La lecture de soi et de l'autre
Orazio Maria Valastro (sous la direction de)
M@gm@ vol.9 n.1 Janvier-Avril 2011
ALLACCIARE I FILI SPEZZATI
Analisi di tre autobiografie di persone divenute disabili
Rosalba Perrotta
rosalba.perrotta@videobank.it
Professore Ordinario di Sociologia, Facoltà di Scienze Politiche,
Università degli Studi di Catania.
1. L’uso dell’autobiografia
Leggere autobiografie consente di conoscere esperienze e momenti della
vita che restano ignoti a chi non li ha vissuti.
Le autobiografie ci svelano un mondo e, nello stesso tempo, ci introducono
in esso. Illustrano e spiegano senza illustrare e senza spiegare. Catturano
il lettore nella narrazione e, rendendolo protagonista di quello che accade,
gli fanno provare le emozioni di chi racconta e gli mostrano la realtà
attraverso i suoi occhi.
La corrente sociologica dell’Interazionismo simbolico, un approccio che
dà particolare rilievo ai significati attribuiti dagli uomini agli oggetti
di cui hanno esperienza, considera le storie di vita uno strumento di
indagine prezioso (Plummer 1983, 2001). Il racconto di un tratto della
vita, o della vita in genere, consente di raggiungere una conoscenza della
realtà soggettiva di chi narra molto superiore rispetto a quella ottenuta
attraverso questionari o interviste strutturate. Esempi classici in questo
senso sono l’autobiografia di Wladek, un contadino polacco immigrato negli
Stati Uniti, contenuta nella nota opera di Thomas e Znaniecky Il contadino
polacco in Europa e in America ([1916-20] 1968), e la storia di Stanley,
un giovane deviante, proposta da Clifford Shaw in The Jack-Roller ([1930]
1966).
Ma l’interesse per le autobiografie non è ristretto agli ambiti della
Sociologia. Le memorie di personaggi che appartengono al mondo della cultura
e dello spettacolo, le autobiografie di persone note, o di persone le
cui esperienze possono interessare il pubblico, affollano gli scaffali
di librerie e biblioteche. Abbiamo autobiografie di filosofi (Rousseau
e Bertrand Russell, ad esempio), di scrittori (come Doris Lessing), di
attori famosi (Chaplin, Niven, Gassman, Manfredi etc.), di sportivi (per
esempio Valentino Rossi), di persone con lavori insoliti (come Nell Kimball,
autrice di Memorie di una Maîtresse americana), di personaggi discussi
(quali Paul Burrell, maggiordomo di Lady Diana), e la lista potrebbe continuare
per parecchio.
Come tutte le cose di cui si ha esperienza e che vengono raccontate, sia
a se stessi che agli altri, anche le storie di vita sono frutto di una
costruzione. Dipendono dalle selezioni della memoria, dalle visioni del
mondo e dalle tecniche narrative di chi le racconta, riflettono gli obiettivi
dello studioso che le raccoglie e le analizza, e vengono ulteriormente
elaborate nella mente di chi le legge (v. Denzin 1989). Un’autobiografia
che si orienta verso il grande pubblico è soggetta, poi, a ulteriori interferenze.
Deve essere scritta in modo da convincere il potenziale editore ad accettarla,
e può anche essere modificata, a richiesta della casa editrice, per renderla
più adeguata ai canoni letterari e/o all’interesse del lettore (Fobert
Veutro 2009, pp. 42-44).
I sociologi, in genere, preferiscono raccogliere personalmente le storie
di vita da analizzare in modo da far emergere gli elementi e le sequenze
per loro rilevanti; elementi e sequenze che le autobiografie pubblicate
con l’intento di raggiungere un pubblico generico di lettori potrebbero
non mettere a fuoco. Ignorare questo tipo di autobiografie, però, significherebbe
trascurare materiale che può offrire contributi interessanti alla comprensione
del mondo sociale e che, data la sua particolare leggibilità, favorisce
analisi capaci di attrarre anche un pubblico di non addetti ai lavori.
Quali che siano le dinamiche alla base della loro costruzione, le autobiografie
offrono comunque materiale prezioso: avvicinano il lettore al mondo interiore
dell’autore, gli parlano, esplicitamente o implicitamente, dei suoi desideri,
delle sue paure, dei suoi sogni, delle sue debolezze; gli fanno comprendere
la maniera in cui egli ha definito le diverse situazioni, e il ruolo che
in tali definizioni hanno avuto i suoi altri significativi.
Favorendo il role-taking e l’empatia, l’autobiografia consente al lettore
di immedesimarsi in ciò che legge, lo fa uscire da sé per sperimentare
nell’immaginazione un’altra esistenza, allargando così la sua capacità
di guardare al mondo e rendendo più elastica la sua mente.
2. Narrare la sofferenza
Sono parecchi gli scritti autobiografici rivolti al grande pubblico che
si concentrano sulla narrazione di condizioni di vita dolorose.
In Se questo è un uomo, Primo Levi ci racconta la sua esperienza del lager,
Lia Levi, in Una bambina e basta, ci narra la sua vita di piccola ebrea
nel periodo delle leggi razziali. Del carcere scrivono, tra gli altri,
Silvio Pellico, Caryl Chessman, condannato a morte, Massimo Ballone, definito
su Wikipedia “criminale, criminologo e scrittore italiano”…
Narrare la propria sofferenza può soddisfare esigenze diverse. Un obiettivo
importante, in genere, è quello di consolidare le memorie e dare loro
una sequenza, di cogliere il senso della propria vita e della propria
identità. Goliarda Sapienza inizia Lettera aperta (1997) spiegando che
vuole mettere ordine in venti anni della sua vita oscuri e ingarbugliati
(p. 15). Nel testo in cui racconta i mesi che seguono all’incidente che
l’ha costretta in sedia a rotelle, Barbara Garlaschelli (2004) afferma:
“Ricordare e condividere è un modo per salvarsi, per non perdersi” (p.
120). E Carole Mackie ([1999] 2004), ammalata di sclerosi multipla: “Questo
libro […] mi ha dato la comprensione e la consapevolezza degli avvenimenti
della mia vita” (p. 254).
In questi casi possiamo parlare di autobiografie ricostruttive di senso.
Vi sono però anche autobiografie che sembrano concepite essenzialmente
per dare sostegno alla propria immagine di sé mostrandosi come vittime
degli eventi e/o di persone cattive, o enfatizzando le proprie capacità
e i propri successi. Goffman ([1961] 1968, pp. 176-186) parlerebbe nel
primo caso di storie tristi, nel secondo di storie di successo.
L’autobiografia può pure avere lo scopo esplicito di offrire incoraggiamento
e indicazioni utili, di fornire istruzioni a coloro che vivono la stessa
esperienza dell’autore. Sono, ad esempio, apparsi recentemente libri di
persone guarite dal cancro che raccontano la loro storia e forniscono
notizie intorno alle varie terapie, ai Centri che si occupano di questa
patologia etc. Potremmo parlare, in questo caso, di autobiografie-guida.
Quali che siano gli obiettivi, narrare la propria sofferenza è comunque
una forma di autoterapia: “ho pensato che sfogarsi con qualcuno sarebbe
stato meglio, se non per gli altri almeno per me” (p. 15) scrive Goliarda
Sapienza, e la Mackie: “Questo libro si è rivelato un’esperienza catartica
per me” (p. 254).
Le autobiografie che riguardano l’handicap e la malattia sono numerose.
Ma perché leggerle? Si possono leggere per la stessa ragione per cui si
legge un romanzo e per altre ancora. Ci introducono, infatti, in una realtà
che, in genere, non ci è nota e offrono risposte a domande quali: cosa
può accadere quando la malattia o l’handicap irrompe nella vita di una
persona sana? Che cosa aiuta ad andare avanti? Quale può essere il ruolo
degli altri? Proveremo qui ad affrontare queste e altre domande attraverso
l’analisi delle autobiografie di tre persone che hanno vissuto l’esperienza
della malattia e dell’handicap: Barbara Garlaschelli, scrittrice, rimasta
paralizzata nell’adolescenza a causa di un tuffo; Carole Mackie, giovane
hostess inglese che si è ammalata di sclerosi multipla; Jean-Dominique
Bauby, giornalista francese con locked-in syndrome in seguito a un ictus.
Sono storie analoghe per alcuni aspetti, diverse per altri. In tutti e
tre i casi si tratta di autobiografie ricostruttive di senso, e in tutti
e tre i casi l’handicap non è presente alla nascita ma interrompe il corso
di una vita “normale” dividendola nettamente in un prima e in un dopo.
Le situazioni dei tre autori, al momento dell’incidente o dell’esordio
della malattia, però, sono differenti: la Garlaschelli ha 15 anni, è una
studentessa, e vive in famiglia; la Mackie ha 23 anni, lavora, è finanziariamente
indipendente e vive da sola; Bauby è un professionista sulla quarantina
che da poco ha lasciato la famiglia e ha iniziato una nuova relazione
sentimentale.
Mentre nel caso della Garlaschelli e di Bauby la disabilità, dopo un primo
periodo iniziale, è palese sia a loro sia agli altri, nella storia della
Mackie abbiamo una malattia che resta quiescente per lunghi periodi e
può essere celata. La Garlaschelli e Bauby appaiono agli altri come persone
con un grave handicap, la Mackie, invece, sembra in genere una persona
sana.
Tutte e tre le autobiografie sono scritte in modo da favorire l’identificazione
e l’empatia. Lo stile cambia a seconda dell’autore e a seconda del pubblico
che si intende raggiungere. In Sirena, di Barbara Garlaschelli, e in Lo
scafandro e la farfalla, di Jean-Dominique Bauby, vi è un periodare brillante:
i due autori sono professionisti della scrittura, e i loro testi si orientano
verso un pubblico che vuole esplorare condizioni di sofferenza senza venire
travolto dall’angoscia. L’umorismo serve a stemperare il dramma; si consideri
che, sebbene composto con uno stile ironico, Sirena è stato giudicato
da un editor “non abbastanza ironico” (Vallorani 2004, p. 128). Io e la
mia ombra, invece, è stato scritto dalla Mackie, divenuta testimonial
per la sua patologia, con la collaborazione di Sue Brattle, una giornalista.
L’obiettivo letterario, in questo caso, lascia il posto al valore della
testimonianza. L’autrice chiarisce: “L’ho scritto per condividere la mia
storia con altri augurandomi che dia loro una migliore comprensione di
che cosa è la vita se si è malati di sclerosi multipla” (p. 260). È con
questo scopo in mente che racconta la sua esperienza, che parla delle
reazioni delle persone per lei importanti, che chiarisce i problemi incontrati
sia da lei che dagli altri per lei significativi, che inserisce nel libro
anche le testimonianze dell’ex fidanzato, della madre, del padre e della
responsabile del personale della British Airways. Il testo assume le caratteristiche
della guida in particolar modo nell’Appendice, che offre informazioni
riguardo alle caratteristiche della malattia, ai risultati cui è pervenuta
la ricerca scientifica, alle possibili terapie.
I titoli dei tre libri propongono metafore che ne sintetizzano il messaggio.
In Lo scafandro e la farfalla, Bauby ci dice che nonostante il suo corpo
sia immobile e rigido come uno scafandro, il suo spirito è agile e vitale
come una farfalla. In Sirena, Barbara Garlaschelli, priva dell’uso delle
gambe, non rinuncia alla propria femminilità, ma si ispira a un modello
pieno di mistero e di fascino: la sirena, appunto. Il titolo Io e la mia
ombra sottolinea come la Mackie mantenga la propria identità anche dopo
la malattia: Carole Mackie resta sempre “io”, anche se la sclerosi multipla
le sta accanto e la segue come un’ombra.
In tutte e tre le autobiografie vi è un messaggio di base ottimistico:
con la disabilità la vita non finisce ma si trasforma. E si può fare in
modo di valorizzarla.
3. Consapevolezza dell’handicap e crisi della realtà
Barbara Garlaschelli racconta con cura minuziosa gli
attimi, le ore, i giorni che seguono l’incidente che l’ha resa tetraplegica.
L’incidente (“la botta in testa”) è qualcosa di repentino, legato a un
tuffo. Lì per lì lei ha creduto di morire: “Prima è l’acqua, poi lo schianto,
poi il dolore […] mentre galleggi a pancia in giù, senti con assoluta
certezza che stai morendo. Ti pervade una strana calma […] Qualcuno mi
vedrà? All’improvviso delle mani, e ti ritrovi il cielo davanti. Spalanchi
la bocca e bevi l’aria” (pp. 11-12).
Una volta tratta in salvo, però, la ragazza torna alla sua realtà di sempre
e si sente di nuovo immersa nel suo mondo dato per scontato. Un tuffo,
qualcosa di ludico, di poco importante, non può interrompere il corso
della sua vita. Lei è viva! E allora tutto va bene. Pensa alla festa cui
deve partecipare, si pone il problema dei capelli bagnati… Non vuol credere
alle facce preoccupate che la circondano: “No, guardate che vi state sbagliando.
È stata solo una botta in testa, adesso mi alzo e starò benissimo. Stasera
devo andare a una festa io… (p. 13); “E la permanente? Cazzo, l’avevi
appena fatta…” (p. 14).
Tenta di muoversi e non ci riesce: “Insomma, muoversi è la cosa più naturale
del mondo! Tutti si muovono. Forse poi passa” (p. 15). Comincia a considerare
l’idea che sia accaduto qualcosa di irreparabile, ma cerca di esorcizzarla.
Cerca di rimandare il momento in cui saprà: “C’è una voce, però, dentro
di te, in un angolo remoto, che da un po’ ti sta ripetendo: ‘No’. No che?
Non vuoi indagare” (p. 15). “Non fai domande. Qualcosa ti suggerisce che
fare domande, adesso, sarebbe controproducente. La tua mente non potrebbe
sopportare le risposte…” (p. 18).
Poi, quando la risposta che non voleva sentire arriva, la consapevolezza
del cambiamento non può più essere elusa:
… impari una serie di vocaboli nuovi e pomposi che, di tanto in tanto,
sfoggi con aria saputa. E scopri che sei una mielolesa. Questa parola
dal suono dolce e zuccheroso significa che ti sei sputtanata il midollo
spinale all’altezza della quinta e sesta vertebra cervicale. Più è alta
la lesione, più sono i nervi compromessi.
E allora?
Sei una tetraplegica (p. 19).
Carole Mackie, in vacanza a Rio de Janeiro insieme ad
alcuni colleghi, ricorda così il momento che spezzerà la sua vita a metà:
Dopo una lunga doccia, mi sedetti alla toeletta per truccarmi: fu l’ultima
azione che feci in quella cui ora ripenso come alla mia vecchia vita.
Poi successe qualcosa che avrebbe cambiato me, la mia esistenza, tutto,
per sempre (p. 16).
Nello spalmare la crema idratante sul viso, la Mackie nota che le punte
delle dita non sentono nulla. Poi, nell’allacciare il reggiseno, si rende
conto che intorno al petto c’è una fascia di circa cinque centimetri priva
di sensibilità.
Prova a spiegarsi quanto le accade inserendolo nella normalità della vita
quotidiana. Interpreta tutto alla luce della stanchezza per il volo transoceanico,
e porta avanti la sua routine: esce con i colleghi, poi va a letto e dorme
“come un sasso”.
L’indomani nota nuovamente che alcune zone del corpo sono prive di sensibilità:
forse perché ha dormito in una posizione sbagliata, cerca di rassicurarsi.
E non ci fa caso. Si abbronza, pensa al fidanzato e alla bella vacanza
che l’aspetta.
Anche quando nell’immergersi in piscina si accorge di non sentire l’acqua,
tenta di portare avanti la sua routine inquadrando il fatto in un frame
che lo renda abbastanza normale: sarà stata la puntura di un insetto,
o un virus… Ma il commissario di bordo non è dello stesso avviso e si
rivolge al medico della British Airways. Si decide, così, il ricovero
in ospedale. E si cerca di allentare la tensione facendo ricorso all’ironia:
“Ti accompagnerò, Carole” mi disse Annette […] È meglio che con te ci
sia qualcuno per assicurarsi che si comportino bene!” Ridevano tutti,
me compresa; serviva a tenere alto il morale nella stanza mentre preparavo
una borsa per la notte (p. 21).
Al suo rientro in hotel, la sedia a rotelle fa capire a Carole Mackie
che lei non è più la stessa. Che la sua vita è cambiata.
quando il facchino dell’albergo ci venne incontro all’entrata, mi resi
conto che la sedia a rotelle che stava spingendo era per me […] mi resi
conto che non ero più io come prima: ero io su una sedia a rotelle.
L’hostess che aveva fatto il suo ingresso in uniforme, impaziente di infilarsi
gli shorts e di bersi un gin tonic, non c’era più (p. 33).
Jean-Dominique Bauby viene colpito da un ictus mentre
è in auto e sta per recarsi a teatro con il figlio. Trasportato d’urgenza
in ospedale, vorrebbe invitare chi guida alla cautela: “Aspettate. Ora
andrà meglio. Non è il caso di rischiare un incidente”, si accorge però
che non riesce a parlare. Il suo ultimo pensiero prima di sprofondare
nel coma è: “bisogna disdire il teatro. A ogni modo, saremmo arrivati
in ritardo. Ci andremo domani sera” (p. 119).
Al suo risveglio, dopo venti giorni, Bauby si trova in uno stato di immobilità
assoluta. Anche in questo caso la routine tende ad avere il sopravvento,
e lui definisce la sua realtà in modo positivo e continua a progettare
per sé una vita “normale”.
Nessuno mi aveva dipinto un quadro preciso della mia situazione e, dalle
chiacchiere captate qua e là, mi ero creato la certezza di ritrovare in
fretta il movimento e la parola.
La mia mente vagabonda faceva addirittura mille progetti: un romanzo,
viaggi, un lavoro teatrale e la commercializzazione di un cocktail di
frutta di mia invenzione (pp. 11-12).
Assume una chiara consapevolezza della sua condizione, anche lui come
Carol Mackie, quando gli presentano la sedia a rotelle:
“Lei è pronto per la sedia a rotelle” ha commentato l’ergoterapeuta con
un sorriso che avrebbe voluto dare il tono di una buona notizia alle sue
parole, che invece suonavano alle mie orecchie come un verdetto. In un
solo colpo intravedevo la spaventosa realtà. Accecante come un fungo atomico.
Più affilata di una lama di ghigliottina (pp. 12-13).
Notiamo in questi tre casi il tentativo iniziale di definire ciò che accade
“nulla di grave”, e il ricorso all’umorismo per sdrammatizzare ed esorcizzare
la paura (ciò di cui si ride non può far piangere!). La routine quotidiana
tende a scorrere, e si vuole che sia così. Vi è infatti l’esigenza di
preservare la realtà data per scontata, perché quando la realtà si spezza
l’individuo perde i suoi punti di riferimento e si trova inerme di fronte
all’irruzione del caos (Berger, Luckmann [1966] 1969).
In tutti e tre i casi la consapevolezza si acquisisce attraverso gli altri.
La parola dei medici, con la diagnosi, stabilisce che cosa è in effetti
avvenuto. Per Barbara Garlaschelli è il termine tecnico “mielolesa” a
sancire la trasformazione. Per Bauby e per la Mackie, l’apparizione della
sedia a rotelle, decisa dal personale medico, assume il valore dell’annuncio
e della condanna.
Si tratta di una consapevolezza che presenta anche aspetti positivi. Bauby
ricorda:
In fin dei conti lo shock della sedia a rotelle è stato salutare. Le cose
sono diventate più chiare. Non ho più costruito castelli di sabbia e ho
potuto liberare dal silenzio gli amici che avevano eretto attorno a me
un’affettuosa barricata sin dai tempi del mio incidente (p. 15).
E Carol Mackie, subito dopo la diagnosi: “Che sollievo, dissi tra me […]
finalmente questa cosa ha un nome e posso cominciare ad affrontarla” (p.
45).
La vita si è spezzata in un prima e un dopo, e l’esigenza principale è
quella di mettere ordine nel caos, di sapere dove ci si trova. Una volta
“definita la situazione”, è poi possibile recuperare i pezzi che consentiranno
di intraprendere il nuovo cammino.
4. Essere come prima: mantenere gli elementi significativi del
self
Nella loro narrazione, la Garlaschelli, la Mackie e Bauby affrontano il
cambiamento cercando di mantenere integri gli altri aspetti rilevanti
della loro identità; non si orientano verso qualcosa di nuovo e di diverso,
ma vogliono, per quanto possibile, essere come prima (v. Marzano, Romano
2007).
In tutti e tre i casi si attinge ad aspetti fondamentali della propria
immagine di sé valorizzando il proprio self materiale e/o spirituale.
Le due ragazze si preoccupano della loro femminilità, e continuano a utilizzare
le loro competenze, di studio l’una e di lavoro l’altra. Il giornalista,
che ha “perduto” il corpo e di conseguenza la professione, invia cronache
agli amici e detta la sua autobiografia.
La Garlaschelli sintetizza nel seguente periodo la sua
reazione alla diagnosi:
E allora?
Allora, è finito il tempo dei tanghi.
Che non hai mai saputo ballare, tra l’altro.
Per novembre torno a scuola (p. 19).
La domanda retorica “E allora?” Serve a ridimensionare l’impatto della
notizia. Poi segue la metafora giocosa del tango (che tra l’altro non
sa ballare). Come a voler dire: se ci si può ridere sopra non è successo
nulla di irreparabile. E subito dopo, per ribadire che è sempre la stessa
ragazza di prima, preannuncia il suo ritorno a scuola.
Nulla di rilevante è cambiato, e lei può continuare a preoccuparsi del
suo aspetto fisico:
Per prima cosa, via tutti i capelli. Addio permanente, porcaccia la miseria.
“Sei bellissima”.
Mamma per fortuna ci sei tu.
“No, davvero guardati”.
Franca [la madre]la fata ti mette lo specchio davanti e, sì, è incredibile
ma sei bella abbronzata, il viso ovale, gli occhi scuri che sembrano due
carboni. E niente capelli (p. 20).
È inquieta per le cicatrici: “lo sai che credono che tu sia un po’ fuori
di testa. Dico, con tutto quello che ha da pensare, questa si preoccupa
delle cicatrici? Ma questo corpo è il tuo corpo. È il tuo bagaglio, la
tua casa, i tuoi sogni, le tue illusioni, il tuo linguaggio segreto” (p.
62).
Immobilizzata dalla vita in giù e con difficoltà a muovere gli arti superiori
si impegna nella fisioterapia. I suoi obiettivi immediati sono due: recuperare
per quanto possibile la mobilità, e superare gli esami. La disabilità
ha trasformato la sua vita, ma le sue identità di ragazza e di studentessa
restano centrali e l’aiutano a dare senso alla realtà: “Così, ricominci
a studiare senza risparmio. E la vita, in qualche modo, ricomincia a mettere
a posto i suoi pezzi” (p. 71).
Bauby, vede il suo corpo come estraneo, mostruoso e inerte:
In un riflesso della vetrina è apparso il viso di un uomo che sembrava
appena uscito da un barile di diossina. Aveva la bocca storta, il naso
rovinato, i capelli arruffati, lo sguardo pieno di paura. Un occhio era
cucito e l’altro spalancato come quello di Caino. Per un minuto ho fissato
la pupilla dilatata senza comprendere che ero semplicemente io.
Mi ha invaso una strana euforia. Non solo ero esiliato, paralizzato, muto,
mezzo sordo, privato di ogni piacere e ridotto a un’esistenza da medusa,
ma ero anche spaventoso a vedersi (p. 28).
Per mantenere qualcosa della sua immagine fisica di prima rifiuta “l’infame
stile jogging raccomandato dall’ospedale” e chiede di indossare i suoi
“stracci da studente attempato”. Lo considera “un segno della vita che
continua”. “È la prova che voglio essere ancora me stesso”, afferma (p.
21).
Ha perduto una parte di sé, ma la sua creatività è intatta e quindi può,
come prima, scrivere. Non riesce a digitare al computer o a impugnare
la penna, ma la palpebra dell’occhio sinistro la muove, ed è attraverso
il suo battito che compone Lo scafandro e la farfalla. Per permettergli
di esprimersi, è stato costruito un alfabeto speciale che lui trova affascinante:
“Mi piacciono molto le lettere del mio alfabeto. Di notte, quando tutto
è un po’ troppo nero […] vocali e consonanti danzano per me sul tema di
una canzone di Charles Trenet” (pp. 23-24).
Continua a essere una persona appassionata delle parole, capace di elaborare
ed esprimere idee e di creare immagini. Quando sa che alcuni lo definiscono
“un vegetale”, si indigna, ed è anche per dimostrare l’integrità della
sua mente che compone un “bollettino” da inviare periodicamente ad amici
e conoscenti.
Carole Mackie pone tre domande alla counsellor cui la
neurologa l’ha indirizzata dopo la diagnosi: “Potrò avere figli?”, “Perderò
il lavoro?”, “Posso avere rapporti sessuali?” (p. 46).
Essere come prima, per lei, significa lavorare, portare avanti la sua
relazione col fidanzato, pensare a una famiglia propria.
La sclerosi multipla, dato il suo andamento intermittente, le dà inizialmente
l’illusione che nulla di rilevante sia cambiato: la British Airways le
consente di volare (anche se in tragitti brevi), frequenta gli amici,
va a trovare il fidanzato che lavora all’estero. I segni della malattia
non sono evidenti, e per un lungo periodo lei preferisce nasconderla per
continuare ad essere per quanto possibile “come prima”. E anche in seguito,
quando rende pubblica la sua condizione, vuole continuare a essere considerata
padrona della sua vita. Così, quando su Skyport, il giornale dell’aeroporto
di Heathrow, viene definita “Vittima della sclerosi multipla”, reagisce
indignata. Rifiuta l’identità di “vittima”: “Ero furiosa: dava un’impressione
negativa, che non corrispondeva affatto a come mi sentivo” (p. 174). Vuole
salvaguardare la sua immagine di ragazza efficiente, e capisce che l’iniziativa
deve essere sua: “Così telefonai alla giornalista per dirglielo e, mentre
stavo parlando con lei, mi resi conto che faceva parte del mio impegno
educare le persone a non usare quelle etichette” (p. 174).
Di se stessa afferma: “Sono ancora me stessa, sono ancora Carole Mackie”
(p. 260).
5. Vita quotidiana e progetti di vita
Il tratto di vita descritto dalla Garlaschelli è piuttosto
breve, dura meno di un anno: dall’agosto 1981, in cui avviene l’incidente,
al giugno 1982, in cui ritorna a casa. Il tempo, in questi mesi, le sembra
immobile, e la sua attenzione si concentra sul corpo e sullo studio.
Descrive gli “strumenti di tortura” utilizzati per favorire il suo recupero.
Il primo, Jacket, “è un affare che sembra un giubbotto antiproiettile,
ma con il corpetto di plastica da cui partono cinque tubi di ferro che
finiscono in una corona con cinque chiodi che si conficcano nel tuo cranio”
(p. 24). Poi c’è Minerva “un affare che ti blocca mento e nuca…”, poi
si passa al collarino (p. 59).
Descrive le reazioni del suo corpo:
Non hai mai ascoltato tanto il tuo corpo come adesso che ti pare diventato
muto. Se ti toccano non senti, ma dentro, dentro è tutto un gridare, saltare,
sussultare […] Conciliare l’immobilità del corpo con l’ipermobilità della
mente sarà la tua occupazione futura (pp. 52-53).
La routine di studio che si impone e la routine dell’ospedale l’aiutano
a consolidare la sua realtà. Ogni giorno vengono a trovarla due compagne
di scuola:
Ripeteranno il pomeriggio a te le lezioni che fanno loro al mattino. I
professori si rendono disponibili per le interrogazioni. Esattamente come
se tu fossi a scuola. La meta è poter dare gli esami il settembre prossimo
come privatista e non perdere l’anno (p. 71).
Gli orari e i rituali dell’ospedale le permettono di ricomporre l’ordine
infranto: “Ci sono regole, ordini, ritmi che, per quanto assurdi sembrino
aiutano a far sì che anche la tua esistenza riprenda un corso” (p. 73).
Vive immersa in un lungo presente: “Il futuro non lo contempli nemmeno,
diventa una nube da cui potrebbe uscire di tutto”. Per definire la vita
che la aspetta la Garlaschelli utilizza l’immagine del viaggio: “Meglio
concentrarsi sul reale. E il reale è un’immobilità esplosiva e una strada
nuova tutta da percorrere. Che si fa? Si va naturalmente” (p. 24). La
metafora, paradossalmente, si basa proprio sul movimento.
Nell’ultimo capitolo l’autrice ci dà notizia di cosa è poi accaduto in
quel futuro che allora le appariva coperto da una nube. Per mesi, dice,
ha continuato a guardare e a invidiare le gambe degli altri.
Mi sembravano tutte belle, anche quelle storte, grasse, flaccide, magre,
stecchite, cellulitiche, scavate, erano tutte meravigliose. Soprattutto
erano mobili. Trasportavano storie in giro per il mondo, stavano in bilico
su tacchi stratosferici, si flettevano sinuose, saltavano ostacoli, scendevano
e salivano scale, marciapiedi, gradini, scalavano montagne, si sdraiavano
al sole, indossavano calze di seta, collant, calzini, scarpe sandali,
decolleté, ciabatte, dondolavano, ballavano, fremevano, cavalcavano, correvano
(p. 115).
Avrebbe potuto impazzire o morire dentro, afferma. Ma c’era in lei “un’assoluta
determinazione alla riconquista della vita. Della normalità. Della mia
normalità”. É riuscita a reagire, scrive, anche per l’incoraggiamento
di tutti coloro che credevano in lei (p. 116).
Si è trattato di “una conquista dopo l’altra fatta di piccoli piccolissimi
passi” riferisce, utilizzando una metafora che la fa sorridere, dato che
quando scrive già da vent’anni non cammina più: “Dall’avere il coraggio
di mettermi in costume da bagno, a prendere la metropolitana, dall’andare
in giro con gli amici, a farmi amare da un uomo” (p. 114). Nelle righe
finali traspare l’orgoglio per aver realizzato i suoi sogni: si è laureata,
è diventata una scrittrice, ha amato ed è stata riamata… “In tutto questo
tempo – conclude – ho cercato di recuperare un mondo mandato all’aria,
come si fa con un puzzle. E mi sono ripresa tutto ciò che sentivo mio:
corpo e mente” (p. 118).
L’autobiografia della Mackie copre un arco di tempo di
circa dieci anni. La giovane racconta dei rapporti con i familiari lontani,
dei suoi amici, dei problemi con Craig, il fidanzato, delle persone interessanti
conosciute nei suoi viaggi… La sclerosi multipla la segue come un’ombra,
ma la protagonista della sua storia è (e continuerà ad essere) lei: Carole.
Quando il fidanzato, che non si sente di assisterla, si innamora di un’altra
ragazza la sua realtà si spezza e subentra una grave crisi. Recarsi dalla
madre che vive in Australia le consente di elaborare il lutto e di affrontare
meglio anche il dolore per la perdita della sua salute:
non sono riuscita a piangere per la mia malattia, mamma, non ho mai avuto
nessuno con cui piangere. Ho dovuto indossare l’abito della coraggiosa
[…] É facile fingere, mamma, perché in genere i sintomi non sono visibili…
(p. 134).
Così, al suo ritorno in Inghilterra, stabilisce che non fingerà più: “Non
avevo intenzione di diventare un noioso caso clinico, ma non volevo più
neanche fingere”. Si tratta di una decisione che la aiuta a definire chiaramente
la sua condizione e a dare nuovamente valore alla vita.
Un amico le suggerisce di realizzare uno spettacolo di beneficenza per
raccogliere fondi per la ricerca sulla sua malattia. Diviene così testimonial
per la sclerosi multipla. Organizza eventi pubblici, concede interviste,
e dedica quattro anni a scrivere la sua autobiografia.
Continuavo a leggere articoli e pubblicazioni e stavo diventando più consapevole:
mi preparavo così al compito di educare la gente sulla malattia. Era quello
che volevo fare, avevo trovato la mia ragione d’essere […] finalmente
avevo smesso di chiedermi: perché a me?
Sapevo, per la prima volta, perché avevo la sclerosi multipla (p. 183).
Per mantenersi per quanto possibile in buone le condizioni fisiche è necessario
che eviti la fatica; questo la porta a ridurre l’impegno di lavoro alla
BA e ad accettare l’idea che un giorno smetterà di volare, a fare ricorso
a un aiuto per i lavori domestici, a ridimensionare la sua vita sociale.
Sa che sarà difficile trovare la persona giusta, ma non esclude la possibilità
di un nuovo amore: “L’uomo giusto per me deve avere la forza di accettare
la sclerosi multipla, non importa come, e avere un atteggiamento positivo
verso la vita. Preferisco essere single e felice che infelice in coppia”
(pp. 253-254).
Carole Mackie continua a sentirsi padrona della sua esistenza: “Per me,
vivere è un po’ come un gioco a carte: ogni singolo giocatore deve accettare
le carte che la vita gli offre ma una volta che le ha in mano, sta a lui
saperle giocare. La mia scelta è cercare di vincere la partita” (p. 252).
“Accettare le carte” significa mettere la sua salute al primo posto:
La sclerosi multipla non ha significato l’inizio della fine della mia
vita; al contrario, per me è stato un nuovo inizio. Ha significato la
necessità di adattarsi a un nuovo stile di vita in funzione dei miei limiti
e delle mie capacità (p. 255).
L’ultimo capitolo dell’autobiografia si intitola: “Que sera sera”. L’imprevedibilità
della malattia l’ha abituata a concentrare la sua attenzione sugli aspetti
positivi del presente: “Per il momento, prendo i giorni così come vengono.
Ho imparato a concentrarmi sulle cose che riesco a fare piuttosto che
su quelle che non riesco a fare: su quanto vi è di buono nella mia esistenza”
(p. 259).
La vita di Bauby si svolge in un lungo presente che di
tanto in tanto si riallaccia ai ricordi del passato.
Così come prima viaggiava per il mondo, adesso, sulla sua sedia a rotelle,
egli esplora gli ambienti dell’Ospedale marittimo di Berck e la spiaggia
antistante, e incontra i personaggi che vi abitano. Il paziente soprannominato
“Fangio”, ad esempio, che, costretto a stare in piedi o sdraiato a pancia
in giù, sfreccia su un apposito carrello gridando “Attenzione, arriva
Fangio!” (p. 85), o il busto marmoreo dell’imperatrice Eugenia, madrina
dello stabile. Bauby si lascia affascinare dalle foto e dalle cronache
che raccontano la sua visita e immagina di essere stato presente:
Mi mescolavo al gruppo delle dame di corte che parlottavano tra loro,
e mentre Eugenia passava da un padiglione all’altro, seguivo il suo cappello
con i nastri gialli, l’ombrello di taffetà e la scia di acqua di colonia
del profumiere di corte (p. 28).
Conduce, con la fantasia, un “viaggio immobile” che lo aiuta a recuperare
frammenti del suo antico sé:
C’è tanto da fare. Si può volare nello spazio e nel tempo, partire per
la Terra del Fuoco o per la corte di re Mida.
Si può fare visita alla donna amata, scivolarle vicino e accarezzarle
il viso ancora addormentato. Si possono costruire castelli in Spagna,
conquistare il Vello d’oro, scoprire Atlantide, realizzare i sogni di
bambino e le speranze di adulto (pp. 8-9).
Il futuro verso cui si volge riguarda i piccoli miglioramenti raggiungibili
con la fisioterapia e la logopedia in cui si impegna quotidianamente.
Sa, probabilmente, che la sua vita non sarà lunga e vuole viverla intensamente.
6. Rilievo degli altri significativi
Parenti e amici
La narrazione della Garlaschelli è tutta incentrata sul
rapporto con gli altri: “Ventiquattro ore su ventiquattro si fanno in
quattro. I tuoi non ti mollano mai. Stanno lì di fianco al tuo letto,
fanno i turni, ti parlano e parlano e parlano. E rassicurano e coccolano
e spronano a non mollare” (p. 20). La sua è una famiglia allargata, e
nella sua testimonianza si coglie l’importanza dell’amore, del sostegno
e della presenza, oltre che dei genitori, anche dei nonni e degli zii.
La zia Silvia, ad esempio, è molto brava a raccontare i film.
Quando è il turno della zia Silvia, per far passare il tempo, ti racconta
la trama di un film. Non riuscirai mai a capire come, ma è stata capace
di fare durare il racconto tanto quanto il film: due ore di suspence e
agguati e colpi di scena. Quella sera, cinema (p. 21).
Gli amici vengono a trovarla a frotte “tutti questi amici sono la tua
salvezza. Senza di loro non riusciresti a trovare la forza di continuare
a ridere. Le persone che ti stanno attorno, oltre a Franca e Renzo [i
genitori], sono la tua fonte. Da loro, come un vampiro succhi linfa vitale”
(p. 59). Ogni giorno riceve la visita delle compagne che l’aiutano a studiare.
Per il suo sedicesimo compleanno, poi, c’è una “megafesta” organizzata
da parenti e amici in una saletta del reparto:
C’è tanta gente che non ci stanno tutti. Per alcune ore non ti senti né
una paziente né immobile. Sei fuori di lì. Sei nelle persone che hai attorno.
Hai sedici anni (p. 71).
Anche nel suo soggiorno a Heidelberg ha, a turno, uno dei genitori accanto,
e sente l’affetto delle compagne di scuola che le inviano il materiale
di studio. Un aspetto positivo della sua condizione, osserva, è il fatto
che la comunicazione con le persone care è diventata più intensa: “Così
capita che ci si parli di più di quanto non sia mai accaduto prima” (p.
30).
Bauby parla di una “catena d’amore che mi circonda e
mi protegge” alle cui maglie estreme stanno la figlia di nove anni e il
padre di novantatré (pp. 92-93). Festeggia con i figli la festa del papà:
“un abbozzo, un’ombra, un pezzo di papà è pur sempre un papà” (p. 72).
E Céleste, la sua bambina, gli lascia il disegno di “una specie di pesce
a due teste, gli occhi bordati di ciglia blu e le squame multicolori”
(pp. 75-76).
Le persone care gli sono spiritualmente accanto e lasciano tracce nella
sua stanza d’ospedale. Sulle pareti c’è il disegno del figlio, e ci sono
anche i talismani di tutto il mondo e di varie religioni regalati dagli
amici.
… i sacchetti di incenso appesi alla parete: ex voto portati dal Giappone
da amici viaggiatori e credenti […] a ogni latitudine sono state invocate
in mio favore le più diverse divinità […] ho affidato il mio occhio destro
un santone del Camerun delegato da un’amica ad assicurarmi la benevolenza
degli dèi africani. Per i problemi di udito mi rimetto alle buone relazioni
che una suocera dal cuore pio intrattiene con i monaci di una confraternita
di Bordeaux (pp. 16-17).
Comunicare di presenza, data la complessità dello strumento cui fa ricorso,
risulta faticoso per gli interlocutori. Il suo ospedale, inoltre, è fuori
Parigi, decide quindi di mantenere il contatto con amici e conoscenti
attraverso testi scritti. Scrive loro: “Le vostre lettere si accumulano
nell’armadio, i vostri disegni sul muro, e poiché non posso rispondere
a nessuno, ho avuto l’idea di questi comunicati per raccontare le mie
giornate, i miei progetti, le mie speranze” (p. 79).
Ricevere posta è per lui una gioia:
Ricevo lettere di grande valore. Le aprono, le spiegano e le mettono sotto
i miei occhi secondo un rituale che si è stabilito col tempo e conferisce
all’arrivo della posta il carattere di una cerimonia silenziosa e sacra
[…] conservo queste lettere come un tesoro. Un giorno vorrei incollarle
una a una per farne un nastro lungo un chilometro che ondeggerà nel vento
come un gonfalone a gloria dell’amicizia (pp. 80-81).
Scopre così che molte persone con cui prima aveva rapporti futili erano
capaci di pensieri profondi: “Ero cieco e sordo oppure è necessaria la
luce di una disgrazia a rivelare un uomo nel suo vero aspetto?” (p. 81).
La situazione della Mackie è molto diversa. Lei è autonoma
e vive da sola. La sclerosi multipla, inoltre, non è visibile. Gli altri
costituiscono per lei anche una preoccupazione (come dirlo alla madre?
Perché il suo fidanzato si rifiuta di parlare della sua malattia?).
Il fatto che la patologia non sia palese e si manifesti a tratti fa sì
che gli altri abbiano difficoltà a considerarla malata e ad accettare
le sue difficoltà. Paradossalmente, quando per un lieve incidente ha dovuto
indossare un collare, riferisce, è stata oggetto di preoccupazioni che
non le vengono in genere espresse per la sclerosi multipla (p. 259).
Per un lungo periodo la Mackie vive una situazione di ambivalenza: soffre
perché gli altri non accettano le sue difficoltà e i suoi limiti, ma nello
stesso tempo nasconde di essere ammalata. “Non ero pronta per essere additata
come diversa” (p. 172). Non vuole essere stigmatizzata (Goffman [1963]
1983) e non vuole essere oggetto di pietà: è per questo che si costringe
a fingere (v. Perrotta 2009a). Quando, incoraggiata dalla madre, decide
non nascondere più la sclerosi multipla tutto diviene più semplice.
I membri della sua famiglia sono lontani, ma lei ha accanto persone amiche
che l’aiutano ad affrontare i problemi della vita quotidiana, che la sostengono
e la rassicurano.
In questi tragici eventi ho avuto il sostegno dei miei amici e non so
che cosa avrei fatto senza di loro; so che non tutti sono abbastanza fortunati
da essere circondati da amici. Se si riceve una diagnosi come la mia e
non si ha vicino la famiglia, significa dover contare in modo cospicuo
sugli amici (pp. 254-255).
[…] avevo una bella cerchia di amici che erano tutti a portata di telefono
(p. 246).
Anche le persone con cui ha rapporti professionali le sono vicine.
“La BA mi ha dato sostegno, sicurezza e comprensione dal punto di vista
materiale e morale…”, afferma.
Nel parlare del suo rapporto con gli altri la Mackie sottolinea il suo
ruolo attivo. Osserva: “Non volevo che nessuno parlasse di me come di
una vittima ma, a meno che non lo dicessi chiaramente, non lo si poteva
sapere…” (p. 174). Ed è questa consapevolezza che la induce a divenire
testimonial e a scrivere la sua autobiografia. E per quanto riguarda il
rapporto con gli amici afferma: “La sclerosi non mi colpisce l’udito,
perciò sono sempre pronta ad ascoltarli. Non sopporterei se pensassero
che non possono venire da me a cercare appoggio perché ho la sclerosi
multipla” (p. 256).
Personale medico
Le narrazioni della Garlaschelli e di Bauby sono ambientate in un contesto
ospedaliero, e quindi la presenza del personale medico è costante.
Nell’autobiografia di Bauby troviamo la descrizione efficace
di un “medico negativo”:
Era il prototipo del dottor Menefrego, altezzoso, brusco, pieno di boria
[…] fisicamente assomigliava a Dennis la Peste, una grossa testa rotonda
su un corpo corto e irregolare. Già poco eloquente con la maggior parte
dei malati, diventava chiaramente sfuggente con i fantasmi del mio genere…
(pp. 57-58).
Gli altri terapeuti che appaiono nel racconto, però, sono persone amiche
che lo aiutano a scandire le sue ore e danno senso alla sua giornata.
C’è Brigitte, la fisiatra “Figura sportiva e profilo da moneta romana”,
che arriva alle otto e mezza (p. 19). E poi c’è la sua preferita, l’ “angelo
custode”, l’ortofonista Sandrine che ha progettato per lui l’alfabeto,
e che telefona ai suoi cari per permettergli di ascoltare la loro voce:
“Non si può spiegare il conforto che sento due volte al giorno quando
Sandrine bussa alla porta, sporge il musetto da scoiattolo colto in fallo
e scaccia in un colpo solo tutti i cattivi pensieri” (p. 44).
Nell’autobiografia della Garlaschelli c’è “Il tuo medico
preferito: bello come il sole e simpatico” che la chiama scherzosamente
“principessa” (“Dai principessa che andiamo a fare l’esame urodinamico”
p. 75). C’è il medico, bravo da un punto di vista tecnico (lo definisce
il suo “salvatore” p. 35) da lei soprannominato Iceberg “per la peculiare
qualità di trasmettere calore umano con la solerte capacità di un blocco
di ghiaccio” (p. 22); ci sono infermieri “comprensivi, efficienti, alcuni
addirittura dolci” e ce ne sono altri “incattiviti, frustrati” (p. 65).
E ci sono poi i terapeuti giocosi e gli ambienti colorati incontrati nell’ospedale
di Heidelberg dove si reca per la fisioterapia.
La Mackie presenta un personale medico competente sia
da un punto di vista tecnico che per quanto riguarda il rapporto umano.
Nei dialoghi emerge una relazione amichevole, uno stile affettuoso e talvolta
giocoso. C’è, ad esempio, il medico che quando lei piange per il dolore
agli occhi la consola chiamandola “Povera piccola salsiccetta”. “Fui così
sorpresa per il suo epiteto – ricorda la Mackie – che avrei quasi voluto
mettermi a ridere e probabilmente avrei riso se in quel momento anche
il parlare non mi avesse procurato male agli occhi” (p. 90). C’è l’infermiera
che la rassicura quando deve incontrare un medico che ancora non conosce:
“Il dottor Bagshaw è splendido, Carole, gli vorrai bene” (p. 103). E non
ci si prende cura soltanto della sua salute fisica, ma anche del suo adattamento
alla nuova condizione: accanto alla neurologa che la cura, vi è una cousellor
che l’aiuta ad affrontare le difficoltà e ad impostare al meglio la sua
vita.
Gli altri significativi sono specchi nel cui riflesso l’individuo vede
se stesso e la propria situazione (Cooley [1902-1922] 1956, pp. 183-184).
Quando gli ingranaggi che ci permettono di “funzionare” si inceppano o
si rompono, è importante per noi avere intorno persone amiche che ci rinviino
un’immagine di valore e dignità, che ci comunichino amorevolezza e apprezzamento,
che ci prospettino una definizione della vita per quanto possibile costruttiva.
Gli appartenenti allo staff medico costituiscono altri significativi importanti.
Se avvertiamo la loro premura ed entriamo in sintonia con loro siamo nella
condizione di affrontare meglio la malattia. I pazienti non sono oggetti
in attesa di riparazione (Goffman [1961] 1968, pp. 337-399), ma individui
che traggono indicazioni su di sé e sulla loro condizione attraverso gli
occhi di chi ha il compito di prendersi cura di loro.
7. Considerazioni conclusive
Quando l’handicap irrompe in una vita che ha già un suo percorso, le antiche
routines si spezzano e subentrano esperienze anomale, difficili da definire.
É necessario, in questi casi, dare senso a una realtà che rischia di precipitare
nel caos e salvaguardare, per quanto possibile, gli aspetti fondamentali
dell’identità.
Quando la storia che ci si racconta su di sé si lacera, bisogna giungere
a una nuova narrazione. A un racconto che permetta di allacciare i fili
spezzati e consenta di restituire centralità e dignità all’io narrante.
Si tratta di un’operazione difficile, cui possono contribuire, ponendosi
nel ruolo di interlocutori privilegiati, parenti, amici, personale medico,
e tutti coloro che per qualche ragione sono significativi per il narratore.
Le autobiografie qui analizzate ci fanno conoscere il cammino percorso
da tre persone per ricostruire il senso della loro vita. Ci mostrano il
mutare delle loro definizioni nel tempo, e lo scorrere di una carriera
che inizia con un atteggiamento di incredulità e rifiuto e giunge all’accettazione
e all’orgoglio per le mete raggiunte (v. Perrotta 2009b). In tutte e tre
le storie, il viaggio verso la nuova identità è reso più agevole dalla
compagnia di altri significativi, dalla presenza di “specchi sociali”
che aiutano i protagonisti a definire la loro realtà in maniera costruttiva
e riflettono su di loro un’immagine positiva.
Le narrazioni di Barbara Garlaschelli, di Jean-Dominique Bauby e di Carole
Mackie coniugano il fascino del romanzo al valore della testimonianza.
Ci intrattengono e ci emozionano introducendoci in un mondo sconosciuto
e mostrandoci maniere costruttive di affrontare l’handicap e la malattia.
Conoscere le loro storie allarga i confini della nostra consapevolezza.
Induce la nostra mente a un esercizio che la rende più elastica e l’aiuta
a comprendere come l’handicap sia soltanto uno dei tanti aspetti della
persona: un aspetto che può renderla unica e, forse, anche interessante.
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