La lecture de soi et de l'autre
Orazio Maria Valastro (sous la direction de)
M@gm@ vol.9 n.1 Janvier-Avril 2011
IO È UNA STORIA
Autore, narratore, personaggi nella narrazione di sé
Giorgio Bert
giorgiobert@ipsnet.it
Medico, Libero Docente di Semeiotica Medica all'Università di
Torino.
Il ricordo è ricordo del componimento intatto e non
dei tentativi.
Io l’ho messo insieme a pezzetti e lui mi ritorna in un sol tratto.
(Paul Valéry)
L’io che si racconta non parla di ciò che avviene ma di ciò che è avvenuto,
e anche se sono passati pochi istanti si tratta già di passato.
Il presente non si può narrare, il presente è un vortice, un caos; il
tentativo di raccontare le cose mentre avvengono si risolve in una comunicazione
confusa, spezzettata, balbettante in cui si intrecciano in modo poco coerente
e disordinato eventi, fatti, emozioni, interpretazioni.
Tra l’io che vive e l’io che racconta esiste un fossato invalicabile.
Quando la persona narra e si narra costruisce una storia che –per quanto
tenga conto di fatti effettivamente avvenuti- non è (né potrebbe essere)
una fedele descrizione di quanto è accaduto. La narrazione dà alla sequenza
degli eventi un ordine arbitrario, colmando i vuoti, omettendo particolari
e spesso, più o meno consapevolmente, inventandone di nuovi. Ciò che ne
risulta è in ogni caso fiction.
È del resto banale osservare che la medesima sequenza di eventi è raccontata
in modo molto diverso a seconda del contesto in cui la narrazione avviene:
con un amico al bar, con uno sconosciuto in treno, con un agente di polizia,
un magistrato, il medico curante, il partner… Interlocutori e contesti
differenti producono storie differenti, spesso non sovrapponibili.
Tra l’autore letterario che costruisce una storia e una persona qualsiasi
che racconta e si racconta, la differenza è essenzialmente di natura tecnica.
Si tratta nell’uno e nell’altro caso di una costruzione narrativa: gli
elementi usati sono i medesimi, solo che il letterato li usa in genere
meglio e in modo più consapevole e professionale.
Partiamo allora dalla letteratura.
Nel suo viaggio nell’Oltretomba, Dante Alighieri incontra uomini e donne
che parlano di sé, di altre persone, della loro vita passata. Le parole
che Dante mette in bocca a queste persone vengono spesso scorrettamente
attribuite al poeta stesso: così capita di leggere: “Come dice Dante:
amor ch’a nullo amato amar perdona”’… Lo dice Dante? Certo che no: si
tratta di un’affermazione ingenua che l’esperienza ci ha più volte dimostrato
falsa. A dire quelle parole infatti non è Dante ma una giovane donna vittima
di un delitto d’onore che la legge divina ratifica con la dannazione eterna.
Francesca pronuncia quella frase assurda nel patetico sforzo di giustificarsi,
e solo in questo contesto ciò che dice acquista significato; non si tratta
insomma di uno slogan da cioccolatini ma di un tragico tentativo di convincere
gli altri e soprattutto se stessa che l’azione colpevole che la relega
all’Inferno era in qualche modo fatale, ineluttabile.
La Commedia è il genere di narrazione, che Bachtin definisce polifonica:
i personaggi cioè non sono variazioni di una medesima voce ma vivono di
vita propria.
Analogamente, allorché narrano, raccontano di sé, le persone sono polifoniche:
parlano cioè con voci diverse tra loro indipendenti, solo che spesso non
se ne rendono conto né esse stesse né chi le ascolta.
Dimenticare o sottovalutare la struttura narrativa delle comunicazioni
quotidiane, siano esse spontanee o professionali, provoca non di rado
malintesi e incomprensioni.
Io è una storia. Una storia diversa ogni volta.
Chi sono gli attori nell’esempio dantesco citato?
C’è un signore, Dante Alighieri (1265-1321), condannato e latitante, che
ha pensato e costruito un racconto in versi a proposito di un viaggio
immaginario nell’Oltretomba. Questo signore è effettivamente esistito,
ne abbiamo le prove, e in quanto inventore della storia può essere definito
come l’Autore.
C’è poi un altro signore, che condivide con l’Autore i dati anagrafici:
nome, data e luogo di nascita, vicende personali. È questo signore che
ci racconta in prima persona il viaggio; ma ovviamente esso non coincide
con l’Autore, che infatti per quanto abbia viaggiato molto durante l’esilio,
all’Inferno (almeno da vivo) non ci è mai andato; né del resto in Purgatorio
o in Paradiso. Questo Dante numero due può essere definito come il Narratore.
Ci sono infine i personaggi: protagonisti, secondari, assenti dal set
ma evocati nel racconto. Nell’episodio in questione uno dei personaggi
presenti è lo stesso Dante: un Dante numero tre; gli altri sono Virgilio,
Francesca e Paolo che però non parla e si limita a piangere. Viene evocato
ma senza nominarlo l’uxoricida.
Se ci abituiamo a praticare questa distinzione non solo nelle narrazioni
letterarie ma anche nelle storie quotidiane , salta immediatamente agli
occhi un elemento importante: finché ci limitiamo ad abitare il contesto
narrativo proposto, dell’Autore noi non sappiamo nulla; o meglio, sappiamo
quello che vuole farci sapere il Narratore. Se non disponessimo di fonti
esterne a quel contesto, niente ci impedirebbe di pensare che “Dante”
sia uno pseudonimo o un prestanome, e che personaggi, eventi, contesti
storici, osservazioni filosofiche e scientifiche siano pura invenzione
dell’Autore: un racconto di fantascienza, insomma.
Il soggetto che si rivolge a noi non è quindi l’Autore ma il Narratore,
in scena anche come personaggio: non sempre e non necessariamente infatti
queste due figure –ancorché anagraficamente identiche- coincidono; per
restare alla Commedia ad esempio, il Dante che chiede al conte Ugolino
perché rosicchi quel teschio è il Personaggio Dante; la voce fuori campo
che esplode in una invettiva contro Pisa è invece quella del Narratore.
Se sia anche quella dell’Autore possiamo magari supporlo ma non lo sappiamo
con certezza, e darlo per scontato sarebbe del tutto arbitrario.
Quanto detto vale per qualsiasi narrazione autobiografica: non c’è dubbio
che il visconte di Chateaubriand sia realmente esistito e abbia scritto
i Mémoires d’outre-tombe; ma il Narratore Chateubriand e il Personaggio
Chateaubriand sono creazioni dell’Autore, spesso –e lo dimostrano numerose
testimonianze- da lui molto diverse.
Come sia fatto, ammesso che possa esistere, un “Autore-in-sé” non lo sappiamo,
non lo sapremo mai… e forse non lo saprà mai nemmeno lui.
Le persone che si raccontano, sia quelle con cui interagiamo che noi stessi,
sono come abbiamo detto polifoniche. Anche qui possiamo quindi fare le
stesse distinzioni che abbiamo proposto per l’opera letteraria.
C’è l’Autore: quello che si è inventato il racconto. La prima impressione
è che l’Autore ce lo abbiamo davanti: è ben lui con la sua voce, i suoi
gesti, i suoi abiti; è proprio lui quello che ci sta portando un racconto
autobiografico il cui soggetto è “io”. In realtà, per quanto ne sappiamo,
la narrazione potrebbe essere interamente inventata e lui stesso potrebbe
presentarsi con un nome che non è il suo: è il motivo per cui perfino
le più ampie confessioni rese a un magistrato vanno convalidate da prove.
Quando si parla di soggetti umani c’è una complicazione in più: un romanzo,
un racconto una volta scritti e pubblicati stanno lì fermi e tranquilli;
Dante e Francesca, Amleto e Hedda Gabler racconteranno la medesima storia
per sempre.
Nell’interazione tra persone invece, l’Autore può cambiare la storia a
seconda delle necessità, dei contesti, dei benefici immaginati, dei costi
temuti, dell’umore; i personaggi e anche il Narratore sono in ogni momento
modificabili, e non ha senso domandarsi quali sono quelli “veri”… Sono
“veri” (o falsi) tutti quanti!
A questo problema si aggiunge quello ancor più spinoso dell’interpretazione
da parte di chi riceve la narrazione, che è ovviamente anche lui polifonico
e può risonare in modo positivo o negativo con ciò che gli viene proposto,
spesso confondendo Autore e Narratore. Ad esempio il Narratore della Divina
Commedia sprofonda Bruto e Cassio, uccisori di Cesare, nel luogo più profondo
dell’Inferno; è tuttavia possibile (ed è stato fatto più volte) vederli
invece come campioni della libertà contro la tirannia: da esaltare, altro
che da condannare… Siamo quindi autorizzati a trattare Dante come un nemico
della libertà dei popoli? O non è piuttosto il Narratore a essere vincolato
dal piano logico e teologico dell’opera?
Per sintetizzare: dell’Autore non sappiamo niente e siamo destinati a
non sapere niente, anche se pensiamo di averlo seduto davanti a noi in
carne ed ossa: la figura con cui interagiamo è sempre quella del Narratore.
Ciò che rende difficile nella pratica quotidiana mantenere quella distinzione,
ovvia e banale in ambito letterario, è la predominanza della fisicità
e in particolare del visivo. A differenza di un libro che è un oggetto
di cui possiamo fare l’uso che crediamo, una persona è un sistema biologico
con una struttura fisica ben definita, che è poi quella che ci troviamo
di fronte, che vediamo, che comunica e interagisce con noi. Logico quindi
che quando quella persona dice “io” noi siamo portati ad attribuire questo
pronome al corpo che vediamo, alla voce che lo pronuncia. Dimentichiamo
così che il fenotipo è solo uno degli elementi che definiscono l’identità,
e tendiamo a trascurare altri importanti aspetti dell’io: ad esempio quello
emotivo; quello sistemico relazionale; quello storico, sia personale che
transgenerazionale; quello sociale e culturale… Gli aspetti insomma che
non occupano spazio e che sebbene integrati strettamente a una struttura
biologica non coincidono interamente con essa. Per dire: le relazioni
e le storie familiari, le convinzioni e le speranze non sono “cose”, e
quindi non le vediamo, ma l’Autore è celato lì dentro, e può parlare volta
a volta con la voce di un genitore o di un lontano antenato, di un amico
o di una persona significativa; può usare luoghi comunemente accettati
e condivisi nella sua cultura o metafore che hanno senso solo nella sua
famiglia… Il Narratore e il Personaggio che portano il suo nome possono
selezionare i fatti, montarli e rimontarli in vario modo; possono ometterne
una parte ed enfatizzarne altre; possono inventare infinite storie diverse
e fittizie. L’Autore, celato nella sua complessa identità, pesca da essa
il materiale narrativo e lo mette in scena come vuole o come può attraverso
il Narratore e i Personaggi.
Naturalmente questi tre elementi sono inestricabilmente intrecciati, e
certo brevi istantanee dell’Autore traspaiono nelle storie; e tuttavia
non dovremmo dimenticare che quello che abbiamo davanti è il Narratore,
e che ogni colloquio è un incontro tra narratori o tra personaggi. L’antica
immagine della vita come teatro è tutto sommato sensata.
Quanto abbiamo detto è ovviamente ben noto ad ogni studioso di autobiografia
e di narrativa. Quello che speso tendiamo a scordare, sia nei rapporti
professionali che in quelli sociali, è che autobiografia non è solo ciò
che una persona sceglie di narrare allorché decide di scrivere la storia
della propria vita; le persone fanno autobiografia ogni volta che aprono
bocca: il solo fatto di comunicare, di emettere opinioni, giudizi, di
esprimere dubbi o certezze o emozioni è già autobiografia, narrazione
e come tale va accolta e analizzata.
Se questa ipotesi, come credo, è vera, essa induce a riflessioni di un
certo interesse per tutti quanti, e in particolare per chi debba comunicare
in modo professionale.
Nel dare consigli, indicazioni, prescrizioni, a chi si rivolge il professionista?
Se si comporta in modo spontaneo non c’è dubbio: si rivolge all’Autore;
ma è proprio così? Se quello in cui ci si muove è il set di una azione
teatrale, allora l’Autore non è presente o comunque non è visibile: forse
è nascosto in un palco, forse non è proprio venuto… Di fatto, agiscono
solo personaggi evocati dal Narratore, che è egli stesso un personaggio
della commedia. Se il professionista non è consapevole di questo, rischia
di comportarsi come uno spettatore sprovveduto, che dalla platea metta
in guardia a gran voce Otello dalle fandonie infami che Jago gli sta raccontando;
oppure come un critico teatrale che spieghi con dotte argomentazioni che
la commedia è brutta e destinata all’insuccesso o che la recitazione è
scadente.
La consapevolezza del contesto evita al professionista errori comunicativi
di questo genere; non solo: essa permette di fare emergere alcuni aspetti
centrali della comunicazione umana.
Si è detto che dell’Autore-in-sé noi non sappiamo niente: dobbiamo prendere
per buono quel che ne fa capire il Narratore (che può ovviamente mentire);
ma l’Autore-in-sé esiste davvero? Voglio dire: esiste sul piano materiale?
Ha insomma cervello, cuore, occhi, mani? Se, come penso, l’Autore è un
complesso in cui coesistono e confluiscono elementi storici, relazionali,
sociali, culturali ecc., allora quello che definiamo Autore non è una
struttura chiusa ma un sistema che si esprime con molte e diverse voci:
voci che a volte appaiono tra loro in contraddizione, altre volte parlano
tutte alla volta in una cacofonia mal comprensibile; voci che giungono
da un passato anche lontano o da altri diversi sistemi; voci create ex
novo, quasi infantili e voci che l’esperienza ha reso sagge o scettiche
o disperate…
Nel caso di un colloquio tra persone viventi queste voci utilizzano certo
una struttura biologica per esprimersi, ma in assoluto esse possono anche
farne a meno. Amleto e Prospero, il Conte Ugolino e zio Vanja parlano
secoli dopo che Shakespeare, Dante e Cechov sono scomparsi. Tanto umbratile
(la materia di cui sono fatti i sogni…) è l’Autore che in taluni casi
(Shakespeare, Molière, Villon…) c’è chi può sostenere che esso non sia
nemmeno esistito davvero, che lui medesimo sia fiction o prestanome di
ignoti.
Rinunciamo quindi alla speranza di risalire all’Autore, di svelarlo, di
relazionarci con lui: dovremo accontentarci di interagire con Narratori
e Personaggi che possono cambiare in ogni momento: nella commedia della
vita non esiste un copione definitivo né una sceneggiatura invariabile:
tutto può essere sempre corretto, modificato, cancellato, reinventato…
Muoversi nella complessità è certo faticoso ma può essere anche molto
affascinante.
Nel caso del professionista che debba utilizzare la comunicazione, la
consapevolezza della natura narrativa dell’identità permette di non dimenticare
che in ogni interazione il professionista stesso non è né osservatore,
né spettatore né critico: è in scena anche lui; che gli piaccia o meno,
è coinvolto nell’azione teatrale.
Sul set l’attore-professionista inconsapevole si comporta come un personaggio
dell’Autore (ignoto) o del Narratore. In tal caso egli reciterà più o
meno passivamente il ruolo e la parte che gli vengono assegnati: una situazione
poco utile oltre che poco professionale.
L’attore-professionista consapevole sceglierà invece di essere non solo
personaggio ma anche Narratore, o meglio co-Narratore: l’azione teatrale
allora cambierà: sarà una commedia nuova scritta a due mani, destinata
a diventare uno spazio condiviso in cui i due narratori potranno confrontarsi
per edificare insieme quella struttura di mutuo rispetto e di reciprocità
che si chiama relazione.
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