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  • Percorsi di pedagogia della narrazione
    Dalle fonti orali alle nuove tecnologie
    Fabio Olivieri (a cura di)

    M@gm@ vol.8 n.2 Mai-Août 2010

    ASCOLTARE LA VITA


    Pietro Clemente

    pietro.clemente@unifi.it
    Antropologia culturale. Dipartimento di Storia delle arti e dello spettacolo. Università degli Studi di Firenze.

    1. Paraulas

    Di recente mi hanno colpito alcune cose pertinenti il raccontare. Nel libro di Caterina Di Pasquale sulla strage di Sant’Anna di Stazzema (Il ricordo dopo l’oblio, Roma, Donzelli, 2009) , realizzato come una polifonia di voci dalla memoria dolorosa dei sopravvissuti nel quadro dei recenti studi sulle stragi naziste in Toscana [1] un testimone del 1934, che aveva 10 anni nel momento della strage, viene visitato dall’autrice del libro, nell’attesa la moglie le dice “ Sono pochi anni che ha cominciato parlarne” (pag. 17). Si parla di qualcosa successo 66 anni fa, di qualcosa di terribile, di pubblico, di collettivo. Io avevo due anni allora. Un testimone comincia a parlarne dopo 60 anni: dopo l’oblio, quasi un ritorno della voce. Il Sindaco di quella comunità, che si è sentita abbandonata nel dolore e nel lutto, e le cui vicende e istruttorie chiuse in un armadio nascosto (“l’armadio della vergogna”sono riemerse alla pratica giudiziaria nel 2007, quando racconta del processo in cui sono emerse nuove testimonianze e nuovi racconti , dice di alcune donne testimoni che “riescono a testimoniare ora, andando quasi in trance e liberandosi di un peso che poi era quello della verità” (pag. 137). Verità nascosta, rimossa, negata. Caterina Di Pasquale chiama “cantastorie” i grandi testimoni che nella solitudine e nella marginalità hanno elaborato la memoria e il racconto della strage.

    Da qui comincia un discorso sul raccontare. “Davanti alla pietra” avrebbe detto un verso di Garcia Lorca, davanti alla verità della storia e a quella della morte.

    Per un antropologo, a contatto con le storie della vita, con i racconti inascoltati, con le scritture di famiglia o singolari che si fanno archivio (l’Archivio Nazionale Diaristico di Pieve Santo Stefano, quelli di Rovereto, Trento, Genova e oltre sono raccolte di storie diverse e formidabili) e chiedono attenzione, che ridisegnano mondi della vita (“La storia è imprevedibile” ho scritto per segnalare le nuove aperture del passato che queste fonti memorialistiche portano alla conoscenza) la tendenza a considerare lo “storytelling” come una forma nuova di spettacolarizzazione narrativa della storia o del racconto popolare, è come un pugno nello stomaco.

    Non abbiamo ancora compiuto come comunità nazionale quel mandato che negli anni 50 e 60 ci aveva lasciato l’eredità della resistenza e del neorealismo, e che De Martino interpretò come “vogliono entrare nella storia”, gli uomini dimenticati del Sud e dei nuovi sud, le donne, la gente della vita quotidiana. Non è stato compiuto il mandato di dare la voce alla gente, anzi esso è stato oggetto di violenza mediatica, e già degli attori professionisti ora si fanno voce, mediano quelle testimonianze fatte davanti alla morte, e le trasformano in spettacoli fatti davanti ai consumatori di tempo libero?

    La parola narrata ha una dimensione sacra: lo sentiamo quando, nel libro Nisa, l’antropologa americana M. Shostack, fa emergere dal registratore e trascrive la storia della vita di una donna Kung del Kalahari, che ha raccontato gelosie, amori, caccia ai conigli con archi di legno, raccolta di noci di mongongo. E quella donna Kung, Nisa per convenzione, sa, ha capito che il suo lavoro di memoria resterà in altri mondi e altre terre, come quello di Sherazade che raccontava, anche lei, sfidando ogni sera la morte.

    In sardo, in provenzale, “Paraula, paraulas” significa anche parole, ma soprattutto ‘racconti’, parabole, metafore, parole che hanno un peso speciale.

    Quando ascoltiamo le voci della vita non c’è spettacolo, c’è il sacro della vita umana. E per chi ascolta – come a noi capita per mestiere – è preso dalla grandezza dei racconti della vita, dalle possibilità dell’umano che in esse si schiudono [2]. Si sente che la parola è difficile, pesante, non è acqua, come nel proverbio toscano, che irride del vino acquato dei contadini: ”Acquerello e parole se ne fa quanto si vuole”.

    Scriveva J.Lacan nell’apertura del suo classico e misterioso Le parole e le cose: “La parola salva e uccide”.

    Tengo con una certa venerazione la videocassetta in cui Dina Mugnaini, ex contadina mezzadra di San Gimignano, racconta la storia della morte del suo primo figlio, e il sogno ricorrente che fa e che ci dice ancora quarant’anni dopo da quell’evento riaprendo la cicatrice che c’è nella sua anima. Racconto che uscendo dall’angoscia solitaria del dolore e comunicandosi a noi, a me, si è fatto possibile storia pubblica. Oggi che Dina è morta quel racconto fa parte del grande camposanto di narrazioni che è la memoria di chiunque di noi sia fatto di ricordi, come io sono.

    Se il racconto si allontana dalle serate della veglia [3] contadina, dalla trasmissione dei nonni verso i nipoti, dai monumenti e dai giuramenti, e si fa palcoscenico forse si perderà il dialogo che ha con la vita e con la morte.

    Riconosco nella voce di Ascanio Celestini che mi parla da un CD lo stile dei narratori a veglia dei miei studi sulla fiabistica, anche i miei nipoti, nati con il videoregistratore e il computer colgono ‘l’evento della voce’, ma il suo racconto acquista senso se raccontiamo anche noi ai nipoti, se la parola spettacolo riattiva la parola familiare, generazionale, che sta nelle strutture e nelle intercapedini della vita quotidiana. Ascolto la voce di Elisabetta Salvatori che in Toscana si è proposta come narratrice per eredità femminile di nonna, la sua voce, che incanta adulti e pubblico esigente, parla anche delle stragi di Sant’Anna, parla dell’emigrazione, dei contadini, parla con altre voci , valorizza altre voci. In un saggio dedicato a Bruno Bettelheim, e al suo Il mondo incantato, anni fa scrivevo che è finito il tempo di interpretare le fiabe e che è tornato il tempo di raccontarle [4]. Qualsiasi attività culturale, che non abbia come scopo la restituzione della parola e del racconto ai protagonisti della vita, è ambigua. Rischia di avere odore di narcisismo e di diritti d’autore, di individualismo e di vendite, di guadagno e di lavoro. Cose non certo negative in sé, ma solo nel momento in cui lo ‘storytelling’ diventasse circuito specializzato, riservato, sottratto, non impegnato nella restituzione e valorizzazione delle fonti alle fonti. Nel dirlo riprendo, interamente cambiato in quasi tutto il mondo, il programma che fu di Gianni Bosio e dell’originario progetto del Canzoniere Italiano e poi dell’Istituto De Martino, che era quello di restituire alle classi non egemoniche le proprie forme di espressione, sottraendole sia alla dimenticanza che al mercato, mantenendo vivo il pluralismo creativo delle forme, salvandolo dal destino dei vini costretti alla ‘pastorizzazione’. Mi piacerebbe che voci come quella di Celestini e di Salvatori facessero da mediatrici delle migliaia di voci che non si esprimono nelle famiglie, nel sistema mediatico, nella trasmissione della conoscenza.

    2. Il museo in corpo

    Mi piace anche il Museo di Palazzo Vecchio, dove trovi Lorenzo de’ Medici che fa quattro chiacchiere con te e magari ti dice che non ha l’acqua in casa e cosa mangia. E’ un problema di comunicazione della differenza storica quello che gli attori che fanno le veci di Lorenzo affrontano. Ma non è quella l’unica strada della comunicazione museale. Con molte discussioni, ma infine con largo consenso, la sperimentazione di una forma importante di comunicazione è stata fatta al Museo della Resistenza di Fosdinovo, da Studio Azzurro, o al Museo della Resistenza di Torino da un altro soggetto che allestisce musei comunicativi, è la scelta di dare la voce ai protagonisti, con i volti dei narratori su grandi schermi, in dialogo elettronico diretto col visitatore. Dagli schermi ci parlano uomini e donne e parlano di sé a vent’anni, a quindici, a trenta, raccontano di montagne, morti, scontri, giuramenti fatti da loro, non da attori che ne facciano le veci.

    Li sentiamo vicini. Ascoltiamo, stupiti, la vita. Il signor Riva nel MEAB, Museo Etnografico dell’Alta Brianza, comunica il suo museo come se lo avesse nel corpo. Parla delle cose esposte come di pezzi della sua vita. “I bachi da seta li mettevamo nel corpo per tenerli caldi, le donne nel seno, e anche noi bambini qualche volta nelle vesti” . Ci disgusta a volte la verità di quelle vite lontane, ma la guida ci aiuta a passare il ponte col passato, a vederlo fatto di bambini, di donne, di progetti. Mi colpisce che Riva abbia il museo nel corpo, ma il museo in quanto memoria del tempo è incorporato, la memoria è corpo. Forse anche per questo il racconto della vita dà stupore, perché si coglie che è nel corpo, che lascia cicatrici, che la luce degli occhi di chi racconta viene cambiata dalle cose che la bocca racconta e che vengono dalle vene, dai polmoni, dal cuore. Nelle storie di miniera, avere la miniera in corpo è la silicosi. Avere il museo in corpo è invece l’ossessione autobiografica di chi lotta contro la smemoratezza.

    Il corpo è come ‘posseduto’ dal bisogno di racconto, come nella Ballata del vecchio marinaio di Coleridge tradotta - nel messaggio finale- da Primo Levi, che la fece sua:

    “Dopo di allora, ad ora incerta,
    Quella pena ritorna,
    E se non trova chi lo ascolti
    Gli brucia in petto il cuore”

    Per Riva la volontà di testimonianza coincide quasi con la vita, è ‘la sua malattia’, nel museo c’è il tempo che sta nel fondo dei suoi ricordi del suo essere quello che è. Per me vedere il museo incorporato nella memoria del testimone è stata una esperienza forte di alterità. Quasi surrealista ( la comunicazione museale moderna recupera gli scarti e i giochi di scombussolamento dei codici) perché quei bachi li vedevo addosso a Riva, alle sue donne di casa, lo vedevo impugnare la sua zappa. Ma questo mio vedere il museo attraverso la sua vita è qualcosa che ai miei occhi lo ‘ri-allestisce’. La sua voce, al contrario di quelle delle audio guide (un po’ professorali, neutre, con parole di gergo, lunghe) è ‘paesaggio’ museale, riveste gli oggetti, li anima come in un racconto di Andersen.

    La visita di Riva è quasi estrema, ma dice che il Museo non comunica senza far vivere la differenza, la sofferenza, la distanza dal presente. Se non inquieta il museo finisce per essere edificante, tranquillizzante.

    Nell’ultima conferenza, Irving Goffman [5], ci lasciò un messaggio critico forte sulla comunicazione dell’intellettuale come atto istituzionale, intriso di potere. E’ come se Riva parlando per coloro che Bosio chiamava ‘ceti non egemonici’ rompesse il circuito del potere istituzionale, quello che spesso abbiamo noi ‘professori’.

    La comunicazione riuscita lascia una traccia di dolore, una ferita si riapre, il mondo appare meno concluso, e ancora aperto al fare umano.

    L’esperienza più forte e surreale di comunicazione museale che mi è capitato di provare, è stato nel museo Guatelli, che non era una casa museo, ma un museo-casa, incorporava generazioni di antenati contadini mezzadri che avevano vissuto, faticato, sofferto e amato proprio lì. Ettore Guatelli ci teneva a dire anche ‘amato’ per non fare dei mezzadri dei marziani. Diceva che sua mamma e suo papà facendo l’amore nel pomeriggio facevano scricchiolare il letto e venivano sentiti dalla cognata arcigna e gelosa che poi rimproverava lei, e le diceva che non lavorava abbastanza. Storie di famiglie multiple co-residenti.

    Nei locali, oggi parte del percorso museale Ettore diceva, e noi ripetiamo ad altri ora che è morto, qui sono nato io, qui dormivano i miei genitori, questa era la stanza dello zio Josfet, quello che all’ospedale cercava i vitelli sotto il letto, tanto era abituato a vivere in simbiosi con la stalla. Mi colpì soprattutto un giorno,
    in cui transitavamo con i miei allievi di Siena a fianco della casa padronale, ed Ettore ebbe un guizzo di memoria: “ lassù, dietro le persiane della casa padronale, a due passi da quella dei contadini, c’era spesso la padrona che ci controllava, io andavo sulla strada, mi vedeva: Ettore?! Che fai Ettore?! Non andare alle noci eh! - No signora padrona vado sulla strada provinciale, mi ha chiamato lo zio…”.

    In quello spazio-tempo narrativo il passato era tornato, e noi avevamo sentito l’emozione dolorosa di un bambino tornato ad aggirarsi tra i fantasmi della sua infanzia, avevamo capito il senso di limite e di servitù che un cucciolo d’uomo contadino apprendeva come normale nel crescere in quel mondo. Una sorta di dolore del tempo, di bisogno di pietas, di scuse per non esserci stati, per non avere protestato contro quell’ingiustizia, per noi che eravamo stati testimoni di questa improvvisa comparsa del passato nel presente. E’ molto difficile fare i conti col passato storico e con le sue condizioni sociali e morali. Ma senza una ‘ferita nella sensibilità’ non c’è speranza.

    3. Il racconto e il dolore

    La mia vita di studioso, nella parte che ho trascorso nel senese e in Toscana, è stata basata per molti anni, e via via ne ho preso coscienza, sul raccogliere le voci degli altri, fare mie testimonianze di dolore e di lotta, storie di vita di donne e di uomini, ma soprattutto di donne. In questa terra, io che venivo dalla Sardegna dei minatori e dei pastori, ho imparato il valore della memoria dei contadini. Ne ho scritto largamente, ma ho ancora un debito di restituzione perché questa memoria, che ho avuto l’opportunità di ascoltare, per le caratteristiche del mio mestiere di antropologo ‘ascoltatore di voci’, si è inabissata nella dimenticanza. E il sospetto che dà vita alla mia riflessione è che le donne , produttrici della memoria nelle mie interviste, le donne che sole raccontano la vita, l’amore, la nascita, il dolore, siano state anche le principali protagoniste della dimenticanza. In ogni caso è facendo ricerca a Siena che ho capito che la memoria della vita quotidiana è propria delle donne, che gli uomini raccontano la leva e la guerra, la militanza e la lotta, ma non il mondo della vita. Nel mio insegnamento a Firenze ho introdotto sistematicamente le interviste ai propri nonni da parte degli studenti che fanno un secondo esame di antropologia. Esse mostrano che sono ancora vive le radici contadine della Toscana, che tanti nonni erano contadini, che l’esperienza della guerra, dei tedeschi in casa, dello sfollamento, delle stragi nei paesi di campagna e di montagna è ancora una ferita aperta nella memoria, che spesso i nipoti (talora scoprono la storia dei nonni nel fare l’esame di antropologia) accolgono come una narrazione nuova e una nuova fondazione, le storie dei nonni. E’ stato François Lyotard , filosofo francese della post-modernità, a parlare di ‘riaprirsi della ferita’ come segno della autenticità delle esperienze. [6]

    Anche io ho incorporato qualcosa che ora sento anche mio, insieme alle storie fondatrici della mia vita mi sento ‘abitato’ dalle memorie dei testimoni che ho ascoltato, cui ho dato forse una promessa di ‘entrare nella storia’. Sono abitato soprattutto da storie di donne, e di esse sono un emblema due grandi storie che sono diventate libri.

    La storia di Dina [7] e la storia di Delia [8], entrambe contadine mezzadre l’una a San Gimignano, e l’altra a Buonconvento, una protagonista di una lotta familiare contro la suocera che la porta a lasciare la terra, l’altra protagonista di un’esperienza militante e formativa che la porta a diventare funzionaria del Partito Comunista e deputata regionale. La prima, sollecitata dall’antropologa Valeria Di Piazza, si fa narratrice orale e la sua lingua trascritta si traduce in una sorta di letteratura vernacolare ricchissima, la seconda impara a governare la scrittura e racconta, scrivendo, la propria vita come esperienza da trasmettere, tra dolore e pudore.

    Quelle storie abitano e guidano la mia memoria di studioso che tanti anni fa è venuto dal mare e che ha trascorso gli anni dei suoi studi nella nuova terra di adozione a raccogliere voci dalla memoria. Straniero, abitato da memorie native. Maschio abitato da memorie di donne . Mistero della narrazione che si fa carne e sangue.

    4. Mi pregavano di raccontare

    L’espressione di Ernesto De Martino nelle Note lucane [9] relativamente alla “volontà di storia dei contadini lucani” ci ricordano i nostri temi:

    “mi pregavano di dire, di raccontare, di rendere pubblica la storia dei loro patimenti…Dite, raccontate…Essi vogliono entrare nella storia…anche nel senso che…le loro storie personali cessino di consumarsi privatamente…siano notificate al mondo, acquistino carattere pubblico…e formino così tradizione e storia
    ” (De Martino …)

    De Martino si riferisce a una Lucania anni ’50 che è entrata nel mito di fondazione dell’antropologia italiana, e che resta una grande metafora della ricerca, ma che va aggiornata alla nuova democrazia antropologica e narrativa che viviamo a partire dagli anni ’90 del Novecento : ci sono nuove soggettività che si esprimono autonomamente. Dare ad essi la propria voce cede il posto a dare loro direttamente la voce.

    Su questo si aprono nuove riflessioni. L’antropologia tende a mettere in risalto gli ‘attori sociali’ e la loro ‘agency’ . Anche le scene del racconto e della testimonianze ne sono mutate. Resta fondamentale per me il passo di Ernesto De Martino che più volte ho definito il mio giuramento di Ippocrate:

    Ma io entravo nelle case dei contadini pugliesi come un ‘compagno’, come un cercatore di uomini e di umane dimenticate istorie, che al tempo stesso spia e controlla la sua propria umanità, e che vuol rendersi partecipe, insieme agli uomini incontrati, della fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti, io che cercavo e loro che ritrovavo[10] (pag. 59).

    Non è cambiato molto nel metodo della ricerca, nella sua etica, ma è il protagonismo dei soggetti che entra ora nel mondo globale, si fa complesso, chiede contesti critici nuovi.

    Il messaggio che connette il racconto con il dolore si fa anch’esso difficile, continuamente negoziato. Vale anche per me quel che ho scritto a proposito di Ascanio Celestini, una pratica diffusa di riappropriazione della voce da parte della gente della vita quotidiana non c’è stata. Nonostante i loro libri, l’uno scritto l’altro trascritto, Delia e Dina sono rimaste nella nostra mediazione di studiosi, nella coscienza dei nostri allievi. Potevamo fare di più perché narrassero direttamente e pubblicamente? Forse potevamo. Certo è una strada che non possiamo separare da quella della loro presenza nei nostri studi, nei nostri ricordi. Il potere della “conferenza” è nella nostra voce di accademici e intellettuali, noi raccontiamo i loro racconti, come gli attori, come gli ‘storytellers’. E così si confondono sono ambigui i discorsi. Chi è il Vecchio marinaio? E’ Dina che ha raccontato il dolore o sono io che lo trasmetto?

    Siamo ancora davanti alla figura fondativa della narrazione , la riprendiamo dall’originale e da un’altra traduzione (di Beppe Fenoglio):

    Since then, at an uncertain hour,
    That agony returns:
    And till my ghastly tale is told
    His heart within me burns

    Da quel momento
    A un’ora imprecisa,
    Quell’agonia mi torna;
    E fino a che non ho detto la mia storia
    Di morti, dentro il cuore mi brucia

    La traduzione di Fenoglio sembra ancora più vicina al messaggio di Levi e al nostro problema: agonia, storia di morti. Al centro sono le parole ‘tale’, ‘storia’.

    Morti, sono anche molti testimoni che hanno raccontato e che abitano le nostre memorie di studiosi. Da qualche anno l’esigenza, la missione forse , di dare una nuova pubblicità alla storia di Dina Mugnaini mi chiama all’attenzione , si fa presente. E chiama la mia attenzione a una filologia e a una filosofia delle fonti del racconto ‘sociale’. Richiamare l’attenzione alle differenze, agli originali, alla scrittura popolare, al racconto della gente comune, non è ancora acquisito dalla cultura corrente. E’ come se le voci comuni occupate da Raffaella Carrà, da Maurizio Costanzo, da Castagna, da Maria De Filippi, che hanno costruito il loro successo televisivo su di esse, chiedessero di far tacere il potere più forte del messaggio mediatico per essere sentite. E che solo nel silenzio di quello strumento potente di emissione possa ritrovarsi un filo, un senso, che dica anche le ambiguità, le autonomie. Dal punto di vista dei mass media e dell’editoria la voce dell’intervistato e quella dell’intervistatore studioso non hanno molta differenza di potere, sono entrambe marginali. Se la televisione tacesse si potrebbero meglio definire gli ambiti del racconto, i portavoce e le voci dirette. Ettore Guatelli ha sempre cercato di essere ascoltato in televisione, ha fatto due apparizioni da Maurizio Costanzo, e poi è uscito dalla scena. Chi vede i suoi racconti del museo girati da film maker appassionati e curiosi, vede che ha una grande presenza scenica, immediatezza e sincerità di racconto. Avrebbe ‘bucato’ lo schermo se lo schermo non fosse stato già occupato .

    Lo storyteller professionista trasforma il racconto in consumo. Non è destino che sia così; forse può non farlo, come succede talora per le arti che la forza della vita e della morte si trasmetta per la potenza quasi sciamanica di un’opera. Ciò che dirime è il rapporto tra storia e dolore, tra racconto e ferita nella sensibilità.
    La memoria senza il conflitto, senza il dolore, senza la morte diventa edulcorata e buonista, invece la storia fa salti, apre scenari drammatici.

    Contro la smemoratezza e contro il passato come ‘macchietta vernacolare’, contro le epiche ideologiche che ricostruiscono ad hoc, che danno una idea del moderno come progresso e non come tendenza alla catastrofe, la polifonia dei racconti, la pluralità delle veglie è forse l’unica possibilità di contrasto alle voci unidirezionali che ci vengono da luoghi senza contatto con la vita.

    Una studentessa dei miei corsi di Firenze che ha intervistato un prozio contadino, reticente a raccontarle la sua vita perché non si sentiva legittimato a farlo per una ricerca universitaria, dopo avere raccontato l’infanzia e il lavoro tra guerra e dopoguerra si rende conto di avere raccontato la sua storia e conclude:

    Spero tu faccia sentire la mi storia a quarche d’uno di importante…o per lo meno a quarche d’uno perché la mi storia mai nessuno si è interessato fino a oggi…e la storia quella con la esse maiuscola e la un si fa solo con le storie di quelli belli ricchi e signoroni ma con quelli che gli hanno patito la fame come me e che di signore e un aveano proprio nulla”.

    La nipote nel suo commento lo definisce un antastorie. Con i ‘cantastorie’ della strage di Sant’Anna di tazzema avevamo cominciato. Forse la parola ‘cantastorie’ (ma anche la parola ‘contastorie’ presente con un genere diverso ma sempre epico nella cultura popolare), richiamando alla nostra cultura ‘altra’, ai generi del mondo pre-moderno, viene usata per rimarcare l’alterità della narrazione, rispetto ai linguaggi comunicativi prevalenti, e viene preferita alla parola ‘storytelling’, che annuncia un nuovo anglismo, dal campo semantico largo e ambiguo, almeno nel suo trasferimento nella lingua italiana.

    La parola ‘cantastorie’ è usata in un senso metaforico ed è utile a rivendicare il radicamento delle ‘umane dimenticate istorie’ nel nostro humus culturale vitale.

    Note

    1] P.Clemente, F.Dei, a cura, Poetiche e politiche del ricordo. Memoria pubblica delle stragi nazifasciste in Toscana, Roma-Firenze, Carocci – Regione Toscana, 2005.
    2] P.Clemente, Ascoltare in Antropologia Museale 22, 2009, L’antropologo che intervista .Le storie della vita in M.Pistacchi ( a cura) Vive voci. L’intervista come fonte di documentazione, Roma, Donzelli, 2010.
    3] F.Mugnaini, La mazzasprunigliola . La tradizione del racconto nel Chianti senese, L'Harmattan Italia, Torino, 1999.
    4] P. Clemente, L’undicesima glossa: racconti sul raccontare, in V.Ongini, a cura, Chi vuole fiabe, Chi vuole?Voci e narrazioni di qui e d’altrove, Firenze, Idest, 2002.
    5] I.Goffman, La conferenza in Forme del parlare, Bologna, Il Mulino, 1987.
    6] F. Lyotard, Glossa sulla resistenza in Il postmoderno spiegato ai bambini , Milano, Feltrinelli, 1987.
    7] Valeria Di Piazza, Dina Mugnaini, Io so’ nata a Santa Lucia.Il racconto autobiografico di una donna toscana tra mondo contadino e società d'oggi, Castelfiorentino, Società storica della Valdelsa, 1988.
    8] Delia Meiattini, Le barriere invisibili, storia di una donna contadina dalla terra alla politica, Siena, Tipografia senese, Comitato di Ente PO Comune di Siena, 1997.
    9] E. De Martino, Furore simbolo valore, Milano, Feltrinelli, 1980.
    10] E. De Martino, Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni in R.Brienza, a cura, Mondo popolare e magia in Lucania, Roma – Matera, Basilicata editrice, 1975.


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