La lettura di sé e dell'altro
Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.9 n.1 Gennaio-Aprile 2011
SCRIVERE IL PROPRIO CORPO
L’autobiografia tra ricerca di senso ed esperienza di cura
Duccio Demetrio
duccio.demetrio@unimib.it
Professore ordinario di Filosofia dell’educazione e di Teorie e pratiche della narrazione all’università degli studi di Milano-Bicocca. Fondatore della rivista Adultità, della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari(www.lua.it) e della Società di pedagogia e didattica della scrittura, si occupa di consulenza autobiografica e grafoterapia come supervisore scientifico dello Studio Scriba di Milano (holzknecht.unimib@tiscali.it). Tra i suoi scritti dedicati alla scrittura: Raccontarsi(1996); Autoanalisi per non pazienti(2003); La vita schiva(2007); La scrittura clinica(2008) tutti editi da R. Cortina. Di imminente uscita: Grafoterapia. Metodi e tecniche di scrittura nella sofferenza mentale ed. Erickson.
“Io sono ciò che mi sfugge”: una conoscenza narrativa
di sé
La frase è di Franz Kafka. Ci rammenta che ogni presa di coscienza individuale
del nostro stare al mondo rinvia a qualcosa di inafferrabile. Se tendiamo
alla comprensione del senso della vita, se cerchiamo di conoscerci compiutamente
almeno a livello personale. Ciò che, per consuetudine, denominiamo “io”-
ben più di un pronome, piuttosto un simbolo, un linguaggio che indica
la biograficità di ogni nostro vissuto - si presenterebbe contrassegnato,
secondo il grande scrittore praghese, da una natura in verità quanto mai
fragile e vulnerabile, rispetto alle funzioni egemoniche, che solitamente
gli vengono attribuite. L’io si rivela quindi non solo una metafora rassicurante
(io so di pensare, so di decidere, so di esistere nella mia differenza
irriducibile, ecc) bensì soprattutto inquietante. Quando pur percependo,
ragionando, soffrendo in prima persona ci accorgiamo che non potremo mai
definitivamente possederci e sapere di noi per lo meno per quanto concerne
un “sicuro sapere di sé”. Del resto, tale forma linguistica e rappresentazione
mentale non poggia su alcuna legittimazione scientifica di carattere organico.
L’io è una categoria filosofica prestata alla psicologia. Anche se fu
senz’altro il nostro cervello, chissà dove e chissà quando, ad averne
bisogno; ad inventarsi in lingue diverse, le sue proprietà. Anche se furono
le vicissitudini ambientali e della sopravvivenza a provocarne indubbiamente
l’insorgere, così come i processi genetici di differenziazione sia biologici
che di ordine sociale. Sappiamo poi che, convenzionalmente, da secoli
ormai l’io rinvia ad un principio razionale (pratico oltre che morale)
che regolerebbe la vita psichica, il quale dovrebbe ordinare e governare
secondo logica, convenienza, condotte culturali più accreditate in un
dato luogo, in un dato tempo, i nostri istinti. Ma sappiamo anche che
questi quanto mai nobili e preziosi compiti riferimento vengono meno o
trasgrediscono agli ideali che lo informano. Poiché l’io, in quanto oggetto
anche misterioso non è esente da debolezze: si mostra cedevole, accomodante
è disposto, in quanto manifestazione della adattabilità dell’intelligenza
umana, a smentirsi e a trasformarsi all’occorrenza. Per tali motivi c’è
chi gli preferisce la dicitura My Self: indicante tutto ciò che mi riguarda,
che mi appartiene. In tal modo designando, pur sempre con un’altra metafora,
un’entità più complessa dove l’io si collocherebbe come parte di un tutto
altrettanto inafferrabile, ma senz’altro più plastico e meno soggetto
al vincolo del solo raziocinio, così caro alle tesi freudiane dell’origine.
Tuttavia, all’io vengono di solito attribuite (anche così ridimensionato)
compiti di regia delle condotte e del pensiero, seppur vincolati e sottoposti
alla imprevedibilità, alle istanze istintuali, delle altre componenti
il nostro sé: emblema di una totalità vitale di natura innanzitutto corporea.
Il corpo rappresenterebbe il vero luogo delle nostre verità, segrete o
evidenti. Le più materiali, organiche e le meno metaforiche: questa volta.
L’io soggetto alle oscillazioni del Sé (corpo), ai rischi dei suoi malesseri,
continuerebbe ugualmente a rivendicare il compito di adoperarsi per tenere
insieme, contenere ed orientare, una molteplicità di pulsioni, di manifestazioni
e comportamenti nient’affatto sempre disposti a sottomettersi ai voleri
della ragione. Ma da signore assoluto si troverebbe retrocesso al rango
di consigliere, talvolta pedante, e utile comunque ad evitare, non sempre
con successo in molte circostanze, che il sé-corpo si auto destini alla
distruzione. Al contempo, esso continua a legittimarsi per la presenza
di un punto di vista del tutto personale, il quale, se non completamente
svincolato dalla corporeità (il nostro io assomiglia in fondo e non poco
al corpo che lo esprime), può autorizzarsi perlomeno a prenderne le distanze
“come se” (ma è una delle illusioni dell’io) non dovesse sempre e giocoforza
essere in balia della dimensione fisica del proprio esistere.
L’io svolge però anche una funzione senz’altro operativa e pratica, ci
aiuta nelle circostanze più diverse a far udire la nostra voce, a rimarcare
le nostre volontà, a ribadire che ci sono questioni assolutamente personali
e private, che non tollerano ispezioni, incursioni indebite, aggressioni
da parte di una miriade di altri io. Dal momento che per altre tesi non
un solo io ci abiterebbe, bensì saremmo frequentati da una “moltitudine”
di presenze “egocentriche” – ebbe a sostenere lo scrittore Fernando Pessoa
– in lotta tra loro, tutte dotate di ragioni recondite. Delle “loro” ragioni
e auto giustificazioni, i cui nomi hanno a che fare tanto con le passioni
irrazionali, con i vizi, con le attrazioni fatali, quanto con talenti
virtuosi, vocazioni, inclinazioni ed abitudini. La distinzione classica
e filosofica tra corpo e mente, in questa accezione si destituirebbe di
senso. Il primo terrebbe la mente - sede elettiva dell’io - sotto continua
osservazione e sorveglianza; non potrebbe darsi il contrario, anche se
nella storia delle forme di autocontrollo, auto dominio, ascesi, elevazione
spirituale i tentativi millenari degli esseri umani di piegare il corpo
alle intenzioni della mente-io sono stati notoriamente infiniti.
L’io di cui abbiamo fino ad ora parlato, in quanto “intelligenza personale
o di sé”, in questa molteplicità di dizioni, svolgerebbe una funzione
soprattutto meta riflessiva: ha il compito, impossibile ad altri suoi
emuli e antagonisti, di descrivere, raccontare, interrogare il corpo (quel
corpo singolo cui sente e sa di appartenere): “Muovendo dall’esperienza
che l’io fa direttamente di sé, dalla percezione che ha di sé come io-corporeo
… il nostro sentirci materia – un corpo, cosa del mondo nel mondo – entro
la vita della mente, cerca perciò di attingere il soggetto a partire da
se stesso come coscienza in atto. Per fare questo non si può procedere
altrimenti se non raccontando se stessi … attraverso la presa di distanza
dalla propria immediatezza corporea … l’io si comprende come una differenza
e non può coincidere in assoluto con la sua corporeità” E se l’io non
si percepisse come un’entità distinta “nell’ambiente” e, aggiungiamo,
persino da se stesso, “non potrebbe neppure percepirsi come corpo” [1].
Ma i problemi non sono finiti per l’io
Se esso è simbolo di ciò che più ci appartiene e che giunge ad immaginare
un’esistenza qualitativamente diversa da quella corporea, non per questo
nelle sue allucinazioni di grandezza e libertà può dirsi indenne da crisi
e spaesamenti che non dipendono dalla materia che gli ha dato vita, ma
da se stesso. I limiti dell’io, le sue debolezze, fanno parte della sua
intrinseca natura. Dinanzi ad uno spaesamento esistenziale, ad una ferita
inferta al nostro amor proprio, alla privazione dei diritti più elementari,
l’io si vede costretto a rinunciare alle sue prerogative. Sia razionali,
sia meta riflessive. Poiché nei momenti di grande turbamento il suo potere
conoscitivo e riflessivo non è sufficiente a spiegarci quello che sta
accadendo e a salvarci. L’io si rifugia al suo interno, tagliando i contatti
col resto del mondo, si incrina e va in pezzi. Se è già ben difficile
rispondere senza esitazione alla domanda che cerchiamo sempre di scansare
nella normalità, nella quiete, “chi sono io?”, negli stati di disagio,
di smarrimento esistenziale, ogni sforzo esplicativo si rivela impossibile
in mancanza di un sostegno, dell’io di un'altra corporeità vivente capace
di sorreggerti e di “riaggiustarti” nel corpo, in primo luogo. E si tratta,
come sappiamo, di circostanze che vedono l’io, quel che ne resta, impegnarsi
nel danneggiare la sua stessa casa di carne, in un’alleanza di benessere
irrimediabilmente annullata dalla supremazia autodistruttiva di altri
demoni-io.
Dinanzi alla intrinseca indeterminatezza della categoria “io”, potremmo
a questo punto disporci a cercare un rifugio, se alla ricerca di qualche
certezza, nell’idea quanto mai materiale di corporeità. Il corpo, quale
sia il suo stato di salute, di benessere o patimento, è un dato certo,
come abbiamo già visto. Possiamo non sapere bene, o più, chi siamo, però
sappiamo che il nostro corpo sta pulsando, desiderando, spostandosi, godendo
o soffrendo. E’ come dotato di una sua consistente autonomia. Se esso
decide di ribellarsi agli ordini dell’io che lo spiega, racconta, giustifica,
non c’è nulla da fare. Nessuna meditazione, nessuna attività di elevazione
spirituale riuscirà ad evitare che il corpo si ammali e perisca. Il corpo
è dunque la nostra verità esposta in tutta evidenza assoluta, non si può
nasconderlo, camuffarlo, ritardarne la fine più di tanto. Pur inerte,
apatico, anche quando l’io, emblema della nostra coscienza, sia costretto
a tacere per un danno subito, il corpo “ci” testimonia comunque; pur nel
suo disfacimento, verso il quale un io crudele, masochista, autolesionista
può averlo condotto. Se troppo torturiamo l’io con i nostri affanni, torturiamo
anche il corpo: non c’è scampo.
Se potevamo, all’inizio del nostro discorre, ritenere che l’io sia l’entità
che più ci sfugge, ora non possiamo che nondimeno il corpo è sottoposto
ad un principio di indefinitezza. Ci sfugge quanto l’io. Ogni nostro gesto
fisico, ogni fonazione che conferisce al corpo la sua udibilità, una plasticità
e tattilità empirica, con tanto altro ancora, non fa che ribadire quanto
le radici più materiali, più concrete, del nostro essere in vita, siano
evanescenti. Per non accennare a quei molti frangenti vivendo i quali
“troppo” corpo ci infastidisce, ci imbarazza, ci impregna di carnalità
all’eccesso tacitando la voce dell’io. Non come “grillo parlante”, ma
come almeno narratore di quanto ci sta accadendo. Preferiremmo la nostra
ingombrante e molesta corporeità altrettanto impalpabile. L’amore del
corpo, istintivo o con raffinatezza accudito, sopravanza quello verso
un io poco propenso ad accettare servitù dalle quali non riesce a staccarsi.
Più raramente accade il contrario: un corpo bello, sano, giovane, oggetto
di desiderio rende tale anche l’io più malmesso. Non soltanto perché i
piaceri della pelle sono una tentazione continua, ma perché essi sono
il sale fecondo sia dell’una, sia il nutrimento sapido, dell’io. In ogni
caso, ci si arrende al corpo più volentieri di quanto non accada con le
esigenze dell’io, che ci pone continuamente domande; è soggetto ad incomprensibili
sensi di colpa, suole dimenticarsi che taluni disagi risalgono a quel
corpo che non riesce a mettere in riga e che soltanto accettandoli potrebbero
tornare là dove la mente li aveva dimenticati e negati.
L’esistere umano è innanzitutto atto “di parola” e le parole sono azioni,
più o meno consapevoli, responsabili, accorte, quando servono a mutare
il mondo esterno ed interno. Spostano l’io e la sua casa. Anche questo
dato incontrovertibile dovrebbe definitivamente tranquillizzarci, conducendoci
ad affidarci alle regole e alle voglie del corpo, piuttosto che alle eccentricità
dell’io. Il quale dovrebbe mettersi l’animo in pace almeno in merito alla
nostra identità di carattere spaziale (lasciamo un’ombra, ne abbiamo lasciate
in ogni dove) e temporale: siamo nati un certo giorno, da un altro corpo
o da Dna incubati e, a nostra volta, diamo vita ad altri corpi.
Invece, il corpo ci inquieta ancora di più: poiché gli chiediamo di essere
quanto non può diventare. Completamente indenne e refrattario al trascorrere
degli anni; stabile e incorruttibile. Ci irrita il fatto che quanto più
di noi (finalmente) sembrerebbe certo ed evidente, sia costretto a subire
trasformazioni involutive fin dalla nascita: chè quando il corpo è fresco,
scattante e gioisce chiedendoci ogni cura, ci sembra paragonabile ad una
eterea forma semidivina. Ma dal momento che i corpi invecchiano, scendono
dall’Olimpo, nonostante ogni escogitazione e protesi ritardante, ne consegue
che non possiamo che riaffezionarci a quell’io instabile ed eccentrico.
Il quale, se dotato da buona e raffinata intelligenza (una condizione
indispensabile) riesce ad illudersi di poter oltrepassare la propria infausta
materialità fin tanto che al suo “datore di lavoro” sia dato di respirare.
Meglio, molto meglio, di conseguenza, accettare la tesi di Kafka; è preferibile
che quell’io sempre sfuggente ad ogni nostro tentativo di comprensione,
mantenga la sua enigmaticità fertile, aiutando semmai il corpo, quando
possibile, ad assecondare le curiosità del suo ospite, a guidarlo con
discrezione ad esplorare territori nei quali possa sperimentarsi più leggero.
Territori che oltre a quelli del pensiero, sono quelli delle parole e
delle scritture di sé.
L’io cantore e scrivano di un corpo analfabeta: perché scrivere
di sé
La scrittura, gesto e decisione dell’io, impulso ancestrale e quasi genetico
a lasciar traccia del nostro sé, sua ancella, non sempre sa che “si pensa
e si scrive perché si muore” (perché il corpo ci abbandona in un assoluto
e inappellabile controvoglia) e nemmeno sa che pensare e scrivere è già
un poter andare “oltre la morte”; poiché è dall’io, e non dal corpo, che
“emerge lo stupore del linguaggio”, la voglia di cimentarsi con una scrittura
che possa dar luogo ad una finzione di immortalità: a quella escogitazione
millenaria, che ha inventato l’arte della scrittura. La scrittura può
nel delirio fare a meno di avvalersi dell’io che la sta inventando pagina
dopo pagina. Ma sarà in tal caso una scrittura poco utile al restauro
di un io ferito, di un corpo altrettanto offeso. E’ un’invenzione dell’io
che si è avvalsa degli strumenti del corpo, piegandola e addomesticandola
ai propri voleri, alle fantasticherie, persino all’idea che la morte ci
stacchi dal corpo (finalmente) e ci faccia volare librati in aria da un
io ormai totalmente libero.
Sono, queste, le celebri considerazioni del filosofo Jacques Derrida [2]
che vogliono ora inaugurare qualche riflessione in merito allo stretto
nesso tra corporeità ed impiego della scrittura: nel tentativo di far
narrare l’io, in quanto cantore e scrivano di una corporeità analfabeta,
troppo spesso capace soltanto di inviarci segnali elementari e primitivi
di agio o disagio “scritti” sulla carne da se medesima. L’io per il tramite
della scrittura sovrintende al riscatto della nostra corporeità e non
soltanto alla descrizione di qualche sua manifestazione, che ci diede
qualche felicità e più sovente angustie. Come diremo, introdurre di conseguenza
nella clinica o in altri momenti di meditazione e auto riflessività, pratiche
di scrittura significa raccontarsi in un doppio registro: quello dell’io
narrante e quello del corpo evocato, il quale, una volta tanto, deve sottomettersi
ad un io che, accettata la sua kafkiana “indefinitezza”, scoprendo riga
dopo riga che il suo cammino proprio per tale destino gli aprirà nuovi
orizzonti di consapevolezza esistenziale.
Ma che possiamo intendere con scrittura di sé?
Scrivere di sé, della propria vita al passato o al presente, di quel my
self (ad iniziali minuscole), è un narrare auto-evocativo che quasi sempre
ci conduce, se vissuto in autentico abbandono e sincerità (senza difese
e pudori anche del corpo, poiché la scrittura ci mette a nudo), verso
esperienze psicologiche insolite e ricordi imprevedibili. Tra questi,
non possiamo certo ignorare quelli che attengono o attennero al nostro
aspetto fisico, alla nostra corporeità, nelle sue implicazioni descrittive
e “auto ritrattistiche” o in quelle più intime e segrete. Per pudore a
lungo taciute e che, tutto ad un tratto, lo scrivere ci dà l’ardire e
il coraggio di svelare. D’altro canto, ogni testo da noi redatto, soltanto
poche righe, lasciano trapelare sempre qualcosa della nostra visibilità
e non solo di ciò che è totalmente inavvertibile ad occhi altrui e, sovente,
nemmeno ben nitido ai nostri. Perché temiamo gli specchi, i mutamenti
ineluttabili dell’età, una faccia o un corpo che non ci sono mai piaciuti
o che più non sopportiamo di vedere ogni mattina o riflesso negli occhi
degli altri. Tuttavia, le tracce della nostra persona fisica si delineano
comunque tra le righe, man mano che il lettore si interessa a quel che
abbiamo scritto della nostra vita pur non conoscendoci. Ogni lettore si
muove congetturando l’aspetto dell’autore o del personaggio che questi
interpreta: fra l’altro sdoppiandosi, come appunto accade in autobiografia.
Quando è la trasformazione dei propri ricordi in racconti ad aiutarci
a prendere le distanze da noi, dalle memorie dolorose tornate a galla
dagli abissi dell’inconscio ad assumere un ruolo di autocura, se non addirittura
terapeutico. E’ questo, del resto, l’inimitabile potere evocativo ed immaginativo
anche della lettura. Il quale ci spinge a inventare spesso quello che
non esiste, alterando la realtà. Non per protervia e gusto dell’autoinganno,
ma perché è la mente stessa che ha bisogno di falsificare gli stimoli
sensoriali o memoriali. Scriviamo senza alcun riferimento alle nostre
sembianze, nascondendo il nostro volto, eppure, un lettore attento a quel
che raccontiamo, riesce (pur senza avvalersi di metodi e interpretazioni
grafologici) a cogliere, a intuire, a intravedere qualcosa del nostro
aspetto fisico, grazie ai processi emotivi e cognitivi che presiedono
alla facoltà umana di produrre illusorietà, ipotesi, induzioni, illazioni,
ecc. Ciò accade persino quando, intenzionalmente, non si voglia fornire
alcun accenno e indizio referenziale.
La scrittura è comunque specchio, seppur opaco, opacizzato apposta, dei
nostri gesti, delle scelte, delle emozioni provate in date circostanze:
il riferimento ai veridici moti del corpo di cui si racconta, non va rapportato
però alle sole percezioni. La scrittura ci trasforma tutti, scrittori
quotidiani, domenicali o professionisti della penna, in una voce arcana,
lontana, diafana che fa intuire all’ascoltatore-lettore qualche accenno
di come siamo fatti. E, come quasi sempre accade, quando finalmente ci
è dato conoscere intenzionalmente o per avventura la persona che ci parlava
al telefono e alla radio, ovvero di cui abbiamo letto, l’impressione piacevole
o sconcertante che ne traiamo dinanzi allo svelamento in “carne ed ossa”
(non oltre rinviabile o accidentale) non fa che meravigliarci, dinanzi
alle oscure ragioni personali che ci hanno indotto a “percepirla”ben diversa
da quello che lo è nel sembiante.
La voce udita, come la scrittura, possiede il dono incomparabile, sconosciuto
ai media visivi, di indurci a pensare per approssimazioni, per accostamenti
per difetto o per eccesso; si tratta di “mediatori corporei” che stimolano
la fantasia, non si preoccupano di far coincidere l’apparenza alla realtà,
nella supposizione che quel che vediamo possieda una sua potenza veritiera.
Ciò che diciamo, dovrebbe sempre corrispondere a ciò che pensiamo, ciò
che siamo dovrebbe essere specchio del nostro corpo, ciò che scriviamo
dovrebbe eguagliare quanto abbiamo vissuto? Nulla di più ingannevole,
eppure, continuiamo a credere che una coincidenza perfetta tra le immagini
e i corpi, tra le parole e il pensiero, tra il racconto e la sincerità
dei fatti narrati sia possibile e sempre auspicabile. Nelle molteplici
scene della vita reale tutti noi veniamo percepiti inizialmente, e reciprocamente,
come corpi; ci presentiamo in quanto corpo attraverso quel che abbiamo
fatto o facciamo e non soltanto in ragione della nostra immagine.
Ciascuno entra nel ricordo dell’altro soprattutto in base a come il proprio
corpo si è trovato ad interagire con quello altrui, in modo continuativo,
erotico, come fonte di piacere o di dolore, di cura o viceversa di aggressione.
Per questo non dovrebbe essere necessario affannarsi a fotografare e a
fotografarsi freneticamente per abituare la memoria alla rimembranza profonda.
Scrivere è di per sé un fotografare in un linguaggio che alimenta ogni
volta i nostri processi cognitivi, che non ambisce - come diremo - ad
idolatrare la realtà, quanto piuttosto a sfumarla, a trasfigurarla, a
truccarla in funzione di quella indeterminatezza che appartiene, ormai
lo sappiamo, oltre che all’io, alla letteratura e alla poesia.
Scrivere evitando suggestioni ausiliarie: gli intenti autobiografici
Le ragioni delle evocazioni mentali e connesse con la scrittura, sono
difatti ben differenti da quelle suscitate dal rivedersi in una fissità
corporea o in moto. Una sufficientemente buona scrittura della propria
storia che non può certo dimenticarsi di questa dimensione, dovrebbe perciò
non adottare immagini scattate o quant’altro come fonte di ispirazione.
Il corpo immaginato a posteriori, più che quello esposto in una evidenza
video-cinegrafica, è la più incontaminata fonte di ogni scrittura rimembrante.
Scrive a tal proposito Raffaele La Capria: “La memoria che ti arriva quando
intingi nel tè la madeleine di Proust, quella mi sta bene. E’ gentile,
romantica o dolcemente malinconica, e la sua capacità di trasfigurazione
si accompagna alla disposizione dell’animo, gli tiene compagnia. Ma la
memoria che bruscamente mi arriva dall’album di fotografie che sto sfogliando,
quella non mi sta bene, mi assale e disturba l’accomodamento che ho stabilito
con la mia vita. Quel ragazzo che vedo nella foto ed io, siamo la stessa
persona? Come è possibile? Eppure è così, lo dice la foto…Tra me e quella
foto c’è il tempo, ma il suo trascorrere dov’è? E’ stato tutto così inavvertibile!”
[3]
La stessa impressione sconcertante non la “soffriamo” quando ci accade
di scrivere; poiché, avendo l’accortezza di non farci aiutare da qualche
foto, da un oggetto a lungo conservato divenuto un talismano, come ci
consiglia non a caso La Capria, la scrittura dovrebbe soprattutto scaturire,
attingendovi pur con grande imprecisione, dalle nostre figurazioni interne;
dovrebbe rispetto ad esse mostrarsi dotata di potenza archeologica discreta
e al contempo lirica. La facoltà scritturale ci consente sia di ritrovare
i reperti attendibili di quanto veramente accadde, o venne vissuto emotivamente,
in situazioni già in quel passato dotate di una loro fissità ed estaticità
mitica; sia di rivivere quei climi e quelle atmosfere che sarà compito
dello scrittore o della scrittrice rendere “poetanti”.
A differenza della letteratura d’invenzione, dove il narratore non scrive
solitamente per scoprire qualcosa di sé che gli sfugge, ma lo fa – semmai
- dando vita ai personaggi e ai protagonisti del romanzo (ricordiamo la
celebre frase di Gustav Flaubert: “Madame Bovary c’est moi!”), la letteratura
autobiografica, definita personale o dell’io, nasce invece da un esplicito
desiderio di auto-svelamento e di re-identificazione [4].
Specialmente quando si vadano attraversando momenti bui dell’esistenza
che, non a caso, quasi sempre hanno implicazioni corporee: connesse a
malattie, a infermità temporanee, a perdite d’altri che ci feriscono nella
carne e non solo nell’io.
Si scrive di sé, insomma, per riconquistare il proprio volto, la propria
persona e la propria storia, senza però alcun bisogno di tratteggiare
le proprie fattezze, di raccontare i piaceri o i dolori di cui il proprio
corpo ha goduto o sofferto. Roland Barthes questo intendeva, quando notò:
“Le immagini, il lessico, il fraseggiare di uno scrittore, nascono dal
suo corpo e dal suo passato e a poco a poco diventano gli automatismi
stessi della sua arte… .Lo stile è quindi sempre un segreto … è un ricordo
racchiuso nel corpo dello scrittore” [5].
Gli scritti di questa natura, se sinceri, se mossi da nessun altro scopo
o investimento, se non perseguono alcun successo e benessere diverso da
quello di conoscere di più il proprio io irraggiungibile e di usare la
scrittura per interpretare le proprie vicissitudini, costituiscono di
conseguenza una sorta di ancoraggio a quel corpo che andava cedendo, trascinando
con sé la recalcitrante coscienza dell’io, che sempre coscienza innanzitutto
di stare ancora vivendo e almeno respirando oltre che pensando. Seppur
in sopori, in esperienze di indeterminatezza e stati alterati di consapevolezza.
Non solo su un piano metaforico, questa volta, bensì letteralmente sensoriale,
fisico, materiale. Poiché l’esercizio della scrittura ci impone di impiegare
facoltà che riattivano una relazione corporea sia con uno strumento (la
penna, la tastiera...), sia con una superficie (la carta o lo schermo).
La scrittura, pur scaturendo da un impulso mentale, ha bisogno di poggiare
le proprie parole su una consistenza tattile. Il suo valore certamente
simbolico che ci rinvia al senso e agli scopi per i quali ad essa ci rivolgiamo
non è così distante da quell’arcaico bisogno di incidere immagini, segni,
graffiti su un’area pur minuscola visibile, concreta, palpabile. La relazione
corpo-scrittura si realizza di per sé già nel momento stesso in cui vi
poniamo mano; l’autore scrive qualcosa del proprio corpo anche quando
intende parlare d’altro, ci rivela il desiderio di ristabilire un contatto
con la propria fisicità come gesto di attaccamento alla vita e come rinnovata,
estenuante, affezione a se stesso. Quando è la sfera sessuale ad imporsi
sia come una delle storie biografiche più importanti, nelle sue delizie
e vicissitudini; sia quando, viceversa, essa venga intenzionalmente sottaciuta
per pudore o rimossa.
Chiunque scriva o si sia trovato a scrivere un’autobiografia, un diario,
un memoriale, ecc. si è cimentato nella narrazione delle storie intrattenute,
subite, più o meno risolte, con aspetti diversi della propria dimensione
corporea. Il nostro io narratore, se moralista, se casto, potrà anche
censurare sentimenti, eventi, evocazioni che abbiano avuto a che vedere
con essa. In ogni caso, sarà impossibile non scrivere del sé in quanto
corporeità rivissuta o agita nel presente, per il fatto stesso che l’atto
di scrivere è espressione già di per sé della nostra storia. E’ in essa
che possiamo rintracciare le ragioni profonde che ci spingono a preferire
la scrittura, piuttosto che affidarci alla sola parola e voce, per esporci,
per esprimere quanto le parole non riescono sempre a spiegare, per ristabilire
un contatto smarrito con gli altri.
La scrittura di sé soltanto così diviene autenticamente autobiografica.
Non può esservi autobiografia se non la si pensa, non la si progetta in
corso d’opera, non la si consideri un tormento e un travaglio non molto
dissimili da quelli che vissero e vivono scrittori di fama. Autobiografia
è lavoro estenuante dell’io su se stesso, oltre che sulla propria ambulante
dimora corporea; c’è talento autobiografico soltanto quando si siano oltrepassati
quei timori che ci impedivano di avvicinarci alla penna e alla carta,
scoprendo che è terapeutico il passaggio dalle paure alla voglia di non
nasconderle più alle curiosità del proprio io.
Le quali, per Jacques Lacan, andavano ricondotte a fantasmi, ad angosce,
a vertigini non della scrittura, bensì del corpo (abusi, violenze, perdite,
traumi, carenze affettive …) che per il suo tramite parla e ci parla.
La scrittura diventa la rabdomante di ogni io che si vada confondendo
nei corpi; diviene l’esploratrice degli interstizi più riposti e seppelliti
tanto dalla coscienza quanto dall’inconscio; si rende l’avamposto di ogni
pensiero non ancora pensato. Diceva lo psicoanalista francese: “interrogatevi
sulla vostra paura di scrivere di voi ed essa vi spiegherà i vostri spettri”.
Per questi ed altri motivi, gli sviluppi cui stiamo assistendo in campo
clinico e psicoterapeutico in merito all’impiego della scrittura di sé
e autobiografica nel trattamento di sindromi gravi o soltanto di momenti
di fragilità esistenziale [6], ci offrono
nuove suggestioni e metodi di cura. Sia nei disturbi inerenti più strettamente
la corporeità (ad esempio per quanto concerne le sindromi di carattere
alimentare, depressivo, traumatico, croniche …), sia quando quell’io,
che fin dall’inizio abbiamo descritto anche “fecondamente”in fuga da sé,
perché presiedere al compito di non cessare di problematizzare il nostro
esistere, può rintracciare i fili della propria storia smarrita, ridando
speranza e occasioni a quel corpo offeso dalle circostanze della vita
e del dolore vanamente da essa del tutto emendabile.
Note
1] S. Natoli, Guida alla formazione
del carattere, Milano, Morcelliana, 2006, pp.22-23.
2] Su questi temi cari al filosofo
francese, ha lavorato recentemente L. Barani, Derrida e il dono del lutto,
Verona, Anterem, 2009.
3] R. La Capria, Il disinganno
di una fotografia, C.d.S., Rizzoli, 2009, riproduzione riservata.
4] Per R.Barthes “la letteratura”
non poteva non includere ogni “complesso grafico relativo alle tracce
di una pratica: la pratica dello scrivere” cfr. Variazioni sulla scrittura.
Il piacere del testo (1973), trad. it., Torino, Einaudi, 1999, p.IX.
5] Barthes, Il grado zero della
scrittura (1953) trad. it. Torino, Einaudi, 2003, pp.10-11.
6] D. Demetrio, La scrittura clinica.
Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, Milano, R. Cortina,
2008.
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