Percorsi di pedagogia della narrazione
Dalle fonti orali alle nuove tecnologie
Fabio Olivieri (a cura di)
M@gm@ vol.8 n.2 Maggio-Agosto 2010
IL DIRITTO ALLA PROPRIA STORIA: UNA RIFLESSIONE INTORNO A RESILIENZA, EDUCAZIONE E RACCONTO DI SÉ
Marco Ius
m_ius@yahoo.it
Dottore in Scienze dell’Educazione. Ricercatore e Dottorando in Scienze Pedagogiche.Specializzato in Counseling educativo. Università di Padova. Dipartimento di Scienze dell'educazione.
Il concetto
di resilienza: cenni teorici
Il concetto di resilienza, che in fisica definisce la capacità
di un corpo di assorbire un urto senza rompersi, viene definito
dalle scienze umane come la capacità dimostrata da alcune
persone di riprendere un certo sviluppo e di condurre una
vita positiva, in modo socialmente accettabile, nonostante
l'aver fatto esperienza di gravi situazioni di stress o di
trauma che potrebbero condurre ad un esito negativo ed eventualmente
allo sviluppo di una psicopatologia (Vanistendael, 1998; Rutter,
2000).
Questa definizione se da una parte, con probabile facilità,
richiama alla memoria volti e storie di persone incontrate
o di personaggi di cui si è letto o si è sentito in un racconto,
dall'altra esplicita nella terminologia utilizzata la complessità
e la polisemicità propria del concetto di resilienza. Infatti,
pur riscontrando nella quotidianità espressioni di piacevole
sorpresa, stupore e soddisfazioni di fronte a nitide biografie
di successo il cui inizio è stato caratterizzato da situazioni
difficili e che lo hanno messo duramente alla prova, la visione
appare maggiormente offuscata quando ci si interroga da una
prospettiva prettamente scientifica su quali siano state le
condizioni che hanno permesso alla persona di sviluppare tale
successo nonostante la vulnerabilità, e soprattutto quando
ci si affida al compito di identificare e comprendere che
cosa significhi a livello micro e macro: vita positiva, socialmente
accettabile, situazioni di stress o trauma, esiti negativi.
Ciò che ci sembra importante evidenziare è che il concetto
di resilienza:
- per essere definito richiede la presenza di un vissuto traumatico
(DSM IV, 1994) che rappresenta un rischio per lo sviluppo
futuro, e il doing ok, cioè mostrare un buon funzionamento
e un esito di vita definibile non come patologia ma come un
livello di stabilità e di benessere emotivo, familiare, lavorativo,
finanziario, e di partecipazione attiva alla vita della comunità
(Masten, Powel, 2003);
- identifica un processo di adattamento positivo (sviluppo,
evoluzione, continuo cambiamento) e non del solo ottenimento
di un risultato-prodotto.
É da collocarsi entro una visione contro il determinismo "problema-malattia"
che assume una prospettiva salutogenetica focalizzata sui
fattori protettivi, sulle risorse e sull'empowerment, piuttosto
che una prospettiva clinica e patogenetica, nella quale il
focus principale è l’aspetto patologico centrato sulle debolezze
(Taylor, 2004). Occorre dunque modificare le classiche concezioni
sul rischio, vale a dire la prospettiva della causalità diretta
e quella della causalità multifattoriale. Sul piano teorico
porta a concludere che qualsiasi agente causale preso singolarmente
o in associazione con altri non produce spiegazioni soddisfacenti
sulla dinamica che s’innesca tra eventi critici e reazioni
degli individui. Sul piano empirico, induce a riflettere sul
fatto che un’analisi basata solo sulle condizioni di rischio
o di potenziale rischio, non consentirebbe di accorgersi o
di comprendere la natura della resilienza e indurrebbe un’incresciosa
sottostima di eventuali abilità o potenzialità degli individui,
che resterebbero occulte e non adeguatamente valorizzate (Di
Blasio, 2005, p. 27).
Pur nella consapevolezza di essere di fronte ad un processo
complesso, da comprendersi in termini di causalità lineare,
ci chiediamo quali siano, dunque, le condizioni che possono
contribuire alla ripresa delle persone. La ricerca empirica
ha finora individuato molti fattori definiti "protettivi"
e sintetizzabili come segue, secondo la tripartizione proposta
da Garmezy (1985) e poi ampliata a partire dal contributo
di altre ricerche:
1) Fattori individuali: buone capacità intellettive; buone
capacità sociali (il bambino/ragazzo ha facilità ad entrare
in contatto con gli altri, coetanei e adulti, e a mantenere
queste relazioni) competenze comunicative, empatia (la capacità
di mettersi nei panni dell’altro e di comprendere la sua storia),
autostima (ha fiducia in sé ed è sicuro dei propri comportamenti),
senso di autoefficacia, auto consapevolezza, ottimismo; abilità
di coping; senso dell’umorismo.
2) Fattori familiari: struttura educativa adeguata, chiarezza
e coerenza nelle regole sempre allineate alle capacità e all’età
dei figli, clima familiare affettuoso e caldo (ambiente gradevole
nella famiglia, scambi affettivi frequenti), interazione positiva
con il bambino/ragazzo (fare attività insieme, trascorrere
momenti piacevoli sia nella quotidianità, sia in situazioni
particolari; l'adesione ad un sistema di riferimento valoriale
e ad un "credo familiare" che permette di essere
permeati da una dimensione etica. In altre parole, quindi,
la presenza di equilibrio tra aspetti affettivi e normativi,
e un buon attaccamento.
3) Fattori ambientali: la presenza di una ricca rete sociale
di pari (amici, vicini, compagni di classe, ecc.); la presenza
di un adulto significativo al di fuori della famiglia (insegnante,
educatore, vicino di casa, parente, animatore, sacerdote,
ecc.) con il quale stabilire una relazione continua, utile
e di sostegno; il sostegno ai genitori nel compito di educare
i figli ricevuto attraverso la rete formale e informale dei
servizi (vicini, scuola, servizi, parrocchia, ecc.) – sostegno
alla genitorialità; il vivere in un contesto comunitario che
presenta buone relazioni informali e permette la partecipazione
ad una struttura sociale positiva; il disporre di ambiente
scolastico attento e di adeguato successo scolastico.
Per comprendere in modo più approfondito tali fattori e soprattutto
l'interconnessione tra questi, la condizione di vulnerabilità
vissuta e la singolarità della persona che la vive, è necessario
inoltre considerare che tali fattori sono da collocare negli
assi spaziale e temporale di ciascuna traiettoria biografica.
Come precedentemente evidenziato, la letteratura mostra, infatti,
il crescente riconoscimento della resilienza come processo
multidimensionale e multideterminato, che avviene grazie a
transazioni dentro e tra livelli multipli nel corso del tempo
(Walsh, 1998). La teoria dell'Ecologia dello sviluppo umano
con il suo profilo topologico a sistemi concentrici recentemente
ampliato con l'attenzione al cronosistema (Bronfenbrenner,
1979, 2005) suggerisce di orientare eventi, reazioni e sviluppi
entro il contesto fisico, sociale e temporale di ciascun individuo.
Per comprendere sia l'impatto del trauma, sia l'eventuale
risposta resiliente a breve e a lungo termine, è necessario
pertanto considerare che entrambi si manifestano in una cornice
di età, fase di sviluppo, condizioni e opportunità di vita
(individuo-famiglia-società) e che questi parametri contestuali
possono modificarsi nei tempi prima-durante-dopo l'evento
traumatico (Parens, 2008).
Racconto e memoria colonne portanti
della resilienza
Un elemento di particolare importanza emerso dagli studi sulla
resilienza consiste nel binomio racconto-memoria. Sembra,
infatti, che non sia tanto la natura del trauma a determinare
la risposta di sviluppo successiva ad esso, quanto il modo
in cui quel trauma viene ricordato e raccontato.
La relazione tra memoria e racconto sembra dunque cruciale,
tanto da portare Cyrulnik, uno dei più noti studiosi del tema,
a ritenere che la resilienza sia una particolare modalità
di elaborazione narrativa e condivisa del trauma vissuto:
Ciò che caratterizza la condizione umana è la memoria semantica,
la memoria del racconto intimo che ci si fa, quando, nella
propria solitudine, ci si racconta la propria ferita, cosa
ci è successo, e lì ci si può rendere prigionieri del proprio
passato. Ma dal momento in cui noi parliamo, o in cui possiamo
condividere il racconto della nostra identità narrativa, quando
possiamo dire «io so che sono così perché mi è successa quella
cosa» e possiamo condividere con delle parole ciò che è successo,
noi ridiveniamo un po’ padroni del nostro passato. Lo possiamo
rimaneggiare con le parole e indirizzare ad altri. Un racconto
intimo condiviso può trasformare una prova in gloria se si
fa di un ferito un eroe o in vergogna se lo si trasforma in
una vittima (Cyrulnik, 2004a, p 27).
Il dare parola alla propria storia all'interno di una situazione
relazionale, nella quale l'altro offre spazio e tempo per
accogliere tale racconto, permette dunque di ri-attribuirle
senso e significato al fine di non immobilizzarsi o errare
senza meta rinchiusi nei confini della difficoltà (Frankl,
1972), ma di trovare un contesto in cui riattivarsi con i
"perché" da chiedersi e rispondersi, grazie ai quali
ritrovare la propria umanità (Cyrulnik, 2004a).
Seguendo il pensiero di Bruner (1986), secondo il quale la
narrazione è una forma di costruzione della realtà, gli eventi
narrati vengono intessuti in una trama che si fa unica e intenzionale
in ciascun racconto e che esprime non l’identità assoluta,
ma una rappresentazione, un’immagine dell’identità della persona
in quel preciso momento del racconto, in quel determinato
punto del suo cammino di vita. Il racconto diventa dunque
un momento intenzionale nel quale attraverso l'esplicitazione
del proprio percorso biografico si possono riprendere le redini
su un reale [che] fissa nel nostro cervello una memoria che
ci governa implicitamente. Senza saperlo possiamo elaborare
la rappresentazione per tutto il tempo della nostra vita e
trasformare la realtà per farne delle meraviglie o degli orrori,
delle felicità o delle tristezze, delle benedizioni e delle
maledizioni. […] il trauma esiste nel reale e persiste nella
memoria, ma i nostri strumenti verbali, affettivi e culturali
ci danno il potere di rimaneggiare la rappresentazione, costituendo
così un precedente per la resilienza. (Cyrulnik, 2004a, p.
56-57)
Si tratta dunque di una memoria e di un racconto che pur appartenendo
alla persona protagonista, si sviluppano in un contesto relazionale
e non possono mai prescindere da esso, tanto da ritenere che
è proprio il modo con cui il contesto sociale e la persona
stessa definiscono la situazione a favorire lo sviluppo di
un trauma entro una visione di sé negativa o perdente, o di
un’elaborazione positiva e vincente (Cyrulnik, 2003). La narrazione
e l'elaborazione si sviluppa dunque su due binari che avanzano
nel cronosistema e si influenzano e definiscono reciprocamente:
da un lato sul modello operativo interno di ciascun individuo,
che nel suo essere in costante divenire può rielaborare il
suo racconto per cambiare il significato attribuito ai fatti,
dall'altro sul modello operativo esterno del sistema sociale,
attraverso il quale la società manifesta il proprio modo di
rappresentare i suoi membri, le loro storie, e il suo essere
comunità: un modello che come per i singoli può essere narrato,
elaborato e modificato (Cyrulnik, 2008).
Una ricerca su educazione e resilienza
a partire da 21 storie di bambini sopravvissuti alla Shoah
In questa sede presenteremo alcune riflessioni sviluppate
a partire da un ricerca qualitativa sui percorsi resilienti
di 21 bambini sopravvissuti alla Shoah,in particolare i bambini
nascosti, quei bambini che per essere salvati durante la Shoah
sono stati nascosti dai propri genitori in altre famiglie,
orfanotrofi, conventi o che si sono nascosti autonomamente
(Milani, Ius, 2010). L'obiettivo dell'indagine è consistito
nel focalizzarci sulle traiettorie biografiche di un gruppo
di persone e in particolare sul loro percorso educativo al
fine di cogliere e comprendere quali fattori educativi hanno
permesso a ciascuno di procedere nel loro percorso di crescita
e di resilienza. L'ipotesi sottostante consisteva nel ritenere
che tali condizioni educative possono oggi essere riflettute
dagli educatori e gli operatori sociali che lavorano con i
bambini e le famiglie, soprattutto quelli in situazione di
vulnerabilità nelle quali i bambini vengono collocati all'esterno
della propria famiglia d'origine, per progettare interventi
e percorsi intenzionali che mirano a promuovere resilienza
in un contesto "ecologicamente ampio" nel quale
vengono utilizzate il più possibile tutte le risorse presenti
e a disposizione.
Il percorso di ricerca è consistito dunque nel raccogliere,
ricostruire ed effettuare l’analisi longitudinale delle traiettorie
biografiche di un gruppo di persone, ponendoci di fronte alla
Storia della Shoah e dei sopravvissuti non con l'intento di
impararla e insegnarla dal punto di vista storico né per tramandarne
la memoria, ma con l'atteggiamento di voler apprendere da
essa, imparando qualcosa dalla singolarità e unicità di ogni
storia incontrata.
Per comporre il gruppo d'indagine, sono stati cercati "bambini
sopravvissuti", cioè quei sopravvissuti che hanno vissuto
la Shoah in un’età che varia dai pochi mesi ai 15 anni (Kangisser,
2005) le cui esperienze biografiche potevano essere collocate
entro la cornice semantica della resilienza. Infatti se da
un lato, ciascuna delle persone incontrate è stata scelta
per aver fatto esperienza del nascondiglio (nascondere se
stessi fisicamente e/o nascondere la propria identità) e della
separazione temporanea e/o permanente dalla famiglia di origine
sia fisica che relazionale (da tutta la famiglia, un genitore
e/o dal proprio contesto sociale; condizione che mostra come
l'evento traumatico abbia creato una rottura con il passato
dividendo la linea biografica), dall'altro le loro vite non
presentano esiti psicopatologici. Infatti, nonostante l'aver
vissuto eventi traumatici, la loro condizione attuale può
essere descritta in termini di stabilità emotiva, familiare,
lavorativa ed economica, accompagnata da un attivo coinvolgimento
all'interno della propria comunità sociale di appartenenza.
Elementi che evidenziano, inoltre, la loro generatività (Erikson,
1982; McAdams, De St. Aubin, Kim, 2004). Visto che l'interesse
di ricerca era incentrato sulla percezione di ciascuno a proposito
della propria vicenda biografica, e non su una valutazione
esterna della resilienza personale, le persone sono state
scelte in quanto considerano se stesse resilienti – rappresentazione
personale e, in aggiunta, sono riconosciute resilienti – rappresentazione
sociale – dalle persone del loro contesto sociale e della
loro comunità. È stato infatti grazie a queste ultime e in
particolare all'incontro con studiosi e responsabili delle
relazioni con i sopravvissuti di musei e fondazioni che gli
intervistati sono stati contattati.
Dal punto di vista metodologico, il metodo narrativo (Shapiro,
2008) e lo strumento intervista semistrutturata (Mantovani,
1998) sono sembrati essere particolarmente adatti a stabilire
una significativa coerenza interna tra metodo e oggetto di
ricerca per due ordini di ragioni. Il primo relativo alla
ricerca in educazione porta ad evidenziare la rilevanza che
l'approccio auto-biografico, e quindi il lavoro con le storie
di vita, assume in quanto oltre ad essere efficace nella raccolta
dei dati da analizzare, permette alle persone soggetti della
ricerca di riflettere, attraverso la narrazione, sul proprio
percorso biografico e di comprenderlo (Demetrio, 1992, 1996).
Il secondo riferisce al concetto di resilienza, e a come la
possibilità di raccontare la propria storia e di essere ascoltati
sia proprio uno dei fattori protettivi della resilienza (Cyrulnik,
2004b). Dunque, se da una parte sono state incontrate le storie
di vita dei bambini sopravvissuti, contemporaneamente dall'altro
si è offerta loro un'occasione di riflessività sulla propria
vicenda biografica attraverso un'intervista nella quale gli
intervistati sono stati sollecitati a raccontare sia alcune
vicende, sia a riportare il senso che esse hanno avuto nella
loro vita e come tale senso si sia sviluppato nel tempo.
Il diritto alla storia in educazione
Non potendo in questa sede dare conto per
esteso dei risultati della ricerca che rimandiamo ad altra
sede (Milani, Ius, 2010) e consapevoli della non generalizzabilità
dei risultati, ci limiteremo a presentare alcune brevi considerazioni,
suscitate dall'analisi dei dati, a proposito del diritto alla
"storia" in educazione e nella ricerca educativa.
Tali considerazioni, pur essendo scaturite entro una cornice
riferita alle situazioni in cui i bambini vengono collocati
all'esterno della propria famiglia a causa delle difficoltà
presenti nel loro contesto, sembrano poter essere estese nel
contesto ampio dell'educazione e offrirci un piccolo contributo
utile a riflettere sul come conferire "educabilità"
alle relazioni educative nei vari contesti (famiglia, scuola,
società).
Ciascuno degli intervistati ha mostrato che, nonostante la
propria linea biografica sia stata recisa, anche più volte,
con esperienze di separazione, (e la protezione da parte delle
famiglie "affidatarie", la riunificazione con la
propria famiglia e l'esperienza dell'emigrazione abbia costretti
in doppie o triple appartenenze familiari, sociali e culturali),
sia comunque possibile giungere a un'identità adulta integrata,
soprattutto grazie al permesso di conoscere, comprendere e
raccontare la propria storia. In alcuni casi sono state evitate
cesure biografiche grazie ad una conservazione e un mantenimento,
seppur minimi, dei legami precedenti (es. i genitori affidatari
di una bambina di tre anni, le ricordavano di pregare per
una donna, la madre, per mantenere in lei il sentimento di
qualcuno di significativo oltre a loro) oppure tali cesure
sono state colmate con una ricerca sulle proprie radici e
la propria famiglia a seguito della guerra. Ciò che sembra
essere stato fondamentale è la presenza di qualche adulto
significativo, il tutore di resilienza (Cyrulnik, 2004c) che
è stato d'aiuto nel saldare e organizzare, nel tempo e nel
senso, i pezzi della propria storia in un unico racconto (Identità
Narrativa, Ricoeur, 1983-85) in tutte o alcune fasi della
vita. Si osservi, infatti, che per gli intervistati la possibilità
di raccontare la propria storia e vederla riconosciuta ufficialmente,
anche a livello istituzionale, nel proprio contesto sociale
allargato, è un fenomeno recente in quanto nella maggior parte
dei casi è stato solo a partire dagli anni Novanta che il
modello operativo esterno della società ha accolto, promosso
e sostenuto il racconto dei bambini sopravvissuti e in particolare
di quelli nascosti (Kangisser, 2005).
A partire dalle traiettorie biografiche analizzate, sembra
confermarsi da un lato l'importanza del diritto di crescere
ed essere educato nell'ambito della propria famiglia (art.1/L.149)
(il disporre di un "buon inizio" nella propria famiglia
risulta, infatti, essere un fattore protettivo di indubbia
rilevanza per lo sviluppo successivo di resilienza – il diritto
alla famiglia); dall'altro, si evince che la perdita di un
riferimento affettivo importante, seppur nelle difficoltà
che essa comporta, non sia cruciale quando si aiuta il bambino
a intraprendere un percorso narrativo sensato (Frankl, 1972)
della propria storia e al poterla conoscere, ricordare, unire
e integrare – il diritto alla storia (Moro, 2007) – grazie
alla presenza di altri adulti che diventano significativi.
I professionisti che operano con ruolo educativo possono dunque
fungere da tutori intenzionali di resilienza (Ius, Milani,
2010), adoperandosi nel proprio lavoro al fine di:
- divenire quell'adulto significativo ponendosi di fronte
al volto dei bambini in difficoltà per offrire loro un contesto
relazionale di ascolto e di sostegno della narrazione delle
loro storie, e garantire le condizioni affinché sia loro possibile
rappresentarle a partire dalle risorse, attraverso un lessico
positivo e una semantica progettuale che nell'unicità di ciascuno
apra alla speranza verso il futuro e che evidenzi l'imprescindibilità
dell'educare anche dove le circostanze sembrano decretare
che l'unico esito rimasto per l'educazione sia la fine (Demetrio,
2009);
- divenire un significativo operatore sociale di cambiamento
che attraverso la propria presenza e la propria professionalità
operi in contesti formali e informali in cui i bambini vivono,
mantenendo costante l’attenzione su come il sistema ecologico
racconta se stesso e sulle rappresentazioni che i vari sistemi
danno delle diverse situazioni delle persone, e che da una
parte aiuti le comunità e la società ad esplicitare ed elaborare
il proprio modello operativo esterno per poter offrire alle
storie di coloro che vivono in difficoltà rappresentazioni
che aprono alla resilienza, e dall'altra sia soprattutto di
sostegno affinché gli adulti possano diventare significativi
per i bambini con i quali vivono e si relazionano (genitori,
genitori affidatari, educatori, insegnanti, familiari, allenatori
sportivi, animatori, sacerdoti, ecc.).
Se, dunque, la storia rappresenta un diritto nel percorso
educativo di ciascuno, riteniamo interessante sottolineare
che anche il versante della ricerca educativa possa essere
investito di tale diritto, soprattutto per quanto concerne
la ricerca qualitativa nel tema della resilienza. La prima
attenzione di sfondo che pare di poter proporre al ricercatore
consiste dunque nel garantire all'intervistato uno spazio,
un tempo e una relazione di racconto della storia, in cui
la persona possa trovarsi di fronte al volto dell'altro (Levinas,
1961), sentendosi ascoltata e tutorizzata in una relazione
mossa da una coerenza tra metodo, soggetti e oggetto di ricerca.
Oltre a questa che vede il ricercatore come "raccoglitore
di storie", si ponga l'attenzione su come la fase del
"raccontare" le storie raccolte (testi, saggi, incontri,
lezioni, ecc.) sia cruciale. Il ricercatore diviene infatti
operatore di cambiamento sociale grazie al proprio lavoro
perché nel suo essere narratore di storie può fungere da modello,
in chi ascolta, per la narrazione della propria storia, e
soprattutto perché i risultati della ricerca e la modalità
con cui le voci vengono presentate possono sostenere la società
e i suoi membri nel divenire consapevoli della propria rappresentazione
sociale e dunque modificarla al fine di trasformare la propria
storia di prigionia, in una traiettoria di liberazione (Cyrulnik,
2005).
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