Percorsi di pedagogia della narrazione
Dalle fonti orali alle nuove tecnologie
Fabio Olivieri (a cura di)
M@gm@ vol.8 n.2 Mai-Août 2010
EDUCARE ALLA CITTADINANZA DIALOGANDO: IL RUOLO DEL CURRICULUM IMPLICITO
Diego Di Masi
diegodimasi@gmail.com
Dottorando in Scienze Pedagogiche,
dell'educazione e della formazione. Dipartimento Scienze dell'educazione.
Università di Padova.
Chi decide qualcosa
senza aver sentito l’altra parte,
ammesso che abbia deciso la cosa giusta, non è stato giusto.
(Seneca)
Con la legge n° 169 del 30 ottobre 2008, si introduce nella
scuola l’insegnamento Cittadinanza e Costituzione. Questa
nuova legge - in continuità con quelle precedenti, che dal
1958 hanno cercato di strutturare una disciplina che avesse
come obiettivo l’educazione del cittadino - definisce, oltre
al monte ore, anche gli obiettivi di apprendimento e le situazioni
di compito per la certificazione delle competenze personali
acquisite dall’alunno. Nel momento in cui l’educazione alla
cittadinanza diventa una materia autonoma dalle altre (con
un orario, un programma e con la possibilità di contribuire
alla valutazione dell’alunno con un voto proprio), come ogni
altro percorso educativo, soprattutto quando inserito in una
struttura disciplinare, può essere letta sia nella sua dimensione
di curriculum esplicito: insieme dei contenuti disciplinari
che devono essere appresi dall’allievo, che come curriculum
implicito: il contesto relazionale e clima scolastico, dentro
il quale tale percorso di sviluppa.
In questo articolo presento una riflessione sul tema dell’educazione
alla cittadinanza come percorso educativo che intende superare
l’enfasi sul curriculum esplicito, che rischia di ridurre
l’esercizio della cittadinanza alle sole conoscenze di carattere
giuridico/istituzionale (sapere quali sono le diverse cariche
dello Stato, sapere qual è l’iter di una legge, …), per valorizzare
il ruolo del curriculum implicito nella formazione del cittadino.
Sostenere le ragioni a favore del curriculum implicito, ovvero
l’insieme delle relazioni interne all’ambiente scolastico,
la cultura e il clima della scuola in generale e della classe,
non significa ridurre o sminuire il ruolo del curriculum esplicito,
che è e rimane fondamentale. È necessario sostenere le ragioni
del curriculum implicito perché oltre al “sapere” e al “saper
fare”, l’educazione alla cittadinanza si pone come finalità
educativa il “saper essere”, obiettivo che rende necessario
pensare percorsi che favoriscano esperienze di partecipazione
ed esercizio della democrazia. Democrazia che va dunque intesa,
non solo come forma di governo, ma come procedura che struttura
il contesto, come metodologia da seguire per prendere delle
decisioni collettive. (Bobbio, 1985).
L’obiettivo di questo articolo è proporre una riflessione
per pensare interventi educativi per l’educazione alla cittadinanza
mirati al potenziamento del curriculum implicito che metta
al centro l’attività del filosofare [1] a
scuola e che privilegi il dialogo e l’esperienza filosofica
in chiave formativa. In una impostazione, che interpreta la
democrazia come partecipazione a pubbliche deliberazioni (Crocker,
2006), trasformare la classe in una comunità di ricerca filosofica,
basata sul pensiero critico, creativo, valoriale (Lipman 2003)
e sull’ appropriazione di competenze argomentative (Santi,
2006a), diventa un’occasione per promuovere contesti e metodologie
di lavoro, utili alla costruzione di consenso ragionevole
e propedeutiche alla formazione di cittadini capaci di partecipare
in modo autentico a processi volti alla “giusta” deliberazione.
D’altra parte, come sostiene Audigier, le abilità argomentative
e quelle riflessive costituiscono quelle competenze civiche
di tipo procedurale, che lo stesso Parlamento Europeo e il
Consiglio raccomandano di perseguire per “dotare le persone
degli strumenti per partecipare appieno alla vita civile grazie
alla conoscenza dei concetti e delle strutture sociopolitiche
e all’impegno a una partecipazione attiva e democratica.”
(Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del
18 Dicembre 2006).
A partire dalla lettura del Protagora di Platone e prendendo
spunto dal dialogo tra Socrate e Protagora circa la possibilità
o meno di insegnare la virtù politica, presenterò alcune riflessioni
relative alle competenze necessarie all’esercizio autonomo
del diritto alla cittadinanza che possono essere acquisite
attraverso la pratica della discussione filosofica in comunità
di ricerca [2].
L’importanza del curriculum implicito può essere interpretato
attraverso l’analogia che è possibile ricavare dalla lettura
del Protagora, uno dei dialogo platonici dedicati all’insegnabilità
delle virtù politiche. L’analogia risiede nel fatto che dalla
lettura del dialogo è possibile far emergere un’enfasi della
procedura e del contesto sul contenuto, in particolare della
modalità di discussione sulla virtù sulla definizione di ciò
che è virtuoso.
Quando Socrate domanda a Protagora cosa insegnerà a Ippocrate,
in cosa Ippocrate sarà migliore a partire dal giorno in cui
inizierà a seguire i suoi insegnamenti, Protagora risponde
che oggetto del suo insegnamento “è la facoltà di prendere
decisioni accorte nelle questioni private – come possa cioè
amministrare nel modo migliore la propria casa - e in quelle
pubbliche – come possa cioè essere più idoneo a trattare gli
affari dello stato con la parola e con l’azione”. Protagora
afferma, dunque, che è in grado di insegnare agli uomini la
facoltà di prendere decisioni.
Nella sua argomentazione Protagora sostiene che le virtù siano
insegnabili in quanto l’essere umano concepisce la punizione
e il castigo in chiave preventiva. Afferma Protagora “chi
si appresta a punire secondo ragione castiga non per l’azione
ingiusta già commessa – non potrebbe certo annullare quello
che stato fatto! – ma in vista del futuro, perché non commetta
nuovamente ingiustizia né lo stesso individuo né un altro,
vedendo punito il primo. E chi ha un pensiero del genere pensa
che la virtù sia il risultato dell’educazione: punisce dunque
per prevenire.” Per Protagora, dunque, se l’uomo non fosse
in grado di imparare le virtù a nulla servirebbero le punizioni.
Per Socrate, invece, la prova che la virtù non sia una facoltà
che l’uomo possa apprendere risiede nel fatto che gli uomini
virtuosi non riescono a rendere migliori i propri figli. Non
è dunque grazie all’insegnamento che l’uomo diventa virtuoso.
Cosi inizia il confronto tra Socrate e il sofista Protagora.
Al termine del dialogo, però, le due posizioni risultano invertite
ed è lo stesso Socrate a sottolinearlo “Siete ben strani,
Socrate e Protagora! Tu, mentre affermavi che la virtù non
è insegnabile, ora ti affanni per contraddire te stesso, cercando
di dimostrare che ogni cosa – giustizia, saggezza, coraggio
– è scienza: ed è proprio questo il modo perché la virtù risulti
insegnabile! Infatti se la virtù fosse qualcosa di diverso
dalla scienza, come cerca di affermare Protagora, evidentemente
non sarebbe insegnabile; se invece risulterà in tutto e per
tutto scienza, come tu, Socrate, ti sforzi di dimostrare,
sarebbe ben strano se non fosse insegnabile. Protagora, dal
canto suo, che all’inizio partiva dal presupposto che fosse
insegnabile, ora sembra premuroso di sostenere il contrario,
cioè che la virtù può apparire pressoché tutto, fuorché scienza:
e, in questo modo, non potrebbe essere affatto insegnabile”.
Benché le due posizioni iniziali siano nette e contrapposte,
alla fine del dialogo i due filosofi si trovano a sostenere
la posizione che inizialmente avevano contestato e, come sottolinea
Dorati nella sua introduzione, “al termine della lettura non
si può fare a meno di registrare l’impressione che l’analisi
delle virtù non abbia costituito lo scopo principale di Platone
nella composizione del dialogo e che, in sostanza nel corso
del Protagora l’attenzione sia stata focalizzata più sulle
modalità della discussione tra i protagonisti che su un preciso
oggetto”.
Tradotto in un discorso didattico-educativo, il dialogo sull’insegnabilità
delle virtu, cosi come ci viene raccontato da Platone, sembra
mettere al centro il ruolo del curriculum implicito. Nella
definizione di “modalità di discussione”, infatti, possiamo
far rientrare diversi aspetti. In primo luogo Protagora e
Socrate decidono di parlare di fronte ai presenti, in un dibattito
pubblico. Secondo, dopo aver sistemato la sala in modo tale
da discutere e assistere alla discussione stando seduti, viene
stabilito l’oggetto della discussione. Terzo, Protagora chiede
ai convenuti se preferiscono che le sue ragioni vengano illustrate
per mezzo di un racconto (il mito di Prometeo) o “esponendo
gli argomenti per mezzo di un discorso”. Infine vengono stabilite
le regole della discussione.
Questi aspetti, contribuiscono a rendere ancora più significativo
questo dialogo ai fini della nostra riflessione sull’educazione
alla cittadinanza, perché sembrano valorizzare il ruolo delle
procedure e dei contesti di apprendimento. Gli astanti apprendono
le virtù politiche non tanto dai contenuti veicolati durante
la discussione, ma da come viene condotta la discussione stessa:
scelta di un dibattito pubblico nel quale viene deciso oltre
al tema di discussione anche le modalità e le regole che si
devono seguire.
Le “modalità di discussione” scelta da Socrate e da Protagora
sembrano offrire un modello per la costruzione delle competenze
di cittadinanza in linea con le attuali ricerche in ambito
educativo. “Affinché gli studenti siano effettivamente incoraggiati
a mettere in atto le proprie competenze nella partecipazione
attiva alla vita e ai processi decisionali della scuola sono
necessarie alcune condizioni. […] La scuola nel suo complesso
dovrebbe caratterizzarsi come ambiente di apprendimento aperto
e democratico. E questo coinvolge l’insieme delle relazioni
interne alla scuola, il clima e la cultura della scuola, il
clima di classe.
Come è stato messo in evidenza dai risultati delle indagini
comparative promosse dall’IEA (International Association for
Evaluation of Educational Achievement), sembra esistere una
relazione diretta tra clima di classe aperto alla discussione
e atteggiamenti e disponibilità degli studenti a partecipare
alla vita della scuola e tra clima di classe e senso di autoefficacia
degli studenti. […] Inoltre, poiché l’educazione alla cittadinanza
coinvolge anche le dimensioni affettivo-motivazionale e valoriale,
è necessario che il contesto scolastico sia coerente con i
valori di una società democratica.” (Losito, 2009). La modalità
di discussione seguita dai due filosofi offre all’auditorio
un modello culturale e dunque comportamentale da seguire,
questa modalità costituisce quella che in didattica rappresenta
la sfera socio-affettiva del curriculum implicito.
Per quanto riguarda, invece, la dimensione procedurale del
curriculum implicito, quella che mette al centro la performance
meta-cognitiva, volgiamo il nostro sguardo verso la figura
di Socrate il quale, nel dialogo platonico, rappresenta una
delle prerogative dell’attività filosofica: far emergere il
senso comune e metterlo in discussione. Quando Socrate esorta
Ippocrate a non lasciarsi raggirare dalle parole del sofista
è perché teme che sia Ippocrate che i suoi concittadini non
abbiano quello che oggi definiremmo pensiero critico, “un
pensiero ragionevole e razionale che ci aiuta a decidere in
cosa credere o cosa fare” (Ennis, 1962), ovvero una pratica
autocorrettiva guidata da criteri e sensibile al contesto
(Lipman, 2003). Questo tipo di pensiero, che il suo filosofare
sviluppa, è rivolto a costruire, insieme al suo interlocutore,
una condivisione di significati attraverso l’individuazione
di criteri che definiscono il senso di una parola o di una
espressione. Questo modalità - tipica del dialogo socratico
- di procedere per confutazione, al fine di eliminare quelle
ipotesi che risultano contraddittorie o infondate, è definito
maieutico che, nella sua origine etimologica, significa appunto
“tirar fuori”. Il domandare di Socrate porta alla luce il
noto, l’ovvio, il senso comune e lo mette continuamente in
discussione.
Il senso comune è l’ovvio, è ciò che consideriamo scontato,
è “quello che ognuno pensa che tutti pensiamo” (Jedlowski,
2008), è il pensiero collettivo nel quale siamo immersi.
Per Heidegger “il soggetto di questo pensiero è anonimo: io
penso come si pensa, dico quello che si dice, faccio quello
che si fa. Il soggetto non sono io: è si”.
La filosofia, quindi, nel suo mettere in discussione il noto,
è una pratica che permette al soggetto di uscire dall’anonimato,
dall’indeterminato si. Attraverso la pratica del dialogo filosofico
in comunità di ricerca i soggetti si nominano, si danno un
nome, affermano la propria esistenza e quella degli altri,
costruiscono le condizioni per essere chiamati e riconosciuti;
è questa peculiarità tipicamente filosofica di costruire “nuovi”concetti
di sé e del mondo anche attraverso lo sguardo dell’altro,
che rende cittadini. E’ attraverso l’espressione della propria
voce che l’uomo si emancipa. La voce è il segno dell’emancipazione
e la sua espressione diventa dirompente nella misura in cui
include chi abitualmente non la esprime. Cos’altro afferma
l’Articolo 12 della Convenzione dei Diritti delle Bambine
e dei Bambini - stabilendo il diritto del bambino ad essere
ascoltato - se non il principio del dare voce come fondamentale
per l’affermazione della dignità umana?
Il dialogo è dunque tanto politico, come luogo delle cittadinanza,
quanto etico, dove con il termine etico, si intende quanto
Agamben evidenzia a partire dall’origine etimologica della
parola. “Il termine greco Ethos, da cui deriva il nostro vocabolo
etica, è formato dal pronome riflessivo he (sé) e dal suffisso
–thos, con ciò si formano i sostantivi. Ethos significa semplicemente
‘seità’, cioè una relazione di sé con sé, o se si vuole l’operazione
e il processo attraverso cui si costruisce un sé. Non è possibile
etica senza relazione con sé, senza una ‘intimità’ attraversata
già da sempre dalla presenza di una alterità”. La voce che
fa vibrare nella comunità la parola filosofica, trasforma
il si in sé: l’essere umano dismette i panni del suddito e
del popolo, per indossare quelli del cittadino.
La discussione in una comunità di ricerca filosofica non solo
costituisce un contesto di apprendimento nel quale acquisire
le competenze civiche necessarie per partecipare in società
democratiche e plurali, ma anche un contesto performativo
dove mettere in gioco tali competenze. La comunità, in una
discussione filosofica, riacquista il suo significato etimologico
originario, dove il termine munus “è il dono che si dà perché
si deve dare e non si può non dare. […] il munus che la communitas
condivide non è una proprietà o un appartenenza. Non è un
avere, ma, al contrario, un debito, un pegno, un dono-da-dare.
[…] i soggetti di una comunità sono uniti da un ‘dovere’”
(Esposito, 2006). Il dovere che il parlante assume nel momento
in cui partecipa a una discussione è il dovere di dichiarare
le sue ragione a sostegno delle sue posizioni. Questo munus
può essere tradotto nella regola di Apel “Chiunque argomenta
si impegna a giustificare tramite argomenti le proprie pretese
di fronte agli altri”, oppure, con la regola pragmatica dell’Exploratory
Talk proposta da Wegerif, Mercer e Dawes “Sono richieste delle
ragioni”, o con le prime due regole dei dieci comandamenti
del buon argomentatore formulate da Van Eemeren e Grootendorts
che pongono l’accento sulla richiesta di ragioni a sostegno
delle tesi presentate e sull’obbligo di difenderle quando
richieste.
Il munus, il dovere che unisce i soggetti di una comunità,
è un dovere antidogmatico: in una democrazia non esiste una
autorità indiscussa alla quale appellarsi per costruire il
consenso, “dunque di ogni tesi virtualmente si deve poter
chiedere giustificazione.” (D’Agostini, 2010). Questa norma
di giustizia è inaggirabile nella pratica comunicativa razionale,
quanto nella comunicazione pubblica, “argomenta bene e sarai
giusto, sii giusto e argomenterai bene” sosteneva Socrate,
il quale, questa volta in sintonia con i sofisti, riteneva
che insegnare ad argomentare bene, avrebbe fatto prevalere
i migliori.
La proposta di un percorso di educazione alla cittadinanza
che insista sul curriculum implicito e che favorisca la partecipazione
diretta degli alunni in discussioni pubbliche finalizzate
alla deliberazione, non intende far prevalere i migliori,
non ha come obiettivo la formazione di una nuova aristocrazia.
La partecipazione ad una comunità di ricerca filosofica, sviluppa
la capacità di costruire non tanto argomenti “migliori”, quanto
argomenti “giusti”, dove per giusto intendiamo anche questa
volta non il contenuto quanto la procedura.
Una procedura che coinvolge l’altro e che lo impegna alla
costruzione argomentata e ragionevole di con-senso.
Note
1]
Per attività filosofica si intende “una attività riflessiva
che usa il linguaggio quotidiano e lo raffina per renderlo
capace di dare senso profondo al mondo e all’uomo” (Santi,
2006a).
2] La definizione
di comunità di ricerca e la concezione della pratica del filosofare
si riferisce al curriculum della Philosophy for Children.
La comunità di ricerca si caratterizza per essere orientata
verso una meta. Sebbene il suo percorso è aperto, la comunità
di ricerca “procede in vista di un prodotto, di una decisione
di un giudizio anche parziale e provvisorio. Segue una direzione
determinata dal senso dell’argomentazione, è dialogica e infine
“è la risultante di processi critici, creativi e insieme valoriali”
(Santi, 2006b).
Bibliografia
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Bobbio, N. (1985) Intervista "Che cos'è la democrazia?",
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Dorati, M. (1993) Protagora, Mondadori, Milano
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Lipman, M (2003), Educare al pensiero, Vita e Pensiero, Milano
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Santi, M. (2006a), Ragionare con il discorso, Liguori, Napoli
Santi, M. (2006b), Costruire comunità di integrazione in classe,
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Santi, M. (2007), Democracy and inquiry. The internalization
of collaborative rules in a community of philosophical discourse,
in D. Camhy (a cura di) Philosophical foundations of innovative
learning, Academia Verlag, Saint Augustin
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