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  • Percorsi di pedagogia della narrazione
    Dalle fonti orali alle nuove tecnologie
    Fabio Olivieri (a cura di)

    M@gm@ vol.8 n.2 Maggio-Agosto 2010

    LA PAROLA TRA EDUCAZIONE E SPERANZA


    Anna Aluffi Pentini

    aluffi@uniroma3.it
    Docente Pedagogia interculturale, Università di Roma Tre.

    L’occasione per questa riflessione è una rilettura dei discorsi sull’educazione di Buber nella loro dimensione dialogica, la parola come dialogo, la parola dialogo, la parola come ponte dell’agire educativo. L’obiettivo ultimo della riflessione è poi quello di dare respiro agli orizzonti di significato dell’agire educativo.

    Riflettere sulla parola e sui significati della parola è un compito pressoché impossibile, perché nelle parole si racconta il nostro pensiero e la nostra vita, anche nel silenzio del pensiero.

    La complessità di una digressione su questo tema tende a scoraggiare. D’altro canto chi si interessa di tematiche educative avverte periodicamente l’esigenza di tornare a riflettere sulla parola.

    La parola fa talmente parte della nostra esperienza superficiale e profonda, del nostro quotidiano e dei nostri sogni, che parlare della parola significa accettare la sfida della banalità che ci co-costituisce e del mistero che ci accompagna.

    Nella parola riponiamo fiducia e sfiducia a seconda dei contesti, del nostro umore, del nostro interlocutore, a seconda delle esperienze pregresse che una voce o un carattere stampato ci riportano alla mente.

    In un libretto di poche pretese ma di grande pregnanza una logopedista scrive: “Nulla di per se è già parola o linguaggio, ma tutto può divenirlo e in questo divenire vi è l’attività di chi si esprime o di chi comprende. Esistono parole provviste di cosa nominata come tavolo, e parole che ne sono sprovviste come nulla” (Sali 2009, pag. 5) Sul piano di questa disarmante semplicità mi piace pensare che si incontrino nello studio dell’autrice del testo, bambini “quasi adatti” e adulti vittime di incidenti o colpiti da ictus che progressivamente acquistano parole. Che piano piano riconquistino la speranza di parola dato che “gli afasici soffrono di una tormentosa sensazione di perdita” (Sacks 1991, p.72).

    Su questa disarmante semplicità non si gioca solo la sfida della riabilitazione ma tutto il nostro essere sospesi tra parole provviste di cosa nominata e parole sprovviste di cosa nominata. Continuamente scegliamo tra queste due tipologie di parole e di mondi. Astratto e concreto, realtà e speranze.

    Il termine “infante” significa letteralmente colui che non parla, e molte cose fanno pensare che l’acquisizione del linguaggio segni un processo qualitativo assoluto nello sviluppo della natura umana. Quando capiamo da bambini o nella riabilitazione che si può “rappresentare un oggetto o un’immagine con un nome” nasce in noi “una fame di nomi violenta e insaziabile” (ibid. p.82).

    Poi cominciamo a ragionare in modo diverso e a riflettere con Vygotskij che le parole muoiono quando generano il pensiero, ma anche il contrario è vero: i nostri pensieri perdono qualcosa quando li articoliamo parlando.

    Talvolta la parola ci descrive pienamente, talvolta invece ci ritroviamo a implorare con Montale di “non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe”. Nella stanchezza dell’incertezza la parola di una richiesta, la parola che pretende, ci spaventa. Non vogliamo trovare le parole per dire chi siamo. Preferiamo dire il NON, se non possiamo tacere. Eludiamo il racconto, raccontandoci per “difetto” o forse affermiamo altrimenti, di esserci in altro modo, per raccontarci a modo nostro. Il racconto unisce e separa, nasconde e mette a nudo.

    Talvolta invece la parola è un rifugio che ci permettiamo di cercare come Etty Hillesum quando dice “A volte vorrei rifugiarmi con tutto quello che ho dentro in un paio di parole” e le parole sembrano rifiutarci “ma non esistono ancora parole che mi vogliano ospitare” (Hillesum 1985, p. 67). Nemmeno le parole ci accolgono, ma quell’ancora ci lascia sperare, che prima o poi le parole ci accoglieranno e allo stesso tempo ci sentiamo accomunati ad un’umanità di simili “ognuno si vuole costruire un rifugio “ e la soggettività si fa coraggio, si fa strada: “io mi cerco sempre un paio di parole” (ibid.) e ci facciamo coraggio, cerchiamo le parole-rifugio. Il dialogo interiore può illuminare, come la Hillesum insegna, anche le esperienze più dolorose ed estreme.

    Ci definiamo attraverso un non definirsi per cautelarci. Possiamo dire soltanto ciò che non siamo, ciò che non saremo , perché dal rifugio che ci siamo costruiti con un paio di parole non è poi sempre facile intraprendere un movimento in direzione altrui, sperare di essere compresi.

    Nella letteratura danubiana che arriva agli anni trenta “la parola non riesce più a dire l’esperienza” e segna per così dire “il naufragio del soggetto il quale non riesce più a porre fra sé e il brulicare vitale il graticcio del linguaggio” il timore diventa quello di parole che sono “muri che velano quel senso che scintilla dietro ad essi” o ancora il timore che l’espressione sia “un’operazione in perdita che degrada la perla lucente nel profondo a dozzinale perlina di vetro” (Magris 2002, p.350).

    Solo quando stiamo abbastanza bene o la malinconia è leggera possiamo compiacerci di un “significato latitante” (ibid. ).

    Eppure “le parole della poesia sono quelle che spezzano il volto compatto del mondo affacciandosi sul mare dell’altrove incerto” (ibid, p. 349).

    Ma la parola propone anche radici solide. La nostra dimensione esistenziale occidentale si confronta inevitabilmente con la Parola. Il vangelo “colto” del giorno di Natale non parla della stella e dei pastori: parla del Verbo, della parola del logos che si fa carne. “In principio era il verbo e il verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Alcune antiche traduzioni del prologo giovanneo per esempio in Erasmo da Rotterdam riportavano dialogos invece che logos, quasi che ancora prima di essere carne il logos fosse stato dialogo e il dia logos si realizzasse quasi tra sé e sé in Dio stesso.

    Siamo interpellati in termini relazionali, possiamo accogliere o non accogliere il logos, il dialogo che ci viene proposto.

    Da questo appare dipendere il destino del cristiano ma in questo forse più che in ogni altro versetto del Vangelo il cristiano è come tutti gli altri. Il dialogo interiore, il dialogo con l’altro condiziona la vita di tutti noi, anche di coloro che escludono il dialogo con Dio. In noi vive il dialogo, anche quando non crediamo nell’incarnazione della parola.

    Se poi vogliamo soffermarci su una versione militante e in un certo senso laica della funzione salvifica, perché educativa, della parola pensiamo a Freire. Ai suoi lavori in cui parola e vita, e parola e cambiamento sembrano essere sinonimi. Avviare il dialogo diventa nella pedagogia degli oppressi dare vita a relazioni personalizzate, personalizzanti, e allo stesso tempo a rapporti collettivi, vuol dire educare e costruire la comunità. Le parole generatrici di Freire (1967) sono ponti di invito al dialogo, strumenti di uscita dalla minorità, strumenti di empowerment per i contadini brasiliani alfabetizzandi, spunti per appropriarsi della propria esistenza, rinarrandola, spunti per interrogarsi sul senso, per sognare un cambiamento, per iniziare il balbettio di un progetto di emancipazione.

    Nei circoli di cultura la parola legata alla vita degli alfabetizzanti, dà vita, dà speranza.

    Anche don Milani dirà ne “La parola fa uguali” (2005) che nel suo apostolato ha dovuto apprendere una lingua che non conosceva e insegnare la grammatica italiana, pur rifuggendo da ogni inutile vezzo di complessità.

    Parlare per educare significa non incorrere nelle trappole relazionali in cui “comunicare si traduce in una rappresentazione del comunicare … cosí il comunicare diventa un gioco delle parti” (Testa 2000, p.139).

    Nella parola che emancipa si tratta proprio di attivare quella parola narrativa protesa verso obiettivi in cui si passa “dal potere del narratore alla potenza della narrazione” e questo significa “abbandonare la difesa del proprio ruolo” in modo da rendere “nuovamente imprevedibile – quindi interessante – la relazione” (ibid. p.141).

    La relazione è il tema che Buber affronta in tutta la sua opera, con tutte le sue energie, la relazione che mobilita l’uomo nel profondo, la relazione che non può non farsi educativa.

    Nel Principio Dialogico Buber si chiede appunto “Come possiamo riportare al mondo la parola fondamentale che è al di fuori della parola? “e aggiunge che solo con l’intero essere si può dire la parola fondamentale io-tu…(Buber 1993, p.63). Nella parola, nel logos, è quindi compreso l’io-tu, la relazione. L’altro è nella parola, nella mia parola fondamentale.

    Le parole e quanto esse designano si sovrappongono nel movimento solo apparentemente confuso della relazione “Diventando io nel tu; diventando io, dico tu (ibid. p.67)”.

    Buber tocca tra l’altro il rischio di ogni relazione sana e non fusionale quando afferma la necessità, e riconosce la malinconia, del destino umano della sia pur momentanea reificazione dell’altro da parte dell’io, quando afferma che “ogni tu debba diventare un esso” . D’altro canto l’esso rappresenta una fase necessaria e transitoria di ogni relazione dato che “l’esso è crisalide, il tu è la farfalla” (ibid.p.71). La circolarità della dinamica relazionale mette continuamente in campo questo pericolo. Da crisalide a farfalla, mai una volta per tutte: sempre siamo nuovamente alle prese con la crisalide, che dobbiamo “superare”. Con un tu divenuto esso, da recuperare come tu.

    L’ uomo parla molti linguaggi : il linguaggio della parola, quello dell’arte, quello della relazione “ma lo spirito è uno solo , è risposta al tu che dal mistero appare, dal mistero appella. Lo spirito è la parola lo spirito non è nell’io ma tra l’io e il tu” (ibid. p.85).

    Ogni volta che Buber parla di io e tu, parla quindi implicitamente della parola per eccellenza e ”Per mezzo di ogni singolo tu la parola fondamentale interpella il Tu eterno. Da questa mediazione del tu di ogni essere giunge loro la pienezza e la non pienezza delle relazioni” (ibid. p.111).

    La parola io-tu attraversa continuamente il deterioramento “la disgregazione della parola è accaduta” ma allo stesso tempo chi crede nel potere della parola spera che essa potrà vincere sulla morte. Le parole di Buber in proposito fanno pensare al prologo giovanneo o comunque sottolineano la dimensione di continuità di quest’ultimo con la tradizione ebraica: “la parola esistente nella rivelazione, operante nella vita della forma, varrà nella signoria sui morti” (ibid. p.145 ).

    Come ogni singola relazione è costituita da luci e ombre così , lo sviluppo della storia attraversa momenti bui ma poi “ci sono i corsi e i ricorsi della parola eterna ed eternamente presente nella storia. I tempi in cui la parola appare sono quelli in cui il legame di io e mondo si rinnova; i tempi in cui regna la parola sono quelli in cui si mantiene l’accordo tra io e mondo. I tempi in cui la parola varrà, sono quelli in cui la sottrazione di realtà, l’estraniazione tra io e mondo, il divenire della fatalità giungeranno a compimento; il grande tremito e il fiato sospeso nell’oscurità e il silenzio che prepara” (ibid.p.146).

    La dimensione soprannaturale del discorso buberiano non esclude l’orizzontalità delle relazioni: “Dio sospende la propria assolutezza nella relazione in cui entra con l’uomo : l’uomo che gli si rivolge non ha quindi bisogno di distogliersi da un’altra relazione io –tu” (ibid. p.157). Il messaggio coinvolge quindi ogni uomo, salvo che il credente crede e lascia che tutto torni alla presenza di Dio, accetta che legittimamente Dio conduca a sé tutte le relazioni e ”lascia che si trasfigurino al cospetto di Dio” (ibid.).

    Nei discorsi sull’educazione il rapporto dialogico si concretizza nella direzione di dare sostanza alla prassi. Nella conferenza dal titolo Sull’educativo la necessità di una relazione educativa dialogica è al centro del ragionamento dell’autore: “Un rapporto dialogico si manifesterà anche nella autenticità delle conversazioni, ma non si costruisce su di esse. E ancora, non solo il tacere insieme di queste due persone è dialogo, ma il loro dialogo prosegue anche nel loro essere separati fisicamente, come se la continua potenziale presenza dell’uno per l’altro fosse comunicazione senza parole o gesti” (Buber 2009, p. 58) Il silenzio è quindi anch’esso dialogico, elemento costitutivo anche dei diversi tipi di Umfassung.

    Umfassung riassume la presenza dell’altro, la co-presenza di io e tu proprio come nel principio dialogico ricorre la parola io-tu.

    “Possiamo chiamare dialogico un rapporto tra due persone che, in misura minore o maggiore, è caratterizzato dall’elemento del contenimento” (ibid.). Umfassung, termine difficilissimo da tradurre può essere ragionevolmente tradotto grazie alla sinergia di tre termini : ricomprensione, contenimento, abbraccio. “I suoi elementi sono: primo un rapporto di qualche tipo tra due persone; secondo, un processo comune sperimentato da entrambi, al quale in ogni caso uno dei due partecipa attivamente, terzo, il fatto che questa persona, senza sacrificare nulla della realtà che sente nel suo agire, sperimenta il rapporto anche dalla parte dell’altro” (ibid.).

    Io e tu sono presenti, compenetrandosi ma non confondendosi, si comprendono (e quindi in un certo senso si colgono reciprocamente), si circondano uno dell’altro. L’io è diverso incontrando il tu e il tu è diverso incontrando l’io. Ci si ri-comprende reciprocamente, ci si contiene, pur rimanendo distinti e ognuno se stesso.

    Secondo Buber “Il rapporto educativo è puramente dialogico” (ibid. p.60) Prende origine dal rapporto tra il neonato e la madre. “ Il bambino che con gli occhi semichiusi cerca la madre aspettando con ansia di sentire la sua voce” aspira non già alla soddisfazione di un bisogno ma alla relazione. Oltretutto nei rapporti sani, che danno forza per tutta la vita i “bambini non hanno bisogno di aspettare: perché sanno di essere continuamente interpellati, in un dialogo ininterrotto. Di fronte all’incombente notte di solitudine, riposano sicuri e protetti, invulnerabili, nella corazza d’argento della fiducia“ (ibid.). L’essere interpellati in un dialogo ininterrotto è una esperienza che può cominciare prestissimo: quello con il neonato è il primordiale rapporto educativo che poi evolverà in modo talvolta faticoso. Il rapporto perderà di esclusività ma non di intensità. Altre figure assumeranno un ruolo educativo, con altri il soggetto sperimenterà la relazione educativa alla quale Buber fa riferimento quando parla del grande carattere.

    Dei tre tipi di Umfassung, disputa, relazione educativa e amicizia, la relazione educativa, di cui l’elemento di contenimento è appunto costituivo, non prevede che il discepolo percepisca il rapporto dal punto di vista dell’educatore, altrimenti il rapporto diventerebbe di amicizia. L’educatore deve invece fare di tutto per percepire la realtà dalla parte del discepolo perché solo così può contenere. Questa è credo la grande sfida di Buber alla dimensione dialogica dell’educazione. La parola si fa in quest’ottica dialogo educativo, atto educativo e anche e soprattutto nel silenzio e nell’implicito (“educare come se non lo facesse”) prägt (forgia, imprime) e rimanda a qualcosa che ci trascende. La fatica dell’educare può trarre consolazione dalla prospettiva buberiana della parola io-tu e dalla responsabilità che per ogni relazione, e per quella educativa in particolare, ne deriva. Allo stesso tempo si può ragionevolmente ritenere che, come nella relazione amorosa, il discepolo che ha provato anche una sola volta una vera esperienza di Umfassung nella relazione educativa, possa sentire che questa gli “rende l’altro presente per sempre” (ibid. p. 57).

    Riferimenti bibliografici

    Aluffi Pentini (2010) “Traducendo Buber: una ricerca di significati dell’agire educativo” In Aluffi Pentini A., W. Lorenz (2010) In-Beziehung-Treten Dialogo e cammino Rileggere Martin Buber , Bolzano, LUB.
    Buber M (1993) Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Torino.
    Buber M (2009) I discorsi sull’educazione, Armando, Roma, a cura di A. Aluffi Pentini.
    Freire P. (1967) L’educazione come pratica della libertà, Mondadori, Milano.
    Hillesum E. (1985) Diario, Adelphi, Torino.
    Magris C (2002) Il significato latitante in Dietro le parole, , Garzanti,Torino, pp. 349-354.
    Milani L. (2005) La parola fa uguali, Libreria editrice fiorentina, Firenze.
    Sali R. (2009) Rieducazione del linguaggio, Universitaria, Roma.
    Sacks O. (1991) Vedere voci. Un viaggio nel mondo dei sordi, Adelphi, Milano.
    Testa A. M. Testa (2000) Farsi capire, Rizzoli, Milano.


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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