelti, ma, più prosaicamente, dalle persone e dalle
circostanze.
A dispetto del suo carattere aleatorio, la dimensione della scelta rappresenta
un elemento di grande importanza per comprendere le condizioni in cui
il singolo aderisce ad un sistema di rapporti in cui si identifica profondamente,
si sente valorizzato, realizza le proprie istanze profonde – un sovrainvestimento
in termini di identificazione con la professione svolta e con i valori-guida
di quel dato settore – e, per converso, consolida un ricco sistema di
scambio e di circolazione ignoto alla rigidità della divisione del lavoro
fordista. Piacere, persuadere, convincere è ciò che si chiede al lavoratore
che, nella maggior parte dei casi, può mettere in campo solo una straordinaria
abnegazione – rappresentata come serietà o cooperatività. [3]
Il secondo riferimento è Klossowski che, ricordando come il valore di
scambio sia dato proprio dall’annullarsi della vita nelle cose osservava
che perché “la présence corporelle est déjà marchandise , indépendamment
et en plus de la marchandise que cette présence contribue à créer”.
Riaffermare la distanza fra datore di lavoro e lavoratore, magari ridimensionando
significativamente la propria disponibilità nei tempi e nelle modalità
di contatto è percepita come una manifestazione di ostilità: significa,
in una certa misura, porsi al di fuori della relazione che si è instaurata
ed è premessa al corretto svolgimento dell’attività lavorativa. Di qui,
l’imperativo del “fare gruppo” che interviene al più antico e ideologico
“unirsi nei momenti di difficoltà”. Evidentemente, la differenza è sostanziale
e affonda le radici in una malintesa interpretazione del modello concertativo;
nel momento in cui l’impresa utilizza il registro della dimensione esistenziale
– scegliere la propria strada, crescere, fare un percorso comune – il
conflitto fra interessi contrapposti cessa di figurare fra le opzioni
disponibili. E, tuttavia, mai come oggi gli ambienti di lavoro sono percorsi
da conflitti profondi, latita il rispetto fra colleghi, si avverte uno
scollamento profondo tra gli obiettivi delle dirigenze e quelle dei dipendenti.
La fidelizzazione all’ambiente di lavoro è minima persino nei “privilegiati”
già incardinati nelle strutture che si sentono penalizzati da coloro che
premono alle porte dell’azienda, più flessibili, giovani, motivati al
lavoro. In tutto ciò, quello che è stato il movente della grande fuga
dalle tutele collettive- la ricerca di una maggiore gratificazione economica-
se non è espunto passa in secondo piano.
Visibili a tutti le contraddizioni evocate delineano uno scenario profondamente
diverso, tanto per chi è attivo sul mercato, quanto per chi vi partecipa
come fruitore o consumatore di servizi: descritto, vissuto e percepito
in termini ben diversi da quelli normalmente invocati dalla logica stringente
del rapporto commerciale, il lavoro si è trasformato in una conquista,
ove il movente della valorizzazione e l’investimento identitario sono
dominanti e caricano di aspettative altre l’attività professionale. Si
fa allora dominante l’aspetto della relazionale- le implicazioni umane
e sociali- che maschera la venalità del rapporto e la sua finalizzazione
produttiva e non soltanto muta il rapporto col lavoro e disegna un altro
tipo di patto sociale. [4]
I contributi mettono in discussione la stessa definizione di precarietà.
Per riflettere sul tema della precarietà, dobbiamo sgombrare il campo
dalle definizioni stereotipate della precarietà: restringendo il campo
e focalizzandosi sull'utilizzo che ne viene fatto mediante l'aggettivazione:
precario può definire un’occupazione, un inserimento, una situazione.
De-sostanzializzare la precarietà significa restituirla a significati
molto più generali che sono, in larga parte, ineliminabili e distintivi
della condizione umana, poiché un quantum di incertezza è fatalmente presente
nell'esistenza umana.
Non è un caso che il ricorso all'espressione si sia generalizzato in un
immaginario dominato dall’ossessione di controllare il rischio, di dominarlo,
di prevederlo. Tanto auspicata, quando prometteva ricchezza e sviluppo,
la “precarietà”, allora si chiamava flessibilità, produce una focalizzazione
sugli effetti di scelte economiche e strategiche non efficaci o lungimiranti.
Deplorare la precarietà è una forma di cattiva coscienza: reca in sé il
desiderio puerile di negare con la precarietà i fenomeni sociali che si
sono prodotti all’ombra di trasformazioni non governate.
Perché non parlare di sotto-occupazione, di retribuzione inadeguata e
non congrua, di ritardo normativo e giurisprundenziale sul lavoro, di
disagio sociale o, più semplicemente di povertà? Lo spiegava, tempo fa,
Sergio Bologna, denunciando la sinistra convergenza di opposizioni, parti
sociali, imprese nella crociata contro il lavoro precario. La continuità
contrattuale sarebbe antidoto ad una serie di prassi consolidate (violazione
degli orari di lavoro, deroga ai diritti minimi dei lavoratori, imposizione
dei tempi di vita, etc) nella quotidianità del lavoro e contrasterebbe
l’evidente iato fra le aspettative del singolo, socializzato ai modelli
dell’autorealizzazione nel lavoro di matrice liberale e la logica stringente
di un profitto che torna a guardare alla quantità e alla competizione
al ribasso coi paesi del capitalismo senza diritti.
La difesa titanica del posto fisso acquisterebbe allora una valenza regressiva
e normalizzante: l’intervento dirigista non sarebbe inteso a fornire maggiore
tutele al lavoratore, ma a stabilizzare un sistema che non si è emancipato
dal controllo statale.
Spacciata per causa del malessere sociale e dell’incertezza, la flessibilità
mal governata è solo l’ effetto di una strategia che ridefinisce i criteri
di allocazione delle risorse, riducendo drasticamente la mobilità sociale
e restaurando i vecchi sbarramenti alle professioni.
Statalismo per le imprese, liberismo spinto per i lavoratori. Il mercato
del lavoro presenta ancora delle rigidità incompatibili con il presupposto
della flessibilità: mettere alla prova le capacità del singolo, farle
fiorire, non operar delle scelta sulla base di stereotipi. La libertà
delle scelte è sacrificata all’individuazione del “giusto percorso”, possibilmente
privo di ostacoli e inciampi. Contro una retribuzione miserrima e una
fortissima discontinuità del lavoro, il lavoratore deve offrire fedeltà,
dedizione e identificazione cogli obiettivi aziendali. Mai come oggi,
vengono valutati positivamente la coerenza fra gli studi e l’occupazione,
la continuità in una stessa mansione, la linearità del percorso esistenziale.
Mai come tali scelte sono possibili sono a fronte di un investimento corposo
e di una serie di circostanze fortuite- circostanze che non toccano chi
“ha bisogno di lavorare”.
La versatilità, lo sperimentarsi in contesti diversi, l’acquisire conoscenze
e competenze diverse rappresentano un handicap nella ricerca di lavoro.
Un tempo perseguita da chi resisteva alle pressioni della società massificata
del lavoro per affermare propri valori e una più pronunciata libertà personale,
la precarietà di cui ci parlano giornali e tv funziona come una pedagogia
dell’ordine. Chi si mette alla ricerca di un’occupazione è sottoposto
a questo avventiziato, in cui le sue decisioni vengono vagliate attentamente
e ricondotte ad un canone di comportamenti razionali rispetto alla scopo
della sopravvivenza. Chi tenta di rendersi protagonista della sua precarietà,
di trasformarla in un’eventuale occasione di miglioramento, si espone
al rischio di venire espulso dal circuito virtuoso del lavoro e di restare
intrappolato nella precarietà.
Allora, torniamo ad una precarietà che era intimamente anarchica e che
costituiva il punto di rottura in un sistema di rapporti cimentati dal
posto fisso (dal posto che ciascuno occupava nella società),
Note
1] A. GORZ, L’immateriale. Conoscenza,
valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 85, Cfr. pure
Ibidem, p. 20.
2] M. A. TOSCANO, Homo instabilis.
Sociologia della precarietà, a cura di, Jaca Book, Milano, 2007, p. 29.
3] P. COPPO, S. CONSIGLIERE, S.
PARAVAGNA, CONSIGLIERE- PARAVAGNA, Da dentro: relazioni con il possibile,
in Il disagio dell'inciviltà. Forme contemporanee del dominio, Edizioni
Colibrì, Paderno Dugnano, Milano, 2000, pp. 105-137, cfr. in particolare
p. 106.
4] Sulla suggestione del doppio
mascheramento della relazione umana Cfr. TIQQUN, “Théorie de la Jeune
fille”, ove si affronta diffusamente il tema e si propone un’originalissima
antropologia della società moderna, costruita attorno alla convinzione
che sia intervenuta una generalizzazione dei rapporti di dominio, proprio
nella fase in cui si ritenevano sgominati. Dal punto di vista del lavoro
si traduce in una continua “messa a disposizione” del singolo che si quota
sul mercato, anche e soprattutto, in ragione delle sue doti relazionali,
della capacità di stare in una relazione in cui, le sedicenti implicazioni
affettive, vengono fatte brutalmente rientrare nella contabilità mercantile
del profitto.
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