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  • Somatisation de la précariété
    Roberta Cavicchioli et Andrea Pietrantoni (sous la direction de)

    M@gm@ vol.9 n.2 Mai-Août 2011

    “I WOULD PREFER NOT TO”: NOTE SU PRECARIETÀ E SOGGETTIVAZIONE *

    Paolo Vignola

    albengadipaolo@libero.it
    Dottore di ricerca in Filosofia, è autore di saggi sul pensiero francese contemporaneo, sulla comunicazione mediatica e sul rapporto tra innovazioni tecnologiche e soggettività. È membro del comitato di consulenza scientifica della rivista "Millepiani" e collabora con diverse riviste filosofiche, tra cui "Kainós" e "Officine filosofiche". Attualmente è borsista post-doc (2010-2013) e svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università di Genova. Oltre ad aver curato, assieme a Paolo Aldo Rossi, il volume Il clamore della filosofia. Sulla filosofia francese contemporanea (Mimesis, Milano 2011), ha pubblicato Le frecce di Nietzsche. Confrontando Deleuze e Derrida, ECIG, Genova 2008, e La lingua animale. Deleuze attraverso la letteratura, Quodlibet, Macerata 2011.

    Bartleby lo scrivano, celebre racconto di Melville, narra la storia di un copista nello studio di un avvocato che, di fronte alle richieste di quest'ultimo, mette in atto una radicale forma di resistenza linguistica: «I would prefer not to», «preferirei di no». Con tale formula, ripetuta in risposta ad ogni richiesta, Bartleby esprime il proprio rifiuto del lavoro e dell’autorità della persona per cui lavora. Il “preferire di no”, tuttavia, è espresso in forma condizionale, quindi non è un rifiuto a tutti gli effetti e, a prenderla alla lettera, tale formula non permette una risposta conseguente; la comunicazione è perciò destinata a interrompersi, come dovrebbe esserlo il rapporto di lavoro. Nel racconto, però, il licenziamento non è affatto immediato e Melville può così descrivere l’aggravarsi di tale rapporto che condurrà Bartleby, dopo varie vicissitudini, a morire di fame in prigione, senza aver mai smesso di applicare la propria formula di fronte alle richieste e agli inviti di chiunque.

    Il racconto di Melville contiene, in nuce, una serie di problematiche caratteristiche di buona parte della dimensione lavorativa attuale, di cui l’aspetto comunicativo-relazionale sembra essere l’elemento predominante. Quanto invece la formula di Bartleby abbia senso per la soggettività del lavoratore precario in particolare non è così intuitivo, ma è proprio ciò che queste pagine cercheranno di dimostrare.

    Che la formazione del soggetto, come singolo essere umano inserito in una molteplicità di relazioni sociali, sia legata all'attività lavorativa è storicamente un’evidenza, ma negli ultimi trenta anni è emerso un fenomeno che al tempo stesso amplifica e rovescia tale dinamica. Per un verso infatti non si può negare il ruolo formatore di soggettività che la diversificazione dei ruoli lavorativi detiene ancora oggi, ma il mutamento – in termini estensivi e inglobanti – del rapporto tra tempo produttivo e tempo improduttivo giunge a istituire un piano di esistenza le cui coordinate dipendono direttamente dalle variabili che il mondo del lavoro esibisce. In altre parole, se oggi sembra realizzarsi una precarizzazione della vita a partire dalla precarizzazione del lavoro, ciò non è dovuto solamente alle condizioni socioeconomiche che un determinato impiego può offrire, ma essenzialmente al fatto che “la vita stessa è stata messa al lavoro”, nel senso che nessun aspetto dell’esistenza sfugge alla dimensione produttiva. Indagare il peso che il rapporto tra vita e lavoro esprime nella formazione di soggettività è allora l'obiettivo di questo contributo, teso alla ricerca di strumenti concettuali idonei a esplorare il significato della precarietà e orientare possibili percorsi di “resistenza”.

    Soggetti al lavoro

    Secondo Ulrich Beck, «nella modernità avanzata la produzione sociale di ricchezza va sistematicamente di pari passo con la produzione sociale di rischi» [1], nel senso che, con la crescita esponenziale delle forze produttive, il processo di modernizzazione della società libera rischi dalle dimensioni inedite che coinvolgono, non soltanto il piano ecologico, ma anche le biografie dei singoli soggetti. D’altro canto, la figura del soggetto, che su vasta scala si può delineare, è ben differente da quella dei suoi predecessori, anche solo di trenta anni fa. Al posto dell’ideale generalmente condiviso del raggiungimento di una felicità standardizzata, si è fatta strada la volontà di realizzazione di se stessi in base alle proprie attitudini e capacità, mediante scelte personali che, appunto, mostrano opportunità e rischi fino a pochi anni fa imprevedibili. Per muoversi in una società del rischio, per fare le proprie scommesse, il soggetto deve mettere al lavoro qualità personali come la destrezza nel cogliere le occasioni, la velocità nell’anticipare le tendenze del mercato, del lavoro e della società, l’abilità nel reimpiegare le proprie risorse e capacità. Il soggetto sembra quindi non poter sfuggire all'opportunismo, e ciò non tanto per via di un egoismo sfrenato, ma per una condizione generale dettata dalla paura di perdere, nella rete delle scommesse lavorative ed esistenziali, le poche sicurezze percepibili. “Fare di necessità virtù” è la formula che sempre più lavoratori, specie se legati a contratti a termine o “atipici”, incarnano nel presente. Ma qual è, in realtà, la necessità del soggetto?

    Considerando il lavoro come un dispositivo – ossia un insieme strategico ed eterogeneo di rapporti, saperi, enunciati, istituzioni economiche, regolamenti – che produce effetti di potere sul vivente, è possibile osservare la variazione di influenza sui processi di soggettivazione in atto negli ultimi decenni. Il dispositivo lavorativo attuale spinge a rischiare le proprie competenze costruendo, da un lato, il singolo lavoratore quale attore delle proprie risorse e, dall’altro, un'offerta differenziale basata su forme contrattuali personalizzate e ruoli gestionali ritagliati sulle singole attitudini. Ciò che viene organizzato è l’intera soggettività, nel senso che l’individuo è letteralmente catturato da dinamiche di investimento che, nella migliore delle ipotesi, ne fanno un imprenditore di se stesso, non per una volontaria ascesa sociale ma per la più normale sopravvivenza.

    Per delimitare i contorni del problema, è necessario intendersi sul senso che si dà, in questo testo, alla “soggettività” e al “processo di soggettivazione”. Possiamo definire la soggettività come un insieme, in continua trasformazione, di facoltà e attitudini che contraddistinguono la vita di una persona immersa in uno spazio sociale. Facoltà che definiscono le potenzialità linguistiche, comunicative e di relazione, le competenze, le abilità di gestione, decisione e controllo, la sfera degli affetti e dell’emotività, la capacità di comprendere i propri limiti e migliorarsi. Per “processo di soggettivazione” è invece da intendersi il lavoro di formazione e trasformazione soggettiva dell’individuo. Tale processo implica un soggetto che ha da inventare se stesso mediante legami affettivi, sociali o culturali, e, in ciò, è fortemente condizionato dai dispositivi di sapere e di potere presenti nella società. La soggettività è insomma un continuo processo generativo, e le pratiche sociali che costellano la vita dell’individuo sono innanzitutto processi di produzione della soggettività stessa.

    Quando si afferma che, oggi, la produzione richiede l'individuo nella sua interezza, si comprende in essa anche la rete di riferimento del soggetto – che va dai legami familiari agli amici, ai colleghi o compagni dei più svariati corsi di formazione o specializzazione – e dunque, in buona sostanza, la sua personalità che si è formata proprio attraverso tali legami. “Mettere al lavoro” la personalità significa impiegare la sensibilità soggettiva nei suoi molteplici aspetti, il cui minimo comun denominatore è la comunicazione in senso generale: capacità di interpretare e gestire i rapporti intersoggettivi, abilità nell'intercettare le aspettative della clientela, del datore o del gruppo di lavoro, e nel raggiungere l'ottimizzazione del rapporto tra la sfera della produzione e quella del consumo. Il problema paradossale è che, proprio quando la soggettività tout court diviene fattore produttivo, mediante la dimensione sempre più “personale” del lavoro, ciò che scompare è la possibilità, per le “persone”, di definire una propria biografia coerente o unitaria. Per quel che ci interessa, è sufficiente considerare la scomparsa di una rigida delimitazione relativa agli spazi e ai tempi di lavoro per incominciare ad analizzare la precarietà dei processi di soggettivazione odierni.

    Si può pensare alla precarietà lavorativa come un'estensione del rapporto tra vita e lavoro della logica toyotista – egemone in questa fase – del just in time, nel senso che proprio come le materie prime o grezze devono pervenire ed essere affidate alla produzione “giusto in tempo” per essere messe in vendita in un preciso momento, anche la forza-lavoro deve essere utilizzata – e quindi acquistata – solo (fino a) quando è necessaria [2]. Possiamo a buon diritto parlare di “lavoro usa e getta” e, “rispolverando” Heidegger, la definizione dell’uomo come “essere gettato nel mondo” [3] appare, a prima vista, centrale come descrizione dell’innesco del processo di soggettivazione di chi si trova alle prese con contratti a tempo determinato, di collaborazione a progetto o alterna disoccupazione e impieghi stagionali. È infatti a partire dalla percezione di esser (stati) gettati nel mondo della produzione post-fordista, e dunque al di fuori della rete di sostegno socio-economico che ancora definiva l’orizzonte della generazione lavorativa precedente, che si fa strada la necessità di convivere con la dimensione precaria dell’esistenza.

    Possiamo allora estendere il significato di precarietà oltre la dimensione del lavoro precario [4]. Sullo sfondo di un lavoro a tempo determinato, magari regolato da un contratto privo delle garanzie “tradizionali” (relative a malattia, ferie, maternità, ecc.), si presentano le incertezze legate alla contrattazione personale e personalizzata della propria condizione lavorativa. Come se ciò non bastasse a “flessibilizzare” la vita del “precario”, anche le relazioni sociali, familiari e amicali risentono di questa instabilità. La flessibilità del lavoro infatti, come ha mostrato Sennett, induce a un mutamento continuo della percezione di sé, fino a «corrodere il carattere, e in particolare quei tratti del carattere che legano gli esseri umani tra di loro e li dotano di una personalità sostenibile» [5]. La soggettività del lavoratore, il cui tempo è scandito da contratti a breve termine, rischia di ridursi ad «un collage di frammenti sottoposti ad un incessante divenire», incapace perciò di trasformare le proprie esperienze in un'autonarrazione dotata di senso, per sé e per gli altri [6]. Inoltre, l’imprevedibilità riguardo a un futuro prossimo delle strutture sociali di sostegno – quando non si tratta già di un loro smantellamento in atto – come l’assistenza sanitaria, il pensionamento, il “trattamento di fine rapporto”, non può che annebbiare l’orizzonte di vita del singolo individuo. È allora riduttivo parlare di “lavoratore precario” di fronte ad una costellazione di elementi della biografia individuale segnati dall’instabilità e dall’incertezza. Siccome tali elementi sono comuni anche a molti dei lavoratori garantiti da contratti a tempo indeterminato, si palesa l’urgenza di descrivere l’individuo in quanto tale, nella sua generalità e universalità, come soggetto precario [7].

    Si è fatto riferimento alla “messa al lavoro” della personalità del lavoratore e delle sue capacità soggettive. “La vita stessa viene messa al lavoro”: la vita di tutti, nelle più generali facoltà umane, come il linguaggio, la capacità di attenzione o di adattamento, e la vita di ognuno, nelle sue più particolari qualità. Ora, mettere al lavoro le proprie facoltà può risultare piacevole, poiché viene data la possibilità di essere inventivi, di instaurare relazioni affettive o approfondire conoscenze. Il fatto però che tale opportunità rientri integralmente nella dimensione produttiva, e che, a lungo andare, diventi sempre più difficile usufruire delle proprie facoltà "liberamente" rispetto all'ambito e alle procedure lavorative, getta una pesante ipoteca proprio sulla loro piacevolezza. Quando poi sono gli affetti del soggetto, anche solo indirettamente, ad essere messi in gioco, il confine tra piacere e dolore può sfumare nel giro di pochi secondi lavorativi. Come afferma Marazzi, se «si mettono al lavoro la comunicazione e le relazioni intersoggettive si mettono al lavoro i sentimenti, le emozioni, la vita intera delle persone. La sofferenza, il dolore, l'umiliazione sul posto di lavoro sono stati in questi anni gli obiettivi bellici del liberismo economico» [8].

    Se, parlando del rapporto tra il soggetto, il dolore e il piacere, ci riferiamo all'analisi di Stefania Consigliere, possiamo leggere con precisione la portata degli effetti “spiacevoli” del dispositivo "lavoro" sui soggetti, specie se questi ultimi sono lavoratori precari. Consideriamo innanzitutto piacere e dolore quali indici del processo di soggettivazione: «“piacere” diventa allora il nome percettivo del processo di individuazione che si realizza o procede, “dolore” il nome percettivo del processo di individuazione che si arresta» [9]. Pensati dinamicamente, piacere e dolore sono poli di un movimento di apertura/chiusura nei confronti del mondo. In tal senso, «il piacere porta “fuori di sé”, oltre i limiti identitari», tramite un movimento che procede per individuazioni successive. Come si realizza questo “processo di individuazione”? Mediante l'apprendimento e il dispiegamento delle facoltà, ossia delle capacità che il soggetto acquisisce o possiede in potenza e che solo tramite la loro attualizzazione nella singola vita divengono concrete, percettibili: «l’apprendimento delle facoltà produce i soggetti, e questo non è che l’inizio: l’uso libero delle facoltà continua in ogni momento a istituirli, proseguendone l’individuazione» [10]. In quest'ottica, non soltanto si afferma il principio secondo cui «la soggettività non è nulla di già dato […] è solo produzione di soggettività» [11], ma si creano le condizioni per stabilire un rapporto profondo tra piacere e messa in opera delle facoltà, che risulta centrale nella dimensione lavorativa odierna.

    A tal proposito, è utile ricordare che la parola “lavoro” deriva dal latino labor, indicante in origine l'attività che comportava fatica, sforzo e sudore; più in generale, il termine ha finito per significare pena, fatica o sofferenza. Niente di più vero, verrebbe da dire. Dal punto di vista del soggetto, del suo processo di formazione, però, «il labor del lavoro che trasforma e produce è, al contempo, il piacere delle facoltà che si dispiegano» [12]. Non importa, al limite, quali facoltà vengano dispiegate nel lavoro, poiché ognuna di esse, se messa all'opera in modo ottimale, può provocare un certo grado di piacere – quindi non è importante nemmeno il tipo di lavoro da eseguire. Importante è semmai come possono essere utilizzate le nostre facoltà. Il problema risiede nel far sì che l'utilizzo delle facoltà sia realmente fonte di ulteriore soggettivazione e non semplice e reiterato logorio delle proprie capacità. Giunge allora una domanda inevitabile: su quale base distinguere, nella messa al lavoro delle facoltà, il potenziamento della soggettivazione dal suo arresto, dal suo indebolimento o dal suo “spreco”? Si ritrova qui il delicato compito di orientare il soggetto in una strategia di resistenza che non sia solo una difesa di ciò che si possiede, ma che abbia il coraggio di proseguire il movimento, il processo di soggettivazione; qui l'apporto teorico di Gilbert Simondon risulta indispensabile.

    Per Simondon – che rovescia l'assunto tradizionale della filosofia politica moderna, basato sulla originarietà e relativa autonomia dell'individuo rispetto all'insieme sociale – l’individuo è solo il risultato parziale e provvisorio di una serie di operazioni di individuazione che avvengono nella dimensione collettiva, e tramite essa. Parziale perché esso non potrebbe esistere senza un ambiente a lui associato, e provvisorio poiché il mutare delle proprie condizioni di esistenza può innescare un nuovo processo di individuazione. Dal punto di vista terminologico è però necessario, per la nostra analisi della soggettività, chiarire che Simondon non assimila il soggetto all'individuo.

    Il soggetto è l’insieme formato dall’individuo individuato e dall’apeìron che esso reca con sé; il soggetto è più dell’individuo; […] Il nome di individuo è attribuito a torto a una realtà più complessa, quella del soggetto completo, che porta in sé, oltre alla realtà individuata, un aspetto non individuato, preindividuale, ovvero naturale. […] Gli esseri sono connessi gli uni agli altri nel collettivo non in quanto individui, ma in quanto soggetti, cioè in quanto esseri che contengono un che di preindividuale [13].

    Il processo di soggettivazione che abbiamo fino a qui considerato guadagna così una qualità ulteriore, dettata dalla imprescindibilità della dimensione collettiva. Mentre l'individuo “si individua” [14] grazie al gruppo di individui nel quale è immerso (“gettato”?), il soggetto, nel suo costruirsi tramite legami, si “soggettivizza” assieme al collettivo, mantenendo così sempre un coefficiente di “apertura” (l'apeìron di Simondon) al suo interno.

    Nella dimensione lavorativa, il processo di soggettivazione riguarderà allora il soggetto tra percezione di se stesso, come individuo, e degli altri, in quanto parte non totalmente disgiunta da sé. L'individuazione in quanto potenziamento, o affinamento, delle proprie facoltà può proseguire, quindi essere piacevole e aprirsi a nuove fasi, se vengono salvaguardate le condizioni di esistenza della libera relazione tra soggetti. È utile, a questo proposito, pensare la dimensione collettiva in una prospettiva spinoziana, nel senso di un gioco di incontri fra affetti, passioni e sensazioni che entrano in comunicazione per combinarsi o per respingersi. Possiamo così usufruire di un principio eminentemente etico per definire in cosa consistano l'uso libero delle facoltà – il loro dispiegarsi negli incontri che ogni soggetto può avere quotidianamente – e le libere relazioni tra i soggetti. Se la forma attuale del lavoro promuove, in un sempre più ampio insieme di settori, la comunicazione, i giochi relazionali e la messa a valore della personalità, questi elementi, per diventare produttivi, non possono essere dispiegati secondo una radicale libertà d'espressione. Le relazioni, le capacità comunicative, le sensibilità soggettive vengono anzi codificate, in ambito lavorativo, attraverso procedure di reiterazione, di rarefazione, di standardizzazione indispensabili alla produzione. Tale dinamica si registra tanto nel rapporto tra il lavoratore dell'azienda e il cliente, quanto all'interno dei gruppi di lavoro o tra lavoratori di aziende diverse che necessitano di qualche forma di partnership. L'uso delle facoltà individuali e il costruirsi delle relazioni collettive, lungi dall'essere liberi e aperti a risultati indefiniti, sono controllati minuziosamente, al fine del raggiungimento di obiettivi determinati, ben definiti dal copione aziendale. Di fronte a questo fenomeno, è lecito domandarsi se, a causa di una così serrata codificazione dell'uso delle facoltà soggettive, lo stesso processo di soggettivazione non corra il rischio di essere sostituito da dinamiche tese a contrastare la crescita di soggettività, e ad abolire di fatto ciò che formalmente viene sempre più richiesto al singolo lavoratore: la propria personalità e la capacità di migliorarsi mediante le relazioni.

    Riprendendo l'analisi di Consigliere, le modalità con le quali sono messe all’opera le facoltà del soggetto, ai fini della produzione, sono in definitiva elementi di un dispositivo di controllo che tende all’irrigidimento della personalità piuttosto che al reale dispiegamento delle potenzialità soggettive. In tal maniera, l’attività lavorativa che prevede una possente carica cognitiva e “creativa”, sebbene in origine consenta al soggetto di raggiungere un certo piacere, non fa altro che portare fuori strada il processo di soggettivazione, ossia il dispiegamento delle facoltà. Piuttosto che promuovere il processo di soggettivazione, il dispositivo lavorativo, in quanto controllo del processo, «è in realtà una proceduralizzazione, che interrompe il movimento del soggetto prima che possa farsi soggettivazione e lo condanna alla ripetizione» [15]. È proprio questa ripetizione – che comporta arresto del processo e disseccamento dello slancio creativo – una delle dinamiche nelle quali vengono assorbite le facoltà e la personalità stessa del lavoratore, permettendo al significato più aspro del labor di ritornare a informare la dimensione lavorativa: «a fare resistenza al soggetto non sono solo la durezza della pietra o le cattive ingegnerizzazioni della fisiologia, ma anche la solidificazione delle relazioni, la necrosi delle forme di vita buona, la fossilizzazione della virtù e del desiderabile» [16]. Parlare di “dolore”, di fronte a queste forme di canalizzazione e di depotenziamento della soggettività, non è un modo per ingigantire ideologicamente il problema delle forme attuali del lavoro, bensì una prospettiva che prende in carico un aspetto dell'esistenza contemporanea ancora non esaurientemente studiato.

    Biopolitica e cura di sé

    Se vogliamo individuare la possibilità di preservare una dimensione di piacere, e dunque di "salute", all'interno del lavoro “precario”, è necessario stabilire le coordinate che garantiscano al percorso del soggetto un riparo dall'invasività del dispositivo lavorativo. Risulta però impossibile, all'interno di questo contributo, offrire tanto un'analisi esaustiva delle situazioni problematiche caratteristiche della precarietà, quanto una serie di proposte tese a risolverle. Di conseguenza, si prega il lettore di accogliere, in guisa di suggestione, la descrizione di un segnale di possibile sperimentazione, con la consapevolezza, da parte di chi scrive, del rischio che vi soggiace.

    Di fronte alla difficoltà nell'individuare un percorso salutare per il soggetto, le parole di Marazzi possono fornire un'utile indicazione: «soggettivamente facciamo esperienza quotidiana di processi che stanno rivoluzionando modi di vedere, categorie di pensiero, teorie scientifiche, ma questa esperienza soggettiva ed elementare [...] si scontra con linguaggi politici forgiati in altre epoche, svuotati di ogni riferimento a quanto esperito nella quotidianità da ciascuno di noi» [17]. Come dire che la salute da ricercare, in una società dove la comunicazione diviene motore del sistema produttivo, è forse, innanzitutto, salute linguistica. Se la comunicazione è il motore della produzione, mediante essa allora è necessario fare resistenza attiva, ossia favorire il processo di soggettivazione in maniera autonoma rispetto alle logiche produttive. È qui che i “preferirei di no” di Bartleby possono indicarci una possibile “resistenza” al dominio della comunicazione finalizzata alla produttività e, al contempo, essere i segnali di una traiettoria vitale per i nostri processi di soggettivazione.

    Riuscire a comunicare l'incomunicabile, ciò che non potrebbe in alcun modo essere detto – pena l'inasprirsi delle relazioni lavorative –, è sicuramente rischioso per un soggetto che si trova in una situazione di lavoro precario. Scansare tale rischio, d'altronde, è precisamente “la necessità da far diventare virtù”. Molte volte, però, comunicare quel che non potrebbe essere comunicato sul luogo di lavoro corrisponde al “parlare franco” di fronte a ciò che si sta vivendo. Esprimere il disappunto, in modo pacato – “al condizionale” –, che si prova nel coinvolgere i propri affetti in situazioni lavorative, o nel mettere al lavoro le proprie particolari qualità e attitudini oltre il tempo o le mansioni retribuiti, può essere l'occasione per sbloccare processi di soggettivazione congelati dalla reiterazione – o canalizzati dalle codificazioni – delle facoltà più personali. Anche se rischioso, dunque, l'atteggiamento à la Bartebly può essere intenzionato alla salute del soggetto e al suo “piacere”, che è, appunto, «cosa pericolosa nella misura stessa in cui mette i soggetti in condizione di scegliersi, di volta in volta, le condizioni più adatte alla forma della loro buona vita» [18].

    Applicare la formula di Bartleby sul lavoro, quando esso appare insopportabile per il processo di soggettivazione, corrisponde all'esercizio di quella tecnica greca di governo di sé che Foucault ha individuato nella parresia, ossia nel dire il vero, nel parlare franco di fronte a sé e agli altri: “preferirei di non mettere al lavoro i miei affetti, la mia personalità”, poiché si indebolirebbero, si svenderebbero, e con loro l'intera soggettività. La formula di Bartleby, a ben guardare, non è però solo esercizio di parresia, ma riguarda anche l'enkrateia, la padronanza di sé. In definitiva, esprimere, di fronte ai colleghi o al datore di lavoro, la propria reale e profonda (non)preferenza, relativa agli aspetti più soggettivi tramite i quali siamo nostro malgrado legati all'ambiente lavorativo, può essere concepito come un'attenta “cura di sé”, per la quale «si è chiamati ad assumere se stessi come oggetto di conoscenza e campo d'azione, allo scopo di trasformarsi» [19].

    Sono i Greci, per Foucault, ad aver inventato il soggetto come prodotto di una soggettivazione [20] che avviene per “ripiegamento” delle forze sociali, che lo raggiungono o lo sfidano, mediante la scoperta di una traiettoria. La cura di sé è precisamente «una traiettoria grazie alla quale, sfuggendo a ogni dipendenza e a ogni asservimento, si finisce per raggiungersi, per raggiungere se stessi, come un'oasi al riparo dalle tempeste o una fortezza protetta dai suoi bastioni» [21]. Questa cura di sé, senza tradire le sue origini greche, è da intendersi come una tecnica che «costituisce non già un esercizio della solitudine ma una vera e propria pratica sociale», che può condurre a «una intensificazione dei rapporti sociali» [22] al di fuori della sfera produttiva. Oggi più che mai, dunque, laddove la “cura” – nei confronti degli altri o degli elementi del proprio lavoro [23] – e le emozioni erogabili sono merci in continua crescita di richiesta, è necessario riprendere la cura di sé, perseguendo quindi una strategia al contempo di pratica e di conoscenza orientata a se stessi. In tal senso, nel presente in cui il piacere causato dal dispiegarsi delle nostre facoltà messe reiteratamente al lavoro rischia di schiavizzarci, di indebolire il nostro senso critico e la nostra capacità di relazionarci liberamente con altri soggetti, può tornare utile l'enkrateia, il rapporto a sé come padronanza [24], volto a preservare il processo di soggettivazione dagli effetti intorpidenti e negativi che “l'uso dei piaceri” lavorativi rischia di portare con sé. Tali piaceri, non essendo frutto del libero dispiegarsi delle facoltà soggettive, ma soltanto il prodotto di un accordo unilaterale tra le esigenze della produzione e le attitudini del lavoratore, invece di far crescere i soggetti, li svuotano delle loro potenzialità. Sono quindi assimilabili ai “piaceri solipsistici” [25] – legati ai vizi alimentari, alle sfrenate attività sessuali, alle dipendenze da sostanze psicotrope, ecc. – già individuati e tenuti a bada dai Greci, deleteri se abusati o protratti nel tempo e, in definitiva, portatori di dolore e sofferenza.

    Il compito che può avere la formula di Bartleby è quello di sperimentare, a livello individuale, il ripiegamento della traiettoria della forma di produzione postfordista, che ha nella biopolitica o nella bioeconomia in generale, e nel lavoro che presenta aspetti di “cura” in particolare, le proprie coordinate di assoggettamento, di sussunzione reale e totale delle singole esistenze. Di fronte a tale traiettoria, le cui coordinate sono ormai affermate e praticamente indecomponibili, è forse possibile organizzare una resistenza all'espropriazione totale della soggettività. È necessario, però, intendere la tesi per cui nella biopolitica, nella bioeconomia o nel biocapitalismo “ne va della vita intera del lavoratore” non solo nel senso che è la sua vita a essere messa al lavoro, ma anche nella prospettiva di una messa in gioco attiva e protagonista della vita stessa. La biopolitica, allora, può essere concepita, e praticata, come politica, ossia governo, della propria vita, nel senso che ogni aspetto dell'esistenza, anche se messo al lavoro, possiede la facoltà di essere orientato, posizionato nel processo di soggettivazione, al fine di divenire “proficuo” alla crescita e alla felicità del soggetto, ancor prima di essere messo a valore nella logica produttiva.

    Note

    * L'autore beneficia del finanziamento project POSDRU 89/1.5/S/63663.
    1] U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000, p. 25.
    2] Cfr. L. Gallino, in L. Demichelis e G. Leghissa (a cura di), Biopolitiche del lavoro, Mimesis, Milano 2004, p. 19.
    3] Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1998, pp. 174-178.
    4] In Modernità liquida, Bauman segnala tre dimensioni della precarietà dell'esistenza dell'individuo contemporaneo: l'insicurezza della propria posizione lavorativa e sociale; l'incertezza rispetto alla stabilità per il presente e per il futuro; la vulnerabilità del corpo e dei suoi legami con il territorio. Cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 186.
    5] R. Sennett, L'uomo flessibile, Feltrinelli, Milano 2009, p. 25.
    6] Cfr. ivi, p. 134.
    7] Su questo tema cfr. P. Bordieu, “Oggi la precarietà è dappertutto”, in Controfuochi, I libri di Reset, Milano 1999, p. 98.
    8] C. Marazzi, Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell'economia e i suoi effetti sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 125-126.
    9] S. Consigliere, Sul piacere e sul dolore. Sintomi della mancanza di felicità, DeriveApprodi, Roma 2004, p. 184.
    10] Ivi, p. 165.
    11] Ivi, pp. 165-166.
    12] Ivi, p. 160.
    13] G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, DeriveApprodi, Roma 2001, pp. 192-197.
    14] Cfr. ivi, pp. 102, 206.
    15] S. Consigliere, Sul piacere e sul dolore, cit., p. 203.
    16] Ivi, p. 159.
    17] C. Marazzi, Il posto dei calzini, cit., p. 57.
    18] S. Consigliere, Sul piacere e sul dolore, cit., p. 185.
    19] M. Foucault, La cura di sé. Storia della sessualità 3, Feltrinelli, Milano 2001, p. 46.
    20] Cfr. M. Foucault, L'uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 31-35.
    21] M. Foucault, La cura di sé, cit., p. 68.
    22] Ivi, pp. 55,57.
    23] Cfr. C. Morini, Per amore o per forza, Ombre Corte, Verona 2010, p. 134.
    24] Cfr. M. Foucault, L'uso dei piaceri, cit., p. 85.
    25] Cfr. S. Consigliere, Sul piacere e sul dolore, cit., pp. 167-170, 185-188.


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