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  • La lettura di sé e dell'altro
    Orazio Maria Valastro (a cura di)

    M@gm@ vol.9 n.1 Gennaio-Aprile 2011

    VIAGGIO VERSO LE MIGRAZIONI

    Da Salina e S. Giovanni in Fiore

    Maria Immacolata Macioti

    mariaimmacolata.macioti@gmail.com
    Docente di Istituzioni di Sociologia e Comunicazione, di Comunicazione e cultura delle religioni, Facoltà di Scienze della Comunicazione, La Sapienza, Università di Roma.

    Premessa

    Viaggi sognati, viaggi realizzati. Viaggi attraverso libri. Viaggi fatti per vacanze o per studio, o magari per lavoro. Un tempo, ma anche oggi, per motivi religiosi: basti pensare al ruolo dei pellegrinaggi [1] che hanno accompagnato, un po’ sotto tutti i cieli, la storia dell’umanità. Viaggi voluti, viaggi subiti [2]. Sempre i viaggi hanno cambiato, cambiano i soggetti che ne sono implicati, producono in essi inevitabili mutamenti nelle conoscenze, negli atteggiamenti, nelle capacità interpretative e comunicative. Il viaggio chiama in causa infatti la nostra identità, ci consente di mutare in relazione all’alterità con cui si entra in contatto. Il viaggio consente un gioco interessante, evidente o implicito, tra vicinanza e lontananza: siamo estranei, lontani rispetto alla realtà nuova con cui entriamo in contatto, e questo ci consente maggiore distacco critico. Possiamo esplorare il diverso universo, la nuova realtà grazie ai parametri culturali interiorizzati, a partire dalla cultura acquisita. Ma non capiremo la realtà, la nuova situazione se questa estraneità dovesse essere troppo marcata, se non dovesse consentirci di entrare in questo diverso universo, di penetrarne le regole, le modalità, le caratteristiche. Guardare a ciò che si vede con occhi di disprezzo e disapprovazione non consentirebbe certo una comprensione della realtà in causa. Acuirebbe, semmai, preconcetti e ignoranza. Lontananza e vicinanza divengono quindi entrambi atteggiamenti necessari, compresenti. Solo insieme, in un precario, rinnovabile equilibrio, consentono una conoscenza che sia anche comprensione del fenomeno sociale osservato.

    E non solo. Consentono anche, se i viaggi si traducono in diari o anche in memorie scritte, di saperne di più sul viaggiatore stesso. Che per quanto possa cercare di scomparire in realtà lascia sempre tracce di sé, si rivela al lettore. Volontariamente o, più spesso, involontariamente, senza proporselo.

    Penso alle ottocentesche Passeggiate romane di Ferdinand Gregorovius, che ho letto molti anni fa nella bella edizione di Franco Spinosi Editore (Roma, 1965), con stampe di Aquaroni. Perché Gregorovius ancora oggi ci può essere guida nelle vie, nelle piazze romane, nei costumi della città e delle campagne intorno. Godiamo delle sue accurate descrizioni, delle diversità intercorse tra la Roma di allora e quella di oggi, tra le ottocentesche cittadine laziali e quelle del Duemila [3]. Ma non solo di questo si tratta. Penetriamo altresì, grazie alle sue memorie, nel mondo di un viaggiatore colto, di uno studioso attento, capace di dar conto di storiche chiese ed abbazie, di alti palazzi principeschi così come di teatri popolari in cui, tra sporcizia e polvere, si possono però godere le storie fantastiche delle marionette: le storie cioè di Orlando Paladino e del suo scudiero Pulcinella, quelle di Lancillotto, della bella regina Ginevra e di re Artù o del mago Malagigi o del cattivo re Marsilio, che medita tradimenti ai danni di Carlo, il re dei Franchi. Racconta, Gregorovius, di come la gente segua rapita queste vicende che sono ormai patrimonio comune nell’area mediterranea, di come i ragazzini lancino sacchetti di carta contro i cattivi, accolti con grida e fischi. Una tradizione ancora oggi viva in Sicilia [4], di cui si trovano residui nei piccoli teatri di marionette nelle ville comunali romane. Che ho seguito da piccola, io stessa, al Pincio. Ma non solo: Gregorovius ci spiega che esiste anche un teatro delle marionette dei ricchi, degli abbienti. Ci conduce, in Roma e nei dintorni, tra i potenti signori di antichi castelli, di grandi proprietà terriere: tra questi, i Colonna, famiglia storica su cui si sofferma a lungo, anche perché ha vissuto, è tornato più volte a Genazzano [5], perché conosce Paliano [6], è passato da molti dei loro feudi, tra cui Palestrina, uno dei più importanti. Ma Gregorovius è anche un viaggiatore attento, critico: ci spiega che la fortuna della casata è finita con il grande Marcantonio Colonna, con le spese ingenti da questi sostenute per la battaglia di Lepanto. Da allora in poi, i Colonna non saranno più gli oppositori del papato ma grandi signori al servizio del pontefice. E non solo. Sa bene che a un principe romano corrispondono servi, contadini impoveriti, mal pagati; gravati, spesso, da debiti. Costretti a vendere, se mai le hanno avute, le loro terre. È un conoscitore ma anche un duro critico di questo sistema del latifondo, dei baroni e dei conventi che si arricchiscono mentre i contadini si indebitano. Fa descrizioni vivaci e accurate delle feste religiose che vede, cui ha potuto partecipare, a Roma come altrove nel Lazio (a Genazzano, ad esempio). Sa che esistono ordini religiosi che hanno fatto, che fanno del bene, che sono largamente noti per dedizione agli altri, per generosità [7]: ma è estremamente critico nei confronti di quella che noi oggi chiameremo la chiesa istituzionale. Anche l’apertura delle sue Passeggiate romane con una panoramica storia e con una descrizione del ghetto, con il rimando alle umiliazioni secolari cui i pontefici hanno costretto gli ebrei, ai balzelli e contributi cui gli ebrei hanno dovuto piegarsi, mi sembra estremamente indicativa al riguardo. Gregorovius, come comprende chiunque lo legga con occhi attenti, non ama questa chiesa romana. Grazie a Gregorovius a suo tempo ho riscoperto Roma e i paesi intorno alla capitale, che pure conoscevo direttamente. E insieme ho conosciuto e apprezzato lui, lo scrittore Ferdinand Gregorovius, capace di rivivere la storia antica in una luogo ormai diruto, in un capitello di colonna spezzato. In un sasso. Capace altresì di comprendere i patimenti, le gioie, i divertimenti della popolazione romana dei suoi tempi: uomini e donne che lavorano e s’ingegnano, contadini provetti e abili artigiani, vinai, operai. Di apprezzare Roma inondata dal chiarore lunare, di rimanere sbigottito, lui che proviene da una cultura nordica, da altri orizzonti e storie, di fronte alla bellezza di certi paesaggi laziali, ma senza dimenticare la forza di sopportazione, la tenacia degli ebrei, lo sfruttamento degli oppressi, i poveri svaghi di una popolazione in miseria. Ha empatia per coloro che descrive.

    Sono rivelatori, i viaggi. Tanto che bisognerebbe essere molto cauti nello scriverne, nel ricordarli, nel comunicarli. Perché sveliamo, parlandone, scrivendone, paesaggi, realtà, rapporti tra persone, rapporti sociali. E non solo. Sveliamo anche, inevitabilmente, noi stessi. Anche laddove non è questa l’intenzione dello scrivere. Ma questo sarà vero anche nel caso di brevi, circoscritti percorsi?

    Me lo chiedo, mentre scrivo di un breve recente viaggio verso Salina, verso le migrazioni italiane da Salina. Verso la Salina di oggi. Verso la Salina ottocentesca. Un viaggio che, nell’insieme, è durato tre giorni in tutto, di cui quasi due spesi per recarci sui luoghi, per ripartirne. Chi leggerà questo breve resoconto cosa potrà pensare di chi ha pensato a un itinerario di questo genere?

    A Salina / Da Salina

    Il 15 giugno 2010 siamo partiti dall’aeroporto di Fiumicino per recarci a Reggio Calabria e da lì a Salina. Siamo in sette: con me c’è Mara Clemente, del Dottorato in Teoria e Ricerca Sociale della Sapienza, a suo tempo fondato da Franco Ferrarotti, ora da me coordinato; ci sono inoltre uno studente, Tommaso, e delle studentesse del corso di laurea interfacoltà in Cooperazione e sviluppo.

    Scopo del viaggio, una visita al Museo delle Eolie. Ci pensavo da vari anni, da quando cioè avevo incontrato il collega Marcello Saija che ne aveva parlato con molta passione durante un convegno tenutosi a Gualdo Tadino per la fondazione del Museo regionale dell’Umbria, museo che ho poi avuto modo di visitare e con la cui direttrice abbiamo da tempo scambi di informazioni, di materiali, occasioni di incontro.

    Il viaggio aereo si svolge come previsto, arriviamo verso le 10,30 a Reggio Calabria. Abbiamo tutti bagagli a mano e facciamo in tempo a prendere un autobus di linea che sta per partire e che ci porta fino all’imbarcadero. Dove arriviamo quindi presto, intorno alle 11. Fa caldo, il posto sembra abbandonato. C’è un muretto su cui ci sediamo pazientemente, dopo una lunga fila per scambiare i vaucher con i biglietti veri e propri. Qualcuno va in cerca di bevande e panini. Di un bagno: ma il bar più vicino non ha acqua, per cui la toilette non è utilizzabile. Attendiamo fino al primo pomeriggio l’aliscafo. Con noi aspettano tre persone: un signore con capelli bianchi, di Salina, che rientra con moglie e nipote dall’Australia. Tornano per tre mesi, spiega lui in un italiano che capiamo con difficoltà, per il chiuso modo di parlare, forse di tipo dialettale, con intercalari americani. Tornano per vedere la madre di lei che è ormai in là con gli anni. Ne ha ottantasei: forse sarà l’ultima volta che vengono a Salina. Hanno due figli, un maschio e una femmina, la mamma del ragazzo lungo e allampanato che attende silenzioso con un berretto calato sugli occhi mentre guarda immagini sul portatile. La mamma del ragazzo, Anna, era sposata con un abruzzese. Ma lui non voleva restare in Australia, ha lasciato moglie e due figli e se ne è andato. Il padre di Anna ha ancora oggi un tono meravigliato e risentito, mentre ne parla, come si interrogasse ancora su come si possa venir meno in questo modo a promesse, affetti, doveri. Loro, i genitori di Anna, i nonni del ragazzo, all’epoca in cui lui doveva nascere erano in Italia. Pensavano di essere rientrati, dopo anni come migranti. Perché in Australia si trovavano bene ma il cuore era rimasto a Salina. Erano in un campeggio in Abruzzo, campeggio cui partecipavano, raccontano, molti simpatici ragazzi, studenti della Sapienza, quando si avvicina l’epoca del parto. Pensano quindi di tornare in Australia per aiutare la figlia Anna, per assistere alla nascita del nipote. E ripartono. Pensano a un soggiorno di qualche mese: ma poi il genero abbandona Anna e i figli. Che fare? Lasciare lì, sola, la figlia? I due rimangono. Sono ormai molti anni che vivono in Australia: erano partiti nel 1967. La signora ha capelli scuri, una bella bocca generosa. Ma è pallida, ha l’aria distrutta. Fa fatica a tenere gli occhi aperti, oppressa dalla stanchezza. Dice di avere la pancia gonfia. Possibile che non ci sia, nei pressi, un bagno?

    Il nipote è molto silenzioso ma acconsente a un suggerimento della nonna, che è colei che lo ha cresciuto, poiché ha vissuto quasi sempre con i nonni, che consentivano così alla figlia Anna di lavorare: la prima nipote è più grande. La signora suggerisce al ragazzo (15 anni) di farmi vedere una foto della mamma: e lui acconsente, mi fa vedere una galleria di foto di famiglia, mi ingrandisce una bella fotografia di Anna: che somiglia molto alla mamma. Gli studenti intanto sbocconcellano panini, biscotti, bevono coca-cola, acqua. Mara ascolta, interviene nella conversazione. Veniamo a sapere che il figlio della coppia installa sistemi di riscaldamento e di raffreddamento. Che loro hanno vissuto a Sidney e a Melbourne, dove tuttora risiedono. A Salina avevano casa, un negozio, terra: è stato tutto venduto, è rimasta soltanto la casa della mamma di lei, che li ospiterà.

    Sono stanchissimi. A fatica tengono gli occhi aperti. Il marito passeggia nervosamente avanti e indietro, va ad informarsi sulla presunta ora di arrivo dell’aliscafo. Fa critiche alla gestione del luogo, privo di un sia pur minimo conforto. Il bar senza acqua, ma come è possibile? O forse non vogliono seccature, non vogliono estranei? Lei attende ferma, seduta. Sofferente.

    Infine, arriva l’aliscafo. Sediamo all’interno. Il mare è appena increspato, percorso da piccole onde con spuma bianca: ma subito qualcuno dei ragazzi si sente male. Mi rallegro di aver scelto questo breve percorso invece del più lungo tratto da Napoli. Si tratta di un percorso che non prevede tappe intermedie. Dopo circa un’ora siamo a Salina.

    Allo sbarco, a Santa Marina di Salina c’è il collega Saija, di Scienze politiche dell’Università di Messina, che ci attende. Si è preso lui l’incarico della nostra sistemazione, dopo un nutrito scambio di e-mail (era in Paraguay) e qualche telefonata. I ragazzi, spiega, devono mettere i bagagli in una sua macchina. Poi faranno 500 metri a piedi fino alla casa dove alloggeranno, in stanze a due letti: e scopriremo che si tratta di camere con bagno, con terrazzo con vista sul mare. Mara Clemente ed io, dopo un caffè che ci rimette al mondo, siamo condotte verso un nuovo albergo che a Saija appartiene: dove fervono i lavori per rendere abitabili le stanze in vista di un prossimo convegno di Scienze Politiche sulle problematiche economiche dell’Unione Europea. Saija ne è fierissimo, ci conduce a vedere l’atrio: dominato da un bel mobile antico che sembra fatto apposta per le misure delle mura. Sul retro, una pedana aiuterà chi si occuperà degli ospiti, perché di per sé il mobile antico è decisamente alto rispetto allo scopo. Un lume con catenelle di cristalli dà luce al locale. In terra, al centro del pavimento, piastrelle con motivi floreali. Saliamo scale polverose, troviamo operai al lavoro, rumore di trapani. Ma le nostre stanze sono miracolosamente pronte: sul letto, una sovracoperta in cotone, fatta all’uncinetto, che da sola impreziosisce il locale. Residuo, forse, di antichi, oggi introvabili corredi. Accanto al letto, lumi con vetri a forma di corolla bianca. In terra, ancora motivi floreali che spiccano su un pavimento altrimenti monocolore. C’è un terrazzo con poltroncine e tavolini in vetro e ferro, ma ci si può anche sedere su un sedile di maioliche sul blu e guardare il mare, l’isola di fronte a Salina. Più in alto, un terrazzo in parte coperto, affacciato sul mare. È previsto un bar. La tentazione di restare a contemplare il mare è forte: c’è una bella brezza leggera, è facile sognare i tanti che su queste onde (su altre onde) si sono avventurati lontano.

    Noi però ci spostiamo tutti insieme, docili alle esortazioni del collega che vuole mostrarci il paese in cui tanto si è identificato. Un paese strettamente legato, ci spiegherà, alle sue vicende personali. In cui ha investito il suo tempo, tutte le sue risorse economiche e organizzative. Con lui percorriamo una via su cui si aprono negozi con prodotti artigianali, con offerte turistiche (collanine e braccialetti, borse da mare e sandali, foulard, vestiti di tanti colori, ceramiche); ma anche con negozi di alimentari, di frutta e verdura, dove si possono acquistare particolari, grandi capperi. Passeggiamo ammirando il mare che si scorge in basso, in fondo a stretti cunicoli, tra una casa e l’altra. Apprezzo le tante piante, i fiori: alberi di ibiscus rosa, rossi, gialli. Tanto rosmarino, tanta lavanda. E lantana a grandi fioriti cespugli, e gelsomini. E ancora, fiori profumati di caprifoglio e, più grandi, aperti verso sera, quelli, a campanula, della datura, pianta cara alla magia, alle streghe. E ancora pini, moltissimi. Profumi difficili da trovare in Roma. E comunque, non tutti insieme.

    La serata prevede ancora dolci sorprese: granite di fichi e di mandorle, di pistacchi e di caffè. I ragazzi prendono grandi quantità di panna. Siamo da Alfredo: un luogo di attrazione, con tavolini sempre pieni di gente. E poi, lì vicino, una cena squisita con specialità siciliane: il cibo qui non è solo nutrimento ma cultura, arte. I piatti, ricchi di pesce, cozze, polipi, gamberetti, si richiamano alle bellezze del luogo: ci sono risotto alla Malfitana e maccheroni del Faraglione, per non parlare delle melanzane all’Eoliana. Viene suggerito un semifreddo alle mandorle o ai pistacchi, per chiudere il pasto con un bicchiere di malvasia. Come non ricordare il caro amico e collega Corrado Barberis, che sul cibo ha scritto libri squisiti? O il compianto collega Sinieri, studioso delle migrazioni verso l’Olanda, noto per le sue rubriche sul cibo, per un libro sulla cucina siciliana? Io poi mi sono molto interessata al rapporto cibo-religioni. E so bene che comunque il cibo non è solo nutrimento: è gioia, scoperta, significato. Memoria. Mangiare vuol dire interiorizzare cultura. Simboli. La cosa qui a Salina è, ai miei occhi, chiarissima.

    Nel frattempo si parla, si discute di migrazione. Si discute del Museo della emigrazione aperto in Roma, al Vittoriano: un’occasione sprecata, ai miei occhi. Dal contenuto modesto, con grandi lacune: mancano le migrazioni regionali. Non vi è nulla sulle società di mutuo soccorso. Dopo il 2011, sarà solo un museo virtuale. Anche Saija sembra condividere queste critiche. Sembra amareggiato dalla approssimazione del discorso migratorio proposto da un museo che nell’intenzione originaria avrebbe dovuto essere l’interlocutore dei tanti piccoli musei italiani dell’emigrazione, raccordarsi con i grandi musei delle migrazioni già esistenti all’estero, in cui è presente la componente italiana. Sono inoltre relegate in fondo, molto scarse, le riflessioni, le documentazioni sugli immigrati. Concordiamo nella preoccupazione che si abbia oggi una certa tendenza alla esaltazione acritica della emigrazione italiana (tutti bravi, tutti buoni, tutti lavoratori, gli italiani emigrati) cui fa riscontro invece una stereotipata visione negativa degli immigrati, rappresentati come tutti delinquenti o potenzialmente tali.

    Il giorno dopo, dopo esserci lasciati alle spalle una prima colazione a base di granite al caffè e brioche (ci siamo adeguati volentieri e in fretta agli usi locali) andiamo a vedere il Museo delle Eolie, a Malfa. La strada passa tra pareti di verde: pini e cipressi, acacie in fiore; euforbia e cedri del Libano dal verde scuro. Cespugli di artemisia (la madre di tutte le erbe, l’erba santa degli antichi, un’erba ingannevole, dagli apparentemente insignificanti fiorellini gialli, che cresce nei fossi, sul margine della strada) [8] inframmezzati da fichi d’india, oleandri dai bei, velenosi fiori rosa, bianchi, rossi e alte piante di finocchio [9]. E tante piante con fiori di cappero: qui, i capperi, ci viene spiegato, sono coltivati.

    Lasciata la macchina, dopo pochi metri in una stradina in salita entriamo nell’attuale sede del museo: che è qui solo da un anno. Una bella insegna indica il luogo a chi si interessi di emigrazione.

    Noi abbiamo la fortuna della guida di Saija: che ci mostra la prima stanza e ci spiega che il museo tratta soprattutto del viaggio e delle società di mutuo soccorso, così importanti all’epoca dell’emigrazione. Spiega agli studenti che quella da Salina non è stata, come loro potrebbero credere, una emigrazione da povertà ma piuttosto una emigrazione motivata da fattori di attrazione: all’epoca dei primi viaggi, l’isola era piuttosto ricca grazie alla malvasia. Solo dopo un anno buono dalle prime importanti migrazioni si avrà il problema della fillossera e quindi l’impoverimento degli abitanti. D’altronde si era saputo dai tanti agenti che circolavano all’epoca della possibilità di andare in paesi lontani, ma dalle molte potenzialità. E molti erano partiti attratti anche dall’idea di ottenere terra coltivabile.

    L’altra ricchezza dell’isola, oltre alla malvasia, spiega il prof. Saija, era data dalla pietra pomice: e ne vediamo in abbondanza nel museo, in ceste e in terra. Ve ne era tanta che la si impiegava nelle costruzioni, tanto più che si trattava di materiale dalle molte virtù, leggero.

    Vi sono grandi quaderni rilegati in cuoio con le annotazioni prese sulle navi: i nomi degli imbarcati, le date di partenza, i decessi, gli arrivi. Sui due piani del museo, belle antiche foto e varie gigantografie. Fotografie con volti di uomini e donne dimostranti fierezza e concentrazione, in posa per il desiderio di lasciare un buon ricordo di sé ai parenti, agli amici. Volti di persone aduse al duro lavoro.

    Ci vorrebbero settimane, non ore, per vedere i reperti uno ad uno, per esaminare le carte. Usciamo da lì proponendoci di tornare, non appena possibile. E già c’è chi parla di trascorrervi l’estate, di studiare i percorsi, di lavorare al sito del museo, alla sua comunicazione al di là della cerchia degli studiosi, degli esperti. Si imbastiscono primi accordi per un periodo di stage.

    Mangiamo pane ‘cunzado’ da Alfredo: piatti enormi con pane guarnito con formaggi, mozzarella, prosciutto, pomodori, capperi. E torniamo poi a Malfa per vedere un filmato sulle migrazioni, curato da Saija: foto, tante, d’epoca, e spezzoni di vecchi film sulle migrazioni. Poi, un giretto nei pressi, fino ad affacciarci, dall’alto, sull’insenatura dove sorge la casa, dove arriva il sentiero percorso da Troisi postino quando portava la corrispondenza a Philip Noiret. Sulla nostra sinistra la montagna con vene di terra scura, rossastra, con una vegetazione fitta. Seguiamo il volo di qualche falco pellegrino che qui vive e prolifica.

    C’è poi giusto il tempo per gli ultimi acquisti prima della cena, in un altro locale immerso nel verde, tra Lingua e Salina, dove si sente forte il profumo dei fiori. Dove ci sono maccheroni alla Cannata, penne alla Salinara, calamaretti alla malvasia, per non parlare del filetto di pesce in crosta di mandorle ed altre squisite vivande. Un locale, spiega un depliant illustrativo, consigliato da “I Ristoranti di Veronelli”, da “Le Guide du Routard”, da “Slow Food” e molti altri gruppi di intenditori. Qui, dovunque siamo andati non abbiamo certo dovuto pentirci della scelta.

    Verso le migrazioni da S. Giovanni in Fiore

    Il 17 intraprendiamo il viaggio di ritorno verso Roma: due ore di aliscafo, poiché questa volta ci sono tappe intermedie, ed eccoci a Reggio Calabria. Stavolta però siamo più organizzati: ci dirigiamo in fretta ad un vicino albergo con cui abbiamo nel frattempo preso accordi. Troviamo ad attenderci Vincenzo Gentile [10], autore di un ampio, importante studio sull’emigrazione da S. Giovanni in Fiore, con un suo amico. Gentile ci ha portato copie del suo testo, La Calabria strappata. L’emigrazione transoceanica dal sogno americano all’incubo di Monongah (LibrAre, Milano-Cosenza, 2009), altri volumi. Sbocconcelliamo pane alle olive o pane con alici, formaggi, pomodori, ‘nduja, mentre lo ascoltiamo parlare delle vicende storiche riguardanti la Calabria, di quelle del suo paese il cui nome si lega a Gioacchino da Fiore e alle sue profezie. Parla con passione di queste terre, dell’impoverimento e sfruttamento ulteriore sopraggiunto con i Savoia e l’unificazione dell’Italia, fatta però a danno del sud. Parla della miserie e delle necessitate emigrazioni verso le Americhe. La maggior parte, in West Virginia. Terra di banditi, la Calabria? Si trattava di una ribellione all’ingiustizia sociale, alla miseria.

    Si parla della storia di S. Giovanni in Fiore, delle sue vicende politiche e demografiche. Delle cause del grande esodo dalla Calabria. Il libro è pieno di foto d’epoca, di documenti preziosi: atti di matrimoni pervenuti dall’estero, dal 1897 al 1919; atti di nascita di sangiovannesi pervenuti dall’estero, nello stesso periodo. Ma anche atti di morte pervenuti tra il 1888 e il 1922.

    A lungo Gentile racconta della tragedia di Monongah, in cui tanti conterranei persero la vita: una tragedia così coperta dall’oblio che si era perso il ricordo del significato di un’espressione linguistica risalente a questi fatti.

    Sono la passione del suo racconto, oltre alla significatività delle fotografie, che tengono concatenata la attenzione di noi tutti. Sono foto di povera gente. Ma di gente fiera, che guarda dritta nell’obiettivo. Di donne e uomini pazienti, laboriosi. Poveri.

    Qui nessuno pensa a migrazioni se non in relazione alla fame: e quanti italiani sfruttarono, dice giustamente Gentile, le migrazioni! C’era chi guadagnava sui viaggi, chi sulle attese della nave. Chi sfruttava i nuovi arrivati in relazione al luogo dove dormire, agli attrezzi necessari, al cibo. Per non parlare del lavoro, delle sue condizioni.

    In poche ore credo che il dramma delle emigrazioni sia reso con forza e chiarezza a chi ascolta questo giovane studioso che per anni e anni ha cercato dati, materiale iconografico, statistiche. Che ha saputo rendere viva questa vicenda corale, questa tragedia dell’emigrazione.

    Sfogliamo insieme il libro. Bimbi con cuffie e lunghe vesti, scarponcini, visi imbronciati, ragazzi e adulti durante la traversata, in cerca di aria sul ponte, o seduti, le donne avvolte in ampi scialli, in attesa di momenti migliori. O dello sbarco.

    Vi sono foto di chi è emigrato, inviate in paese. E foto di chi è rimasto in paese, per gli emigrati. Gentile ce ne illustra qualcuna, anche se molte parlano da sé: come quella di una donna e del figlio, ormai giovinetto. Entrambi in piedi, lei con il costume tradizionale, con collana al collo, anelli. Il ragazzo, con una catena che lascia supporre un orologio gelosamente riposto, lo sguardo consapevole, che intende trasmettere un messaggio di responsabilità: il padre può stare tranquillo, c’è lui che pensa alla madre, ai beni. Tra madre e figlio, una sedia: il posto del padre, sottolineato dal suo cappello. Entrambi, madre e figlio, hanno una mano sulla spalliera della sedia, in legno e paglia. Riconoscono il ruolo, il posto del marito e padre. Lo attendono, pronti a fare un passo indietro.

    Ma forse è un’altra, la storia più toccante: Gentile racconta dell’estrema povertà di tanti migranti, delle morti per stento, per lavoro. Erano così poveri, i sangiovannesi, che non c’era la possibilità di far loro un funerale decente. E così i primi che riescono a mettere da parte un po’ di denaro si comprano, mettono su di sé un orecchino d’oro: nella speranza che così, se proprio dovranno morire in West Virginia, ci sia qualche compaesano che possa vendere l’orecchino, pagare loro un funerale. Nonostante la giornata calda sono percorsa da brividi.

    Molto prima di quanto vorremmo è l’ora di salutare i nostri ospiti, di andare all’aeroporto. Dove cerchiamo, nella libreria, libri sulla Sicilia, sulla Calabria. Libri di emigrazione, ma anche libri sui luoghi e sulla cucina. Ci imbarchiamo con bagagli molto più pesanti di quelli dell’andata.

    E poi?

    Ma soprattutto, credo, ripartiamo con maggiori consapevolezze circa l’importanza di non lasciare che l’oblio copra tante storie di uomini e donne, adulti e bambini, delle loro vicende, speranze, realizzazioni. Penso, mi auguro che, nonostante il viaggio sia stato breve, anche gli studenti, o almeno vari tra loro, abbiano compreso meglio cosa si intende quando si parla di storia orale, di storie di vita di singoli che divengono storie corali, di una comunità. Che abbiano compreso l’esistenza di tante, diverse cause per l’emigrazione, l’importanza di ascoltare i racconti dei protagonisti, di studiare le tante tracce di un fenomeno così vario eppure così costante nel tempo, che ha toccato tanti popoli. Di comprendere in profondità certi fenomeni.

    Dovremmo davvero ringraziare Saija e i suoi figli, Vincenzo Gentile e il suo amico che ci hanno permesso di accostarci per un poco alla storia dei loro paesi. Paesi amati, studiati, le cui vicende li hanno, ci hanno appassionato. Che ormai non dimenticheremo tanto facilmente.

    Un viaggio breve, certamente. Eppure, ricco di profumi, sapori, odori, sensazioni, ricordi, idee, convinzioni. Di storia. Un viaggio che ci ha sicuramente arricchito, che ci ha cambiato. Immagino che da queste giornate potranno nascere ulteriori ricerche, interessi; forse, lavori, stage, tesi.

    In quanto a me che ero uscita piuttosto disturbata dalla esperienza dell’ipotizzato Museo nazionale delle migrazioni, divenuto poi Museo nazionale dell’emigrazione italiana, per poco tempo aperto al Vittoriano (si ipotizza fino al 2011, poi dovrebbe essere solo un museo virtuale), credo che l’avere visto da vicino un più piccolo ma ben organizzato museo, che rivà a storie importanti per le vicende anche nazionali (emigrazione regionale; società di mutuo soccorso e loro ruolo), un museo i cui materiali sono stati collezionati da un appassionato studioso di queste storie, di queste vicende, come il collega Saija; credo che l’aver ascoltato a lungo la ricostruzione della storia dell’emigrazione da S. Giovanni in Fiore verso il West Virginia, l’avere potuto vedere, avere il libro di Vincenzo Gentile, parlarne con il suo autore, assorbire queste storie dalla sua viva voce mi abbiano riconciliata con il desiderio di occuparmi meglio di queste tematiche. Di superare il disagio determinato da un contenzioso assurdo tra alcuni che a queste tematiche hanno dedicato la vita e papaveri del Ministero degli Esteri, per i quali sembra più importante l’immagine che non la sostanza, per i quali evidentemente le migrazioni italiane sono un fatto del passato (e non importa che in realtà siano ancora oggi in atto), che comunque poco ha a che vedere con le migrazioni verso l’Italia e l’Europa, che interessano solo molto marginalmente.

    Un breve viaggio, circoscritto nel tempo – tre giorni in tutto - e nelle spazio (un’isola delle Eolie, Salina, una area delimitata di Reggio Calabria). Eppure tempi e spazi si sono dilatati: tutti i ragazzi hanno detto di avere l’impressione di essere a Salina da molto più tempo, di avere acquisito con naturalezza abitudini, modi di fare: dalla granita mattutina ai percorsi in sette persone in una macchina, fino alle preoccupazioni per il cane Violino ritrovato a passeggio per l’isola, per i lavori all’albergo. È stato certamente per noi tutti più naturale e immediato l’entrare nell’isola di Salina, nella sua storia, nei suoi verdi percorsi, nelle sue splendide baie, nel suo presente, che non l’uscirne. E poi, luoghi piccoli, circoscritti? Una piccola isola, un imbarcadero senza alcun confort, una sala d’albergo? Sì, indubbiamente. Ma abbiamo incontrato anche monti vulcanici e boschi, abbiamo fatto, con i migranti di un tempo, percorsi lunghissimi per nave; conosciuto da presso condizioni di vita mai prima realmente accostate; abbiamo fatto conoscenze molteplici, con uomini e donne mai prima incontrati. Visto miniere. Saputo di morti durante il viaggio. Di morti sul lavoro: di tragedie ignorate. È stato insieme un viaggio nella bellezza e nell’eleganza, ma anche, grazie al Museo, grazie a Gentile, un viaggio nella speranza e nella delusione; e nella fatica, nella solitudine e nel sospetto. Tipica in questo senso una storia di S. Giovanni in Fiore, dove c’è stato chi ha scritto a un marito lontano di un supposto tradimento della moglie. Senza una base concreta: perché un pretendente respinto per vari giorni si fa vedere all’alba, alla porta di lei, mentre si allaccia le scarpe. E per la donna è il bando sociale, l’interruzione di ogni possibilità di scambio, di rapporti con il marito, con la di lui famiglia. Né importa che si tratti o meno di verità. Sarà costretta, lei innocente, a vivere infine con il pretendente respinto: l’unico che sappia la verità, l’unico che è disposto ad avere a che fare con una supposta donna perduta.

    Altri tempi. Un viaggio nell’Italia di ieri, oltre che in quella di oggi, quando siamo piuttosto noi italiani che respingiamo gli immigrati, li sottoponiamo a vessazioni. Uno scomodo, affascinante viaggio. Lunghe distanze in pochi giorni. Diversi universi. Ma, soprattutto, un viaggio in noi stessi, nel nostro passato, nel nostro presente.

    Lo sapevo da tanti anni: un viaggio, un pellegrinaggio ti cambiano. Si parte in un modo e poi chi arriva alla meta è diverso. E ancora mutato è, in genere, chi torna. Certo, oggi i viaggi non sono più così rischiosi come quelli di una volta, quando era consigliabile fare testamento prima di partire. I rischi di oggi sono forse più fastidiosi, meno temibili: l’attesa di ore, il volo che tarda, i controlli che ti costringono a lasciare l’acqua, la crema per il sole, il dentifricio prima dell’imbarco. Il metal detector che suona, la valigia che viene esaminata. Piccole seccature, più che non grandi pericoli. Ma resta il senso di spaesamento all’arrivo, l’avventura del contatto con una qualche nuova realtà, l’ingresso in un nuovo orizzonte. Noto e ignoto insieme. Di regola, arricchente. E, comunque, tale da cambiarti: da darti più conoscenze, nuove sensazioni, nuove capacità interpretative. Nuove condivisioni. Certo, se si è in grado di cogliere le occasioni, di entrare nel nuovo universo. Di farne tesoro.

    Note

    1] Cfr. di Franco Ferrarotti, Partire, tornare. Viaggiatori e pellegrini alla fine del millennio, Donzelli, Roma 1999 e il mio Pellegrinaggi e giubilei. Laterza, Roma-Bari, 2000. Scrive Ferrarotti che in un’epoca di viaggi di massa si rischia la perdita della dimensione della memoria, poiché è come se ci si muovesse sempre e non si arrivasse mai. Ben diverso invece il viaggio del profugo, del richiedente asilo. Anche il pellegrinaggio oggi, e con tutte le eccezioni del caso, appare meno difficile e sofferto, meno individuale del passato. E forse perde di significato.
    2] Sui vari tipi di viaggio cfr. di Giovanna Gianturco, Sociologia del viaggio.
    3] Ad esempio all’epoca piazza Margana, sita tra il Campidoglio e il Tevere, ospitava un teatro popolare «per la classe più bassa della popolazione». Viene presentata dall’Autore come un luogo di raduno dei romani, «in particolare delle classi più basse e dei contadini che vengono dalla campagna. L’aspetto del luogo è misero e sudicio, la merce offerta sulle bancarelle è tutta di poco prezzo. Chi comprerà gli innumerevoli mozziconi di sigari che i ragazzi hanno raccolto per le strade e vengono presentati per la vendita in casse di legno? Li comprerà il pover’uomo, il contadino per la sua pipa o per masticarli. Lo scrivano pubblico, seduto dietro il suo tavolo ad ogni angolo di casa, ha davanti a sé carta, penna e calamaio, con il cui contenuto sa comporre, con la stessa facilità, lettere amorose o di minaccia, contratti, esposti, suppliche.». (F. Gregorovius, ed. cit., pp. 273-274). Oggi si tratta di una piccola piazza caratteristica, in cui si apre un noto ristorante con cibi romani , una bella galleria d’arte in una sede arricchita da reperti storici.
    4] Penso ai pupi di Mimmo Cuticchio, il cui teatro palermitano, opera di alto artigianato, ho potuto visitare, anni addietro, quando, essendomi recata a Palermo perché vincitrice di un premio Pitré, vi sono stata condotta dal maestro Gianpistone, valente pittore da cui poi ho più volte avuto aiuti e collaborazione in occasioni di convegni e incontri di lavoro e studio.
    5] Da anni ci rechiamo con il Master Immigrati e rifugiati e il Dottorato in Teoria e ricerca sociale nel bel castello Colonna, che è stato oggetto di un attento restauro, per seminari intensivi: un’abitudine che si è rivelata proficua, oltre che piacevole, anche per la bellezza del castello e dell’antico paese, dove sembra sia nato lo stesso Martino V, l’unico pontefice della casata.
    6] Dove recentemente mi sono recata prima per un convegno sulle migrazioni al femminile (Paliano ha fornito molte balie ai paesi meta di emigrazioni) e più recentemente, con F. Ferrarotti e alcune mie collaboratrici (Sonia Masiello, studiosa di sociologia urbana e di migrazioni, Katia Scannavini, che coordina il master Immigrati e rifugiati, Alessia Montuori, dottoranda), a discutere, su invito dell’assessore ai problemi giovanili, Marucci, dei tanti perché del disinteresse giovanile nei confronti della politica. A Paliano l’antico castello Colonna è da tempo adibito a carcere.
    7] Per esempio, con riguardo all’Abbazia di Trisulti, immersa nel bosco, in un paesaggio montagnoso, che offre ospitalità a lui e al suo accompagnatore così come a meno importanti ospiti. A distanza di molti anni da una mia visita a Trisulti ricordo ancora l’incanto dei luoghi, le primule freddolose che si aprivano la via tra spessi strati di foglie.
    8] P. Lieutaghi, Dizionario delle erbe, Rizzoli, Milano 1974. L’erba bianca, come anche viene definita l’artemisia, campeggia nel libro di Angelo De Gubernatis, La mythologie des plantes ou Les légendes du règne végétal, 2 voll., Archè 1976 (Paris, 1882). Ma era già presente in Apuleio, come erba che proteggeva dagli spiriti maligni.
    9] Cfr. il mio Miti e magie delle erbe, Newton Compton Editori, Roma 1993.
    10] Devo questo contatto, questo incontro a Norberto , che all’emigrazione italiana si è dedicato per anni e che ho conosciuto come membro di rilievo della CGIE, Conferenza Generale degli Italiani all’Estero, che avevo recentemente incontrato a Campobasso, in occasione della presentazione del diario di Giuseppe Lidio Lalli, relativo all’internamento durante gli anni 1944-1945 (E.Orlanducci, E. Gardini, A. Feroli, R. Zucco, Volontario di coscienza, Mediascape.Edizioni ANRP, Roma 2010).


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