Percorsi di pedagogia della narrazione
Dalle fonti orali alle nuove tecnologie
Fabio Olivieri (a cura di)
M@gm@ vol.8 n.2 Maggio-Agosto 2010
TRA AUTOBIOGRAFISMO ED IMPEGNO ETICO: LA LETTERATURA ITALIANA DELLA MIGRAZIONE A VENT'ANNI DALLA SUA NASCITA
Nora Moll
noramoll@email.it
Ricercatrice e docente di Letteratura
italiana contemporanea, UTI Uninettuno, SSML Carlo Bo, Roma.
Per un attimo, io
stesso sarò il mio compagno di viaggio.
Salah Methnani
Narrare, narrarsi. Fin dai primi passi compiuti dalla letteratura della migrazione in Italia, sembra che questi siano stati degli imperativi urgenti e invalicabili, per gli stessi autori allora emergenti, e per il pubblico che per la prima volta era chiamato ad ascoltare la voce degli immigrati, a leggere le loro impressioni e riflessioni. Impressioni e tante storie di sé e di altri, di migranti e italiani, e soprattutto del loro difficile incontro in terra italiana; riflessioni sullo sguardo che per la prima volta partivano dalla direzione opposta, investendo colui che solitamente era nel ruolo dell’osservatore, per poi ripiegarsi sull’osservante/scrivente, deformato dalla visione distorta con cui spesso scopre di essere riconosciuto. Una visione distorta che porta tanti nomi: cliché, stereotipo, luogo comune, pregiudizio, razzismo. Una visione che può determinare tanti stati d’animo, che poi incidono sulla realtà non solo del soggetto che tale visione subisce, ma anche su quella di chi lo circonda: insicurezza, messa in crisi della propria identità, depressione, smarrimento, malinconia/saudade/ghurba, rabbia, impotenza…
1. L’esemplarità umana e testimoniale delle prime autobiografie co-autoriali
‘Assistiti’ nella loro nascita in entrambi
i casi da giornalisti e scrittori italiani, Immigrato, di
Salah Methnani e Mario Fortunato (pubblicato dalla casa editrice
Theoria di Roma) e Io, venditore di elefanti, di Pap Khouma
e Oreste Pivetta (Milano, Garzanti) segnano nel 1990 l’inizio
di una nuova letteratura italiana, interculturale e conseguenza
della immigrazione, fenomeno che in quegli anni stava iniziando
ad assumere una crescente rilevanza sociale e politica, in
Italia, e con un certo ritardo rispetto ad altre nazioni europee.
I protagonisti di entrambi i romanzi coincidono con l’autore/narratore
delle loro storie: storie autobiografiche, quindi, che nascono
attraverso varie dinamiche e varianti di scrittura ‘a quattro
mani’, ma anche di narrazioni e di rielaborazioni di manoscritti
diaristici. Entrambi i libri, seguiti nello stesso anno da
Chiamatemi Alì, di Mohamed Bouchane e Carla De Girolamo (Milano,
Leonardo) costituirono una novità che il pubblico italiano
riconobbe in alcuni dei suoi aspetti: quella del valore di
testimonianza di autori tutti africani (tunisino Methnani,
senegalese Khouma, marocchino Bouchane), che metteva in una
luce nuova l’avventura migratoria, e che faceva riflettere
sul comportamento della società ‘d’accoglienza’ nei confronti
della maggioranza degli immigrati.
Molto prima del pubblico, chi aveva compreso l’importanza
testimoniale e il valore esemplarmente umano della propria
storia, narrabile come ogni tranche de vie, erano stati gli
stessi scrittori migranti. Come nel caso di Sibilla Aleramo,
che riconosce, mentre scrive Una donna (1906), il valore sociale
e politico del proprio percorso doloroso e combattuto di figlia,
di madre e di moglie, e come in quello di Primo Levi, che
oppone con Se questo è un uomo (1947) la propria elaborazione
letteraria di esperienze impronunciabili al pericolo dell’oblio,
chi vive in prima persona un fatto epocale, spesso ne riconosce
il significato nello stesso momento in cui lo vive e subisce.
Se quindi la questione femminile e l’olocausto avevano segnato
profondamente l’inizio e la prima metà del secolo XIX, la
migrazione diventa, nella sua seconda parte, il fenomeno europeo
e mondiale più significativo, capace di mettere definitivamente
in crisi il concetto di nazione come di un’entità chiusa e
omogenea, quello dell’Europa come di un baluardo inespugnabile,
e della realtà mondiale (e in particolare del Sud del mondo)
come di qualcosa su cui le ‘grandi’ nazioni europee e l’Europa
tutta potevano gettare lo sguardo del turista o sviluppare
progetti economici, escludendo delle serie conseguenze in
termini di trasformazione del proprio sistema economico politico
ed identitario.
Tale considerazione e confronto con altre due autobiografie
del Novecento italiano (cui potrebbe essere affiancato per
il suo valore epocale anche Il partigiano Jonny di Beppe Fenoglio),
ha un obiettivo ‘retorico’ ben preciso: vorrei mostrare infatti,
in quel che segue, che la scelta del genere autobiografico
non è affatto un segno di ‘povertà inventiva’ da parte di
scrittori percepiti inizialmente più che come tali, come soli
registratori delle proprie storie; piuttosto, essa va considerata
come uno degli elementi che più caratterizza la letteratura
della migrazione, e non solo nella sua fase iniziale, indirizzandola
bensì anche nei suoi sviluppi successivi, e come scelta decisa
di conferire un valore etico-politico e civile alla propria
parola letteraria, compresa e tra-dotta in una lingua diversa
da quella madre. Il forte peso che la stessa esperienza migratoria
esercita sulla poetica degli scrittori migranti e translingui
non significa quindi che la scelta autobiografica sia unica
ed esclusiva, ma conduce sì verso tematiche etiche di importanza
individuale e collettiva, nazionale e mondiale.
Intanto, è da subito evidente l’esigenza, da parte degli autori
delle prime autobiografie italiane della migrazione, di individuare
e di rivolgersi al pubblico italiano. In Io, venditore di
elefanti di Pap Khouma, ad esempio, si ripetono fin dalle
prime pagine le allocuzioni ad un lettore immaginario, al
quale si spiega la condizione di vita di un venditore senegalese
in Italia, nei particolari materiali e psicologici che il
mestiere comporta. “Vendere non è solo questione di resistenza.
Non bisogna illudersi. Potete essere i più duri d’animo e
di cuore. Ma questo non vi garantirebbe il successo come venditore.
Lo capirete, se mi seguirete nel racconto. Capirete che vendere
elefanti o farfalle sottovetro o avvoltoi di osso è un’arte.
[…] Adesso, come vedete, i senegalesi sono in tutti i mezzanini
della metropolitana e non c’è verso di cacciarli fuori. Sanno
far valere le loro ragioni. Ma allora avevamo cominciato in
quattro. C’eravamo noi quattro soltanto, oltre a dei venditori
italiani….” (Khouma, 1990, pp. 12-13). Lo stile allocutorio
che caratterizza queste e molte altre pagine dell’autobiografia
dello scrittore senegalese-italiano contribuisce a illustrarne
l’intento principale: spiegare al lettore italiano qual è
la ‘vita immigrata’ dal punto di vista di chi la vive, e non
l’osserva soltanto; giustificare le proprie scelte lavorative
sullo sfondo, non solo della necessità di sostentamento, ma
anche su quello di un contesto culturale e di valori etico-religiosi
diversi da quelli della società di arrivo; ripercorrere tutte
le tappe della propria Bildung in forma di inserimento – tra
speranze e rifiuti, avvicinamenti e fughe – in una società
che poco ‘sa’ sul conto di chi si trova di fronte, sulle storie
che soggiacciono ai volti e ai gesti che sempre di più popolano
gli spazi urbani, e rurali, di questa nuova Italia. Seguendo
lo studioso del genere autobiografico Franco D’Intino, una
riflessione sulle motivazioni che portano verso il racconto
della propria vita va pertanto di pari passo con quelle intorno
al pubblico al quale tale racconto è indirizzato (D’Intino,
1998, p. 70). Ed è proprio a quel pubblico italiano, che gli
stessi scrittori scoprono poco istruito sulle culture del
mondo e sugli stessi ‘vicini’ del Mediterraneo, – oltre che
sul proprio passato coloniale ed emigratorio – che si indirizzano
le prime autobiografie migranti in Italia, e anche diverse
tra quelle successive agli anni tra il 1990-1994: perciò,
l’esigenza di narrare il proprio percorso ‘formativo’ – spesso
contemporaneamente e dolorosamente ‘deformante’ a livello
identitario – dopo l’arrivo in questo paese, s’incrocia con
l’intento autenticamente ‘formativo-educativo’ su chi ora
è in grado di leggere le parole del ‘diverso’, 'dell’altro’,
nella propria lingua, e a partire dalla condivisione di uno
stesso spazio, fisico e immaginario.
Già ad un primo sguardo, quindi, le già citate autobiografie
si profilano, più che come dei moderni Bildungsromane che,
per ipotesi, metterebbero in scena degli individui alla ricerca
di una nuova identità italiana per concludere magari con il
happy end dell’integrazione nella società d’arrivo, come il
rovesciamento di questa specifica forma del romanzo europeo.
Rovesciamento che va di pari passo con la demistificazione
di tutte, o quasi tutte le aspettative, che gli autori di
questi primi libri della migrazione in lingua italiana nutrivano
nei confronti del paese dove avevano scelto di vivere, e rovesciamento,
anche se temporaneo, dell’immagine dipinta finora di sé stessi,
nella vita prima del passo verso l’altrove.
Nell’autobiografia di Salah Methnani, tale processo è narrato
in maniera incisiva ed esemplare. Nelle pagine dedicate a
Mazara del Vallo, prima tappa del viaggio in Italia del giovane
Salah, leggiamo le seguenti considerazioni su una presunta
vicinanza e comune identità ‘mediterranea’ che però non impedisce
al tunisino di sentirsi diversamente da come aveva immaginato
prima della partenza da casa:
Appena arrivato, pensavo che la vicinanza non solo geografica
mi avrebbe aiutato un poco a inserirmi, a trovare una qualche
definizione di me stesso. Pensavo che qui le cose sarebbero
state, per così dire, a una giusta distanza. Ora invece, ancora
senza un lavoro sia pure minimo, e con i soldi che diminuiscono
pericolosamente, mi sento di colpo restituito a una realtà
che non riesco, che non voglio accettare. Sono costretto a
non vedermi più, in così poco tempo, come un giovane laureato
all’estero. Non sono più un ragazzo che vuole viaggiare e
conoscere. No: di colpo, mi scopro a essere in tutto e per
tutto un immigrato nordafricano, senza lavoro, senza casa,
clandestino. Un individuo di ventisette anni venuto qui alla
ricerca di qualcosa di confuso: il mito dell’Occidente, del
benessere, di una specie di libertà. Tutte parole che già
stanno cominciando a sfaldarsi nella mia testa. […]
(Methnani, 1990, p. 25-26)
È questo uno smarrimento del viaggiatore che la letteratura poco ha registrato, e che non assomiglia affatto a quello del viaggiatore-scrittore protagonista di viaggi sentimentali, alla ricerca di sé stesso oppure delle radici della propria cultura. Qui, lo smarrimento non conduce verso un più vero sé stesso, verso un io più autentico, ritrovato in seno all’alterità. Il viaggio narrato da Methnani è quindi, come è stato giustamente osservato (Gnisci, 1992, 2003, pp. 14-72), il rovescio del Grand tour, del viaggio in Italia praticato da secoli a provenire, dal Nord Europa, e in particolare dagli esponenti dell’aristocrazia e dalla ricca borghesia. Questa volta, l’identità del viaggiatore/scrittore non si ricongiunge con una matrice comune, con una madre cultura rassicurante pur nelle sue manifestazioni più eterogenee e svariate, ma si scinde, sotto l’impatto dell’essere visto come irrimediabilmente diverso/lontano/altro, e sotto la sensazione di esclusione che tale sguardo provoca. Eppure, allo stesso modo dello scrittore europeo in viaggio alla ricerca dell’esotico intimo e ‘casalingo’, anche Methnani reagisce con la scrittura, cercando di frenare lo sgretolamento del proprio io, che va di pari passo con la sensazione della fugacità del vissuto, dell’incapacità di ricordare luoghi, nomi, persone, storie. Ed è questo un particolare importante, che ci rivela come il primo nucleo della narrazione autobiografica di Immigrato non sia un racconto orale – come invece il co-autore Fortunato affermerebbe nella citata prefazione alla nuova edizione – piuttosto annotazioni diaristiche, reazione dello scrittore al vissuto che egli vuole salvare sulla pagina:
[…] È davvero insopportabile dover abbandonare sempre qualcuno o qualcosa. Le persone o i luoghi, a poco a poco, diventano delle diapositive prive di profondità: sono superfici su cui scivoli. Ti abitui non soltanto a essere continuamente solo, ma anche a non ricordare più niente, perché la memoria, a un certo punto, s’imbroglia, sbiadisce. Negli ultimi giorni, ho cominciato a tenere una specie di diario in cui appunto gli avvenimenti più banali, i particolari più insignificanti. È un’esperienza nuova, per me. Mi dico che, almeno, in questo modo il tempo, le persone, i gesti non passeranno del tutto inutilmente. Fra qualche mese, potrò aprire il mio quaderno, e a una pagina potrò domandare: “Ti ricordi di quella volta che…”. Oppure: “Come si chiamava quella ragazza di Mazara?”. Il quaderno, in silenzio, risponderà: indicherà i nomi e i profili e infine i corpi. La solitudine. Così m’illudo, sarà qua e là attraversata da una presenza, da un’ombra lontana. Per un attimo, io stesso sarò il mio compagno di viaggio. (Methnani, 1990, pp. 51-52)
Come si può notare dalla lettura di questi passaggi testuali, il racconto autobiografico diventa, nel caso di Methnani, un contenitore per le più effimere annotazioni diaristiche, composte a loro volta per opporsi attivamente all’oblio che il presente impone, soprattutto a chi vive l’accelerazione del viaggio, unitamente al dolore e al trauma che la partenza dal proprio contesto familiare può implicare. E’ la scrittura come memoria attiva che qui viene tematizzata con lucida coscienza, e che ci riporta alla considerazione iniziale intorno alla consapevolezza sulla propria esemplarietà testimoniale, nonché verso un’anticipazione intuitiva sull’aspetto biografico che emerge già in questa prima fase, ma che potremo riscontrare anche e ancor di più nei testi successivamente apparsi: ovverosia sulla tensione etica, da parte del soggetto autobiografico, di narrare non solo il sé, ma anche le tante storie di altri destini con cui egli s’incrocia.
2. Memorie pre-migratorie e silenzio sul/nel post
Nella scrittura autobiografica sull’arrivo
in Italia, è quindi innegabilmente presente il tentativo di
riassumere un’esperienza cruciale, talvolta tragica e traumatica,
della propria vita, compiendo così un passo per superare tale
esperienza, consegnata ormai alla fissità di una narrazione
scritta, non più solo intima ma pubblica. Paradossalmente,
una volta però che il pubblico identifica la storia che legge
con il suo autore, questi è richiamato indietro dalla stessa
sua storia, ‘fondendosi’ con essa e con il suo libro. Tale
rischio, che tutti gli scrittori che esordiscono come autobiografi
corrono, è stato particolarmente sentito e subìto dagli scrittori
migranti in Italia, per alcuni dei quali quel libro è poi
rimasto (per ora, si dirà) l’ultimo, definitivo. Lo stesso
rischio, del resto, apparirebbe come ‘programmato’ in altri
due testi singolari, appartenenti ancora alla prima fase di
emersione del fenomeno della letteratura migrante in Italia,
ma incentrate principalmente sulla memoria pre-migratoria
dei loro autori: si tratta delle autobiografie romanzate di
Nassera Chohra, Volevo diventare bianca (1993) e di Fernanda
Farias de Albuquerque, autore insieme a Maurizio Jannelli
di Princesa, del 1997.
Nassera Chohra, figlia di genitori algerini saharawi emigrati
in Francia, ripercorre nel suo romanzo la propria infanzia
e adolescenza trascorse nel paese d’adozione dei genitori,
narrando con tono ironico e con delicato ésprit della propria
ricerca di sé nella difficile conciliazione tra le imposizioni
identitarie da parte di varie culture e ‘opinioni di culture’
presenti nella ‘sua’ Marsiglia. L’approdo in Italia, e quindi
il vero atto migratorio, è solo l’epilogo di questo racconto,
epilogo a partire dal quale, però, la narrazione delle memorie
d’infanzia e d’adolescenza prende il suo significato. Inizialmente
registriamo il turbamento della scoperta, nello scenario di
una elegantissima Firenze, di assomigliare ad un ragazzo di
colore, apostrofato dai passanti come ‘vu’ cumprà’: “Non capivo,
allora, il suono di quelle parole, ma disturbarono la mia
estasi di turista. Non saprei dire perché, ma d’istinto confrontai
la mia pelle con quella del malcapitato venditore che se ne
stava lì con lo sguardo basso e rassegnato. Deve essere senegalese,
pensai. Loro questo mestiere ce l’hanno nel sangue. Gli sorrisi,
per solidarietà, ma lui forse neppure mi vide” (Chohra, 1993,
p. 132). Ancora, la pelle: dopo aver narrato dei tentativi
adolescenziali di sbiancare la propria pelle nera con la varechina,
per essere accettata dai coetanei francesi ‘bianchi’, il gioco
d’identificazione con un immigrato di colore ‘tira’ il soggetto
autobiografico dentro un’auto-immagine che sovrappone nuovamente
il nero con l’immigrato, e con il ‘malcapitato’. Eppure, tale
cenno al ritorno verso il destino dei propri genitori, dal
quale tanti figli dei migranti vorrebbero o avrebbero la necessità
di liberarsi, riceve un’improvvisa svolta verso un finale
felice: l’innamoramento a Roma, della città e di un romano,
che diverrà il padre di suo figlio. Riassumendo, in conclusione
del suo romanzo autobiografico, l’esperienza marsigliese nei
termini di una vita segregata in una comunità (quella africana
musulmana) che non era più sentita serenamente come sua ([…]
io vivevo ormai in un mondo tutto mio che era un miscuglio
di tradizioni algerine e sogni europei» p. 133), l’attenzione
è ora tutta concentrata sul proprio figlio, sul futuro, sulla
felicità:
Mia madre probabilmente oggi, guardando mio figlio, si chiede quale Dio pregherà, che vita farà, quale lingua parlerà. Ma mio figlio le lingue le sta imparando tutte: l’arabo, il francese e l’italiano; e spero che possa crescere serenamente, prendendo, di qua e di là, tutto ciò che potrà renderlo felice. Ma mi auguro, soprattutto, che il futuro gli dimostri che bianco e nero non sono altro che sfumature. (Ibid.).
Tutto all’opposto, la drammatica storia di
vita narrata da Fernanda (per il/la quale userò lo stesso
nome che aveva scelto di portare) è diretta verso un altro
tipo di silenzio, non quello di una madre felice e rivolta
verso il futuro del figlio, bensì quello di chi ha ricevuto
la propria, prevedibile, condanna. Il racconto, questa volta,
è quello di un transessuale recluso nel carcere romano di
Rebibbia, dove conosce Maurizio Jannelli, ex brigatista rosso,
imprigionato anche lui. Insieme ad un terzo recluso, Fernanda
scopre la sua ‘medicina’: scrivere per tenersi insieme”, come
Jannelli spiega nella sua prefazione (F. Farias de Albuquerque,
M. Jannelli, 1994, p. 7), ed in seguito la scrittura di bigliettini
scambiati tra i tre diventa un modo per ‘tenere insieme il
sé’, attraverso la memoria e la sua elaborazione condivisa,
salvando Fernanda dalla disgregazione e dalla follia; contemporaneamente,
tale pratica riesce a ‘cucire’ e tenere insieme tre esistenze
in un’inaudita amicizia.
Noi lettori sapremo solo della vita di Princesa (soprannome
‘di strada’ di Fernanda), ripercorrendo la storia di un’infanzia
segnata dall’irrefrenabile pulsione identificatoria con l’altro
sesso, quello femminile, e dal passaggio di ritorno verso
il sesso di partenza, nella chiave di seduzione estrema. Riconoscendo
ancora in età infantile il proprio destino di veado, Fernanda
narra con dolcezza e innocenza fatti ed eventi di per sé sconvolgenti,
ma che appaiono inevitabili e comprensibili proprio perché,
cosa inaudita, li apprendiamo dalla bocca di chi li ha vissuti,
e fin dal principio della propria coscienza di sé. E’ una
fuga, quella sua, una fuga dall’essere maschio, figlio di
una donna sola che non vuole rassegnarsi alla trasformazione
in ‘femmina’ del suo unico compagno di vita. Princesa poi,
una volta che il passaggio verso la femminilità è definitivo,
provocato da dolorosi interventi operatori, continua a fuggire,
dalla polizia, dalla delinquenza, dal destino che le si presenta
nel volto di alcune ‘compagne di avventura’: la ‘maledetta’,
l’aids.
Ed è proprio qui che il racconto – conservando anche in seguito,
e pur nella brutale volgarità delle vicende narrate, la sua
iniziale e infantile innocenza proprio perché il lettore è
partecipe di quel che Fernanda stessa afferma essere il suo
unico destino – si sposta da narrazione del sé a narrazione
del ‘tu’. Nel racconto del periodo passato da Fernanda a Rio
de Janeiro – dove nei primi anni ’90 squadroni di cittadini
giustizieri minacciavano quotidianamente con la morte e realmente
uccidevano veados, insieme ai niños de rua – la memoria dell’autrice
si sofferma su altre vittime da lei conosciute sui marciapiedi,
vittime della terribile malattia:
- Renata di Brasilia. Apprende di aver
contratto l’aids, si uccide con un’overdose di eroina.
- Jane di Niteroi. Viene espulsa dalla Francia. Il suo denaro,
una piccola fortuna, è sequestrato dalla polizia francese.
Torna a Rio senza un soldo e ricomincia a battere. Si buca
di cocaina e beve alcolici come una pazza. Acceca l’occhio
di un poliziotto con una forbiciata. Vive sbandata, braccata
dalla polizia carioca. L’aids la colpisce. Muore di cirrosi
epatica in ospedale.
[…]
- Simone, meglio conosciuta come Laranjinha. E’ bianca, bella
e forte. E’ sieropositiva. Va in spiaggia tutti i giorni.
Batte con me in rua Augusto Severo. La concorrenza non le
mette paura. E’ cordiale con tutti. Viene ricoverata in ospedale.
Cinque giorni dopo muore. Non ha famiglia. Il suo corpo se
lo prende l’università di Rio. [pp. 66-67]
Una volta in Europa – prima a Madrid e poi a Milano, Firenze, Roma – la narrazione di Fernanda si fa più convulsa, confusa. I marciapiedi cambiano, cambiano le tipologie dei clienti, ma cambiano anche le minacce, che nonostante la minore violenza esplicita esercitano su di lei degli effetti deleteri. La reazione diventa il ricorso all’alcol, e alla cocaina, che però non riescono a offuscare e a distogliere la sua vista dal destino orrendo di una ‘compagna’ brasiliana, disfatta dall’aids, che i clienti italiani continuano ad ‘adoperare’ nonostante il suo evidente stato [pp. 98-99]. Lo stesso rituale narcisistico della cura del proprio corpo dalla femminilità volutamente eccessiva, “non è più il bel rituale, profumo il corpo, lo porto alla svendita finale”, e il continente dove sperava di fare fortuna, ha portato solo delusioni: “L’Europa è spenta, io brancolo nel buio” [p. 101]. Nelle ultime pagine di Princesa, si assiste quindi al crollo del mito di sé stesso/a come di un essere umano che, creato da sé stesso, avrebbe dovuto vivere la propria marginalità sociale nella gloria di una bellezza e di una sensualità ideale; contemporaneamente, tramonta anche il mito di un'altra cultura sognata come scenario dove dispiegare liberamente tale sogno. Il finale è lucido, desolato:
Senza sforzo, nelle braccia del demonio, in Europa, ci si arriva a bassa voce, silenziosamente. Qui da voi, non si muore fragorosamente. Sparati o di coltello, tra urla e sforbiciate. Qui si sparisce zitti zitti in sottovoce. Silenziosamente. Sole e disperate. Di aids e di eroina. Oppure dentro una cella, impiccate a un lavandino. Come Celma, che vorrei ricordare. Dormiva nella cella a fianco, dentro quest’altro inferno dove ora vivo e che ho deciso di non raccontare. [p 102]
Di fronte al tentativo di chiudere attraverso l’elaborazione autobiografica il capitolo doloroso del proprio percorso migratorio, e/o identitario, che nel caso di Khouma, Methnani e Chohra poteva sembrare di equivalere ad una sorta di terapia di riapertura del proprio percorso esistenziale, il finale di Princesa segna con tutta evidenza l’impossibilità di espellere certi traumi: il suo ‘oltre’ è un oltre infernale, un destino sentito già come chiuso sul quale infine cade il silenzio. Comunque, in tutte le autobiografie fin qui trattate, l’acquisizione di una coscienza complessiva e riassuntiva – e di conseguenza la conquista di un senso da assegnare alla propria vita passata, da cui trarre un senso di vita per il futuro – appare come obiettivo primario di scrittura. Un ‘esercizio’ che apparirebbe “come assurdo, visto che l’identità rivelata dalle sue azioni è proprio ciò che l’agente non padroneggia e non conosce”, seguendo Adriana Cavarero nella sua rilettura di Hannah Ahrendt, e visto che “per il significato e la verità della storia, è indispensabile che chi la racconta non sia coinvolto nell’azione del suo protagonista” (Cavarero, 2009, pp. 38-39]. La fragilità di un progetto di senso che emerge dall'esercizio’autobiografico, tuttavia, cerca la sua forza proprio nella natura relazionale della ricezione: nell’idea, cioè, che l’autobiografia, una volta che essa non sia soltanto un esercizio, bensì una pratica ‘pubblica’, vada a demandare la ricerca del senso allo stesso lettore, davanti al quale l’autore ‘esibisce’ la propria storia. E il ‘tu’ che, più o meno consciamente, l’auto-biografo cerca nel suo lettore ha lo stesso valore etico dei tanti ‘tu’ che lo scrittore, autobiografico o non, include nella propria narrazione, facendosi bio-grafo di storie da salvare, in vista della costruzione di un possibile senso o perlomeno dal sicuro oblio.
3. Il distacco dall’autobiografia all’interno dello stesso genere: l’uso dell’ironia
La nascita alla letteratura, per lo scrittore
autobiografico in una lingua non posseduta fin dall’infanzia,
è quindi una decisa e cosciente nascita ad un pubblico nuovo.
Un evento che implica un atteggiamento di interrogazione e
di ridefinizione dell’io, da parte dell’autore, la quale in
questo caso si snoda solitamente intorno ad un percorso identitario
e migratorio tra due o più culture. Nei testi sui quali sto
richiamando l’attenzione, tale introspezione non è quindi
mai declinata in maniera ‘ombelicale’ e narcisistica, ovvero
secondo una delle tendenze della letteratura europea (e in
particolare francese) che non molto tempo fa ebbe a mettere
in discussione Tzvetan Todorov nel suo libro La littérature
en péril. L’auto-analisi degli scrittori migranti è, infatti,
normalmente accompagnata da una decisa estro-spezione, ovvero
dallo sguardo analitico sulla società del paese d’arrivo,
ma anche su quello di partenza che non sempre assume i colori
del mito e intorno al quale ora, ‘liberati’ dalla lingua madre,
possono essere espressi perplessità, dolori intimi e accuse
collettive.
Nel libro di Mihai Mircea Butcovan, Allunaggio di un immigrato
innamorato (2006), la ridefinizione identitaria sullo sfondo
di una critica demistificatoria della società d’arrivo assume
toni e stili diversi. Per la prima volta in Italia, è l’ironia
a diventare caratteristica dominante dell’autobiografia romanzata
scritta da un autore migrante, e la lingua a imboccare la
strada dell’umoristico-grottesco. Mettendo in scena se stesso
come giovane studente universitario, romeno ma da anni residente
a Milano, Butcovan non si lascia sfuggire ‘occasioni narrative’
come quella della (ossessivamente e forzatamente ripetuta)
prova di lingua presso l’università e futuri datori di lavoro,
tradotte in gioiosi fuochi d’artificio di associazioni semantiche
e in lanci da giocoliere con catene di parole. Il plot si
snoda lungo una breve storia d’amore tra lo studente Mihai
e la cameriera dal nome disneyano, Daisy, perfetta rappresentante
della non-cultura e della sciatteria ‘padana’, manifestamente
leghista. Una parte della narrazione si concentra quindi sugli
sforzi, inizialmente non inutili, del protagonista di conquistare
la giovane, nonostante tutti i pregiudizi verso la sua ‘categoria’
(di immigrato e per giunta romeno) dei quali egli è più che
cosciente. Dopo aver espletato il dovere narrativo dell’antefatto,
ovvero della fine della storia d’amore decretata da una lettera
di Daisy, in cui Mihai (con evidente auto-ironia da parte
dello scrittore) è definito “‘amante sillogistico’, ‘barbone
da promemoria tributario’, […] ‘marxista sessuomane’, ‘poeta
da corte marziale’, ‘pseudocomunista che sputa nel proprio
encefalogramma’, […] ‘transilvano da crociera’, ‘vampiro birraiolo’”
(p. 10), assistiamo attraverso un flash back al dispiegarsi
di una tragi-comica ‘fetta di vita’ dell’autore. Registrando
i fatti in un diario, non sempre datato, uno dei primi passi
che avvicinano lo studente neo-milanese-romeno alla cameriera
‘padana’ è costituito dall’attraversamento della stretta cruna
dell’ago degli stereotipi. Il luogo dell’incontro-scontro,
una birreria milanese:
Ora lasciatemi stare, voglio dedicarmi
a Daisy. Non appena ha un po’ di tempo si siede al mio tavolo
e mi racconta del suo fidanzato, della noia dell’ultimo week-end,
quando lui russava e lei non riusciva a dormire perché “strano,
mi sei venuto in mente”.
E’ giunto il momento di dirle la verità.
“Sono romeno e mi chiamo Mihai”, proclamo, e mi aspetto svenimenti.
Mi chiede un documento e poi conclude: “Lo sapevo io che c’era
qualcosa… Raccontami della Transilvania e dei vampiri! E’
vero?”
Le faccio leggere il Racconto transilvano. (p. 30)
E insieme a Daisy, anche il lettore si addentra nell’intermezzo di un racconto in cui amabilmente si gioca con un elemento della visione stereotipata del romeno, quello esotico che attinge all’immaginario terribile ma irresistibile intorno al conte Dracula. Il protagonista (ma anche l’autore) Mihai sa ben come usare quell’image esotica a suo favore, e anche come nascondere all’occasione la sua vera identità, come nella spassosa scena della cena ‘padana’ a casa della famiglia ‘padana’ della ragazza (p. 63). Ma c’è anche dell’altro: tenere immagini di amore, semplice e semplicemente, che inducono a far sperare in un colpo di scena che appiani tutte le differenze culturali e gli irrigidimenti personali; riflessioni poco draculesche sulla vita e la morte che coinvolgono altri personaggi come il filosofico Julian, maestro di Mihai; auto-ironici quadretti che vedono l’io narrante coinvolto in discussioni tra destra e sinistra studentesca; e, infine, descrizioni sarcastiche a spese dei propri connazionali, e di una tipologia di italiano che frequenta la Romania non propriamente per calcare le orme di Dracula:
Milano. Consolato romeno. Gli italiani
direbbero “che cinema”.
Appena arrivo, la solita bolgia di gente ricca e povera insieme,
che si guarda e ti guarda insospettita quando entra e quando
entri. […]
Il muratore della bassa, baffi biondi e capelli lunghi per
compensare la pelata, pancia traboccante sul cinturone all’americana
– ricordando Verdone, emigrato di ritorno dalla Germania –,
accompagnato dalla solita tettona romena, plurisposata, pluridivorziata,
pluriconsumata in patria dai patrioti, pluritruccata e monossigenata,
valacca informata in osteria sulla fame di sesso di certi
italiani non più giovani ma molto facoltosi […]. (pp.
70-71)
Come si vede, l’autore, insieme al soggetto autobiografico,
sa bene come gestire in senso umoristico la lingua italiana,
utilizzando riferimenti culturali autoctoni (il personaggio
di Carlo Verdone, diversi modi di dire regionali e dialettali)
per creare una pointe, e mostrando la propria superiorità
intellettuale rispetto agli italiani che frequenta: (“La povertà
lessicale delle litanie di ‘cioè’ e ‘raga’ compensava il lusso
della casa. Sul bordo della piscina tutti parlavano di federalismo
e altre cose che fraintendono”, p. 91).
Indeciso, delle volte, se recitare la parte dell’immigrato
squattrinato che picarescamente attraversa i ceti medio-alti
di una società nella quale, più che ‘integrarsi’, si trasforma
in ‘sanguisuga’, oppure se assumere la posa dell’intellettuale
annoiato dalla evidente stupidità delle masse, Mihai trova
infine una propria originale sintesi: la figura dell’ ‘osservatore
romeno’, che descrive con umorismo sé stesso davanti al quadro
di questa Italia del nord, strana, ricca, e a suo modo decadente.
La storia d’amore tra lui e Daisy, infine, frana a causa di
un dislivello insanabile che vede in una posizione intellettuale
dominante colui che è etichettato invece come culturalmente
inferiore dalla collettività in cui vive:
Che cosa mancava alla nostra storia?
Più di una data. E questo diario è meno volgare della vita
che tocca a più di un migrante.
Toglimi un’ultima curiosità. Mi serve per l’Osservatore Romeno.
Qual è il tuo nome padano, Daisy? (p. 103)
4. Verso la molteplicità di stili e di immaginari
Al termine di questo percorso attraverso alcune tra le autobiografie di scrittori migranti in Italia, non sarà difficile notare come, attraverso la sua ormai ventennale esperienza, questa letteratura interculturale sia salva dal rischio di irrigidirsi in schemi mentali, e di perpetrare temi e generi letterari in maniera sterile o stereotipata, o di solo interesse sociologico. Colpendo fin dall’inizio il cuore dell'umanità esemplare dei nostri tempi, i suoi molteplici sviluppi anche all’interno dello stesso genere autobiografico confermano la capacità di questa letteratura di narrare una nuova Italia, luogo d’incontro di storie personali e di storie collettive che ormai tendono verso una internazionalizzazione degli spazi, e degli immaginari. Laddove la stessa letteratura italiana contemporanea fa ancora fatica a riconoscere e a narrare l’eterogeneità e la ricchezza di sfumature del contesto culturale nel quale è incardinata, gli scrittori migranti si sono mossi – senza molto clamore e spesso sotto difficoltà e frustrazioni – verso la punta di un discorso profondamente ‘moderno’ (Moll, 2009), avanguardia dell’umano. Continuando a scrivere auto/bio-grafie.
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www.italianisti.it/FileServices/Moll%20Nora.pdf
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