Percorsi di pedagogia della narrazione
Dalle fonti orali alle nuove tecnologie
Fabio Olivieri (a cura di)
M@gm@ vol.8 n.2 Mai-Août 2010
IMPARARE A RACCONTARSI, RACCONTARSI PER IMPARARE
Ornella Martini
o.martini@uniroma3.it
Università Roma Tre. Facoltà di Scienze della Formazione e alla Facoltà di Lettere. Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento e Comunicazione di rete per l’apprendimento.
Questo contributo
costituisce un’ulteriore occasione per riflettere su un ambito
centrale della mia attività didattica e di ricerca intorno
e dentro le logiche e le modalità comunicative in Rete: Internet
come luogo nel quale si offrono molteplici e significative
opportunità di plasmare la propria, meglio le proprie, identità
attraverso la partecipazione e la condivisione, soprattutto
con la scrittura. Troppo spesso si parla di Internet come
di un universo caotico e corrotto, perverso e dispersivo,
nel quale le persone rischiano di perdersi o, peggio, di essere
trovate come prede; nel quale soprattutto i giovani dis-perdono
le loro potenzialità cognitive, sensoriali, emotive; nel quale
sempre soprattutto i giovani disimparano a scrivere. Per chi,
come per me, Internet è una dimensione quotidiana della propria
esperienza di vita, connessa dinamicamente alle altre dimensioni
della propria esistenza, poco o nulla di quei facili e ingiustificati
allarmismi ha fondamento. Al contrario, Internet è uno straordinario
laboratorio cognitivo ed esperienziale, alimentato in modo
incessante e giornaliero da milioni di esseri umani intorno
e dentro la scrittura. Proprio la Rete, dunque, contesto apparentemente
immateriale e incorporeo, ripropone la centralità della presenza
emotiva e carnosa del corpo come fondamento dell’esperienza,
anche dell’esperienza, si spera il più possibile avventurosa
e coinvolgente, della conoscenza. Proprio la Rete ripropone
la radice etimologica del termine “testo” come tessitura,
costruzione condivisa collettiva e molteplice, dei tanti che
al testo danno vita.
E qui vorrei riproporre un richiamo a un librettino, leggero
ma molto denso, intitolato Il Talmud e Internet.
Un viaggio tra mondi, una sorta di pamphlet autobiografico
di Jonathan Rosen, che apre squarci brevi ma molto intensi
su analogie tra mondi soltanto apparentemente così diversi.
Scrive Rosen: " Il mio computer ora è una porta di ingresso
su una galassia di parole che sono infinitamente più numerose
delle stelle del cielo o della sabbia del mare. … Ho la sensazione
che la vera sfida, che è anche una strategia, stia nel trovare
la totalità nell'infinitezza. … È possibile dunque vivere
(…) prendendo atto che il concetto stesso di padronanza, di
totalità è sempre stato una fantasia, come il Talmud del resto
non si è mai stancato di sottolineare". Questo a p. 42
e a p. 14, sulla natura intrinsecamente frammentaria, perciò
infinita del sapere mediata da libro (in quanto testum
ovvero trama, ordito) e/o da Internet: "Il termine ebraico
per trattato è massekhet che letteralmente significa
tessuto, trama. Proprio come per il World Wide Web, è la metafora
del telaio, antica e inclusiva, che riesce a catturare la
ricchezza e la casualità, l'infinita interconnessione delle
parole".
Ecco, la cultura nella quale siamo immersi tutti oggi, molto
spesso inconsapevolmente, recupera la natura aperta e condivisa
del testo, la sua connotazione di tessitura frammentaria ed
infinita, attraverso il lavorio e il chiacchierare collettivi
e partecipi di milioni di cyber-Penelopi. Le si adatta ancora
benissimo l'espressione di Ong “Oralità di ritorno” o “Oralità
secondaria”, per sottolineare l'intreccio tra i due sistemi:
quello dell'oralità primaria (oramai pressoché sparito, ché
se pure sopravvivono comunità non mai esposte agli effetti
della mentalità scrittoria, nel momento stesso dell'incontro
con l'eventuale studioso, avventuriero o viaggiatore queste
verrebbero immediatamente a contatto con modalità comunicative
e forme della scrittura, magari anche solo vedendo tracce
di marchi riprodotti sugli oggetti del nuovo arrivato) e quello
della scrittura. Sì, perché i due universi che noi siamo abituati
ad esplorare e a conoscere in forme decisamente ibride, sono
costitutivamente diversi, al limite, conflittuali; mentre
l'oralità è partecipazione pubblica, stabilità astorica, memoria
poetica, sonora e musicale, la scrittura quasi appare come
il completo opposto: è isolamento, addirittura, per Ong, “alienazione”
di sé scrivente dal sé scritto rappresentato nel testo (lettera,
diario, saggio, quel che sia); invenzione della storia come
modello di interpretazione, per lo più lineare, del mondo;
trasmissione di saperi organizzati nello “spazio tipografico”
(che la diffusione della stampa a caratteri mobili ha costituito
una sorta di vera e propria affermazione di una nuova era
delle forme di rappresentazione e di trasmissione del sapere,
esercitando un’egemonia così forte da imporre un’implicita
gerarchia tra i media, dalla quale risulta tanto più superiore
quanto meno appare il suo stato “naturale” di tecnologia).
Questo, in estrema sintesi, per Ong, prima per McLuhan, e
insieme, per un manipolo di studiosi, soprattutto americani,
canadesi, inglesi, in sintonia ma ciascuno per suo conto,
senza vessilli di scuole da innalzare (eppure, per insistenza
di alcuni di loro sul Canada, e forse per un implicito e inevitabile
riconoscimento di paternità delle idee a McLuhan, tale disparato
e produttivo sviluppo di idee e progetti di ricerca sulle
matrici comunicative della cultura vengono spesso indicati
come ‘Scuola di Toronto’), che hanno adottato il punto di
vista delle tecnologie come matrici, come ‘brainframes’, cioè
ambienti di determinazione.
La cultura in cui siamo immersi tutti, almeno in Rete, per
chi vive la Rete in superficie come estensione di possibilità,
e in profondità come intensità di approfondimenti, dicevo,
intreccia in forme ibride partecipazione e introspezione,
storia personale e racconto della storia, memoria personale
e costruzione condivisa della conoscenza. Proviamo a entrare
dentro questa nuova dimensione, provocazione per chi, occupandosi
tradizionalmente di insegnamento, di formazione, di didattica,
fa molta fatica a misurarsi con l’entità e il senso di tali
radicali (eppure paradossalmente antichi) cambiamenti.
Dunque, Internet, sembra assurdo, ripropone al centro della
scena l’importanza del contesto come fondamento dell’esperienza
e della conoscenza, e lo fa proprio nutrendo in modo famelico,
a volte convulso disordinato egocentrico, il bisogno delle
persone di nutrirsi della propria storia, per poter crescere,
imparare, lavorare, stare con gli altri.
Intanto, con Silvano Tagliagambe, ricordiamo la centralità
del contesto: il suo mi pare un modo davvero efficace per
proporre la questione oggi, e per individuare nel linguaggio,
in particolare nello scambio dialogico, la condivisione di
uno spazio d’azione comune, di un contesto comunicativo, appunto.
Scrive Tagliagambe, in Più colta meno gentile. Una
scuola di massa e di qualità: “Riprendendo e facendo propri
alcuni spunti del pensiero di Heidegger, Winograd e Flores
mettono in rilievo che il rapporto che ciascun soggetto, individuale
e collettivo, ha con le cose con le quali entra in contatto
no ha affatto bisogno di mediazioni e mediatori, perché è
qualcosa di originario, determinato dall’appartenenza a uno
specifico contesto che non è stato scelto, ma in cui ci si
trova ‘gettati’ e di cui si deve costantemente tener conto.
Cruciale, da questo punto di vista, è la distinzione heideggeriana
tra vedere e guardare. Non è il vedere in se stesso ad avere
un senso e soprattutto a dare un senso alle cose, ma il guardare,
che significa inquadrare un oggetto come funzione del mio
mondo, che ha senso in relazione al mio vivere. Quando guardo
nel senso heideggeriano guardo sempre una funzione,
cioè considero un oggetto in quanto utilizzabile da me all’interno
dello specifico ambiente in cui vivo o del modo in cui vivo.
Il senso dipende dunque in modo essenziale dal
contesto, in quanto il guardare è contestualmente determinato.
Ciò non implica che esso sia arbitrario, perché dipende strutturalmente
dalle regole del gioco che vigono all’interno del contesto
medesimo. In questo quadro la descrizione dell’essere nel
mondo deve necessariamente partire dai dati originari e costitutivi
fornitici dalla nostra presenza in esso. Essere nel mondo
è essere e agire in un contesto, ma non come soggetto passivo,
bensì come agente capace di progettare in vista di determinati
fini che ci si propone di conseguire” (p.24).
Il contesto in senso generale costituisce l’‘ambiente’ affettivo,
personale nel quale avviene un’esperienza, compresa un’esperienza
di apprendimento. Il contesto è lo spazio proiettivo del soggetto,
delle sue passioni, delle sue motivazioni, nel quale accadono
le cose, comprese le conoscenze e i saperi praticati, importanti,
significativi, per lui, per lei. Che cosa attraente e produttiva
sarebbe sapere che la scuola e l’università sono per studenti
e professori dei sistemi che alimentano contesti, che danno
vita a dei contesti, che li promuovono e li fanno incontrare!
Ora, qui, scelgo di considerare il richiamo fondamentale al
contesto esclusivamente in riferimento all’universo Internet,
nel quale, così come per il testo, la radice etimologica esprime
esattamente le caratteristiche delle pratiche di scrittura
di rete: il contesto in realtà è un con-testo, cioè l’azione
del connettere, del tessere insieme (con-téxere,
appunto). A differenza di quanto, purtroppo, i limiti di un’organizzazione
degli studi universitari eccessivamente formale e trasmissiva,
secondo le logiche del LIBRO-matrice, non riesce a fare per
promuovere una presenza significativa e partecipe, la presenza
in rete, se sostenuta, appunto, da intenzionalità connettive,
partecipative, riesce a promuovere la presenza come riconoscimento
di un contesto comune.
Internet, dunque, si offre (tanto più quanto più prendono
corpo ambienti dinamici e interattivi Web 2.0) come un con-testo
in cui stare, trovarsi, esprimersi, raccontarsi: un luogo,
uno spazio, una condizione, comunque fluidi, aperti, magari
rumorosi, autoreferenziali, ridondanti, ma straordinariamente
attivi e vitali, che agiscono, per lo più attraverso la scrittura,
secondo tempi e modi della comunicazione orale. Dunque, in
questi ambienti di rete la scrittura è flusso e trama, è testo
e corpo, è storia e persona: in quanto con-testo è occasione
sempre presente di partecipazione e racconto di sé; in quanto
possibilità costante di contestualizzazione, dunque attribuzione
di senso della propria esperienza e conoscenza, costituisce
lo spazio di significazione più coerente con l’esigenza di
raccontarsi.
La scrittura, allora, da pratica “transitiva”: io scrivo qualcosa,
assume piuttosto la funzione di pratica ‘intransitiva’: ‘io
in quanto scrivo’, è come dire, e prendo in prestito, dal
libro di Rosi Braidotti, Nuovi soggetti nomadi, le
parole di Trinh T. Minh-ha: “Scrivere è divenire. Non divenire
scrittore (o poeta), ma divenire, verbo intransitivo” (p.
33).
Scrivere, dunque, è divenire di sé; in rete è un agire incarnato,
che serve a plasmare se stessi e la propria storia, da soli
insieme ad altri, ciascuno insieme agli altri. E qui ritrova
il suo senso più vasto e profondo proprio la scrittura, non
come solo e semplice comunicazione, ma come teatro esistenziale,
come mistero, magia, ornamento, rituale. E’ Roland Barthes
a scrivere aggressivamente: “la scrittura oltrepassa largamente
e, per così dire, statutariamente, non solo il linguaggio
orale, ma il linguaggio in quanto tale (se questo – come insistono,
per la maggior parte, i linguisti – viene ristretto a una
pura funzione di comunicazione): innanzitutto perché il suo
rapporto con il linguaggio orale è in più punti oscuro (l’ideogramma,
per esempio, trascrive un gesto, a sua volta segno di una
azione); e inoltre perché è evidente che la scrittura ha avuto
ben altre funzioni che quelle comunicative; infine perché,
legata alla mano, la scrittura resta in certa misura fisiologicamente
distinta dall’apparato facciale della fonazione e dunque il
corpo non s’impegna in essa allo stesso modo che nella parola;
da ultimo, perché c’è - e c’è sempre stata - una frattura
sociale tra la parola e la scrittura” (in Variazioni sulla
scrittura, p. 26).
Certo, scrivere per raccontarsi è attività che si pratica
anche senza rete, sia in ambito propriamente letterario sia
in ambito più diffusamente biografico e autobiografico. Vorrei
sottolineare qui l'ampiezza e varietà di proposte editoriali
attualmente sul mercato; i personaggi sono i più vari, soprattutto
quando di provenienza televisiva: si va dalla biografia di
Alessandra Amoroso, la vincitrice dell'edizione 2009 di Amici,
alla confessione di Paolo Brosio della sua conversione in
A un passo dal baratro. Perché Medjugorje ha cambiato
la mia vita, per arrivare al libro firmato da Carlo Conti,
Noi che... Gli sms del programma I migliori anni,
inviati dagli spettatori della trasmissione I migliori
anni, e così via, attraversando l'affollatissimo mercato
del ‘divismo’ televisivo che offre merce a buon mercato con
straordinari risultati di vendita. I librai della mia libreria
di fiducia dichiarano che questo genere di libri in pochissimo
tempo sono stati stampati più volte; tra questi, anche le
memorie di Patrizia D'Addario, Gradisca, Presidente. Tutta
la verità della escort più famosa al mondo. Di sicuro
sono facili operazioni commerciali, ma il fatto è che vendono
moltissimo perché moltissime persone desiderano farsi raccontare
la storia personale di personaggi considerati famosi. Si tratta
forse di un fenomeno rozzo e un po' volgare che, però, rivela
una tendenza: un bisogno diffuso di ascoltare e di essere
ascoltati. D'altra parte, in Rete sono disponibili molti siti
che offrono servizi per pubblicare da sé il proprio libro.
La specificità e la significatività delle scritture di Rete
sta nel tessere insieme, in modo individuale e collettivo:
blog, social network, forum, giochi di ruolo, wiki, sono alcuni
degli spazi di partecipazione e condivisione di pratiche di
scrittura non solitarie né solipsistiche, ma dialogiche e
comunitarie. In Rete si scrive di sé con gli altri; per sé
e per gli altri: testo e contesto coincidono. Offrono continue
occasioni di costruire, esprimere, modificare, moltiplicare
la propria identità, ma pare più corretto e pertinente dire:
le differenti personae della propria identità. Molti studiosi
ed esperti di scrittura, sia di ambito pedagogico che psicologico,
sia linguistico che filosofico, ma non altrettanto studiosi
ed esperti di scritture di rete, sostengono che scrivere di
sé e per sé in questo modo non è altro che un investimento
egoistico, un gonfiamento forzato e falso del proprio io.
Chi pratica scrittura di rete in rete sa che non è così, o
meglio, sa che non è la Rete di per sé che provoca questi
comportamenti; in questi casi di inautenticità tutto dipende
dal modo di rappresentarsi a se stesso di quell'io che, scrivendo,
non riesce a farlo se non mentendo a se stesso. Esattamente
come avviene senza rete, se accade.
Il contesto offerto dai tanti luoghi e modi della scrittura
in rete, di rete, è un fantasmagorico laboratorio del racconto
di sé, centrale, fondamentale attività di costruzione della
propria identità e del proprio sapere.
Scrive Jerome Bruner, in La fabbrica delle storie,
libro tanto trasparente e apparentemente semplice, quanto
estremo e creativo: “Questa capacità che ha il racconto di
modellare l’esperienza quotidiana non può venire semplicemente
attribuita a un ennesimo errore nell’umano sforzo di dare
un senso al mondo, come sono soliti fare gli scienziati cognitivisti.
Né va abbandonata al filosofo da tavolino, che si occupa del
secolare dilemma di come i processi epistemologici portino
a validi risultati ontologici (vale a dire, di come la pura
esperienza ci faccia pervenire alla vera realtà). Nel trattare
la ‘realtà narrativa’, noi amiamo invocare la classica distinzione
di Gottlob Frege tra ‘senso’ e ‘referenza’: il primo è connotativo,
la seconda denotativa. La finzione letteraria – amiamo dire
– non si riferisce ad alcunché nel mondo, ma fornisce soltanto
il senso delle cose. Eppure, è proprio quel senso delle cose,
spesso derivato dalla narrativa, che rende in seguito possibile
la referenza alla vita reale” (pp. 8-9).
Il contesto, come ambito di costruzione e condivisione della
propria storia, alla ricerca del suo senso, attraverso l’azione
del raccontare e l’attività del narrare, in Rete anima dimensioni
partecipate dell’apprendere e dell’insegnare, perché s’impara
davvero ciò che si sente come parte integrante e significativa
della propria storia, individuale e collettiva. Uso qui il
termine ‘narrazione’ per sottolineare con Jack Goody la specificità
delle forme scritte di racconto, mentre il raccontare è più
ampiamente e universalmente espresso in forme orali. Essendo,
però, le scritture di Rete, come dicevo sopra, fortemente
orali, seppure di oralità secondaria o di ritorno, perché
partecipate, collettive, rituali, parlate, possiamo indicare
più ampiamente come azione del raccontare l’intensa attività
dello scrivere in Rete.
Scrivere in Rete, però, non è affatto semplice, anzi: più
si è scolarizzati e abituati ad utilizzare le forme e i modelli
della scrittura di scuola, più risulta difficile e insensato
scrivere in Rete, soprattutto scrivere di sé. Non a caso,
ad incontrare le maggiori resistenze sono gli insegnanti,
i quali non si capacitano del fatto che raccontare di sé,
ad esempio redigendo il proprio profilo in un ambiente didattico
on line, abbia a che fare sia con l’apprendimento della comunicazione
scritta sia con problemi di più ampia portata, relativi alla
contestualizzazione delle esperienze di apprendimento, ovvero
al fatto che, per avere senso, qualunque apprendimento deve
essere ‘situato’, cioè legato all’esperienza personale di
ciascuno.
A proposito del primo ambito segnalato, quello relativo all’apprendimento
delle diverse forme e modelli della comunicazione scritta,
vorrei proporre almeno due esempi.
C’è qualcosa che mi ha molto colpito in ciò che Marco Bonechi,
un studente di Scienze della Comunicazione nel mio Ateneo,
l’Università Roma Tre, nella sua tesina sul fenomeno delle
Fanfiction, “La rimediazione nel mondo Fan”, di cui
sono stata relatrice, racconta sul conflitto quotidiano di
un adolescente tra la sua pratica di scrittura di rete e le
tipologie di compiti di scrittura, come i temi, praticati
nella scuola e solo nella scuola.
“Nella vita di tutti i giorni i ragazzi a contatto con lo
schermo sono liberi di creare e inventare propri testi a piacimento
su qualsiasi argomento vogliano, secondo un proprio schema
logico; a scuola si assiste all’imposizione di un metodo di
studio, di esposizione o di scrittura completamente diversi
dall’approccio con cui gli studenti sono abituati a casa.
Patrizio, un ragazzo di 14 anni che frequenta il primo anno
di liceo, mi racconta di come a scuola abbia alcune difficoltà
nello scrivere temi di italiano con carta e penna, essendo
abituato a casa a navigare su Internet e a tenere costantemente
aggiornato un blog personale. Patrizio è solito correggere
gli errori di pari passo mentre scrive, ha la possibilità
di tagliare e incollare delle parti che reputa possano essere
inserite in una posizione diversa all’interno del foglio,
effettua quello che viene chiamato il ‘bricolage testuale’.
Non è costretto a seguire un insieme di regole stabilite in
anticipo, perdere tempo a correggere con il bianchetto, chiedere
ai compagni dei fogli protocollo, dover essere vincolato alla
velocità dello scrivere a mano rispetto a quella del computer:
egli è nato nella “cultura della simulazione” e ha interiorizzato
un metodo di scrittura che, rapportato alla carta e alla penna,
gli rende difficile esprimere le potenzialità che invece possiede.
Patrizio racconta di come gli capiti spesso di non riuscire
a finire un tema in tempo entro la fine delle due ore concesse;
questo non sarebbe capitato se avesse avuto il suo portatile
davanti o gli fosse stato concesso l’utilizzo di un computer
munito del pacchetto Office Word. Con questo non
voglio dire che la scrittura a mano debba essere abbandonata,
ma che ci sono materie per cui l’utilizzo del computer può
facilitare il processo creativo, considerando che i ragazzi
di oggi sono abituati a pensare stando davanti ad uno schermo”.
Un’altra testimonianza molto interessante in questa direzione
viene al momento dalla Gran Bretagna, dai risultati di una
ricerca, condotta dal National Literacy Trust, che documentano
come e quanto l’uso delle tecnologie di rete da parte dei
giovanissimi per scrivere – su blog, social network, siti
– alimenti non soltanto le loro abilità di scrittura, comprese
quelle richieste per svolgere compiti scolastici, ma anche
e soprattutto il piacere di scrivere testi che raccontano
storie, come racconti brevi, canzoni, poesie. Jonathan Douglas,
direttore della National Literacy Trust dichiara alla BBC
che «le nuove tecnologie alimentano l'entusiasmo verso i racconti
brevi, i testi delle canzoni e i diari». E aggiunge che nemmeno
le piccole storture (come il linguaggio derivato dagli sms)
sono un problema: «Più forme di comunicazione usano i bambini,
più crescono le loro abilità nel comunicare» (https://news.bbc.co.uk/2/hi/technology/8392653.stm).
A proposito del secondo ambito di riflessione proposto, quello
di carattere più metodologico, vorrei soffermarmi a raccontare
alcuni aspetti e momenti di mie esperienze didattiche on line.
Da più di dieci anni il gruppo di cui faccio parte, il Laboratorio
di Tecnologie Audiovisive della Facoltà di Scienze della Formazione
del mio Ateneo è impegnato in attività didattiche e formative
a distanza, ogni volta coerenti con le caratteristiche e le
potenzialità di tutte le tecnologie a disposizione, in una
logica di sistema integrato dei media. Abituati ad esplorare
potenzialità e specificità di ogni tecnologia, vecchia, nuova,
“rimediata” – per dirla con Bolter e Grusin – abbiamo incontrato
Internet fin dagli esordi e seguito in tempo reale il suo
sviluppo esponenziale. E’ stato ‘naturale’, per noi, cercare
possibilità e soluzioni operative corrispondenti al nostro
approccio teorico ‘costruzionista’, dialogico e partecipativo
, concreto e personale, in cui centrale è chi apprende, il
suo come e, soprattutto, il suo perché. Non è stato facile,
perché la maggior parte degli ambienti proposti si configuravano,
e tuttora si configurano, come spazi di e-Teaching piuttosto
che di e-Learning, quindi centrati su chi insegna, sulle sue
esigenze di controllo e di verifica dell’efficacia della trasmissione
(erogazione è il termine solitamente usato in quegli ambienti)
di contenuti predisposti fin dal principio in modo lineare
e gerarchico. Alla fine, raccolta una segnalazione sull’esistenza
di Moodle, una piattaforma Open Source, gestita e alimentata
da una comunità internazionale di sviluppatori e di sostenitori,
per la costruzione e/o il montaggio di percorsi didattici
e formativi on line, abbiamo trovato il nostro spazio come
gruppo membro della comunità Moodle nel mondo. Abbiamo così
realizzato, e continuiamo a farlo, master on line di primo
e secondo livello rivolti a professionisti della formazione,
scolastica ed extra-scolastica; attivato in forma sperimentale
un modulo di insegnamenti di area pedagogica nel corso di
laurea in Scienze della Comunicazione della Facoltà di Lettere
della nostra Università; integrato e sviluppato i nostri insegnamenti
di Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento e di Comunicazione
di rete per l’apprendimento presso la nostra Facoltà di Scienze
della Formazione. A queste attività, diciamo accademiche,
si sono aggiunte ed intrecciate molte altre attività formative
che vedevano, e vedono, coinvolti gruppi di adulti in aggiornamento
e in formazione per conto di enti, aziende, uffici pubblici.
La sottolineatura che sopra ho fatto sulla difficoltà di af-fidarsi
alla scrittura come attività personale per presentarsi, raccontare
di sé, condividere con altri un percorso di apprendimento,
proviene proprio dall’insieme di queste esperienze: ogni volta,
infatti, si ripropone lo stesso copione, noi che invitiamo
a scrivere e cifrare con un’immagine il proprio profilo, e
parecchi dei nostri corsisti che nicchiano, prendono tempo,
si schermiscono, spesso impermeabili ai nostri inviti-proposte
operative e ai loro presupposti teorici. Come dicevo, il sentimento
più diffuso, considerando che per molti si tratta di pratiche
del tutto nuove, è la paura di esporsi, di mettersi a nudo
di fronte ad altri, d’incorrere nel giudizio del docente e
dei membri del gruppo. Eppure, ogni volta noi proviamo a rispecchiare,
praticandolo, il piacere di mettere in comune un ritratto
di sé scrivendo nel profilo, nei testi collettivi, nei forum,
nelle chat, nelle esercitazioni; ogni volta cerchiamo di rinnovare
e diffondere un sentimento condiviso di generosità cognitiva,
attraverso l’allestimento di un con-testo comunicativo e didattico
aperto, collaborativo, dialogico, in cui costruire e condividere
forme e contenuti di apprendimento.
Solitamente scegliamo di mettere a disposizione materiali
di studio aperti, da ampliare di riferimenti e di link, da
commentare, criticare, approfondire, interpretare in forme
multimediali, attraverso il lavoro comune nei forum di discussione,
nei wiki, nei lavori di gruppo e in quelli individuali. Il
percorso di lavoro e di studio non è mai del tutto strutturato,
al punto che, a volte, l’ambiente all’inizio è pressoché vuoto:
nelle nostre intenzioni, per favorire al massimo, sul piano
della partecipazione personale e consapevole, il percorso
di apprendimento, attraverso la messa in comune dei saperi
individuali e la loro valorizzazione dentro la comunità. Nelle
reazioni da parte di alcuni, il vuoto viene percepito come
mancanza, non come opportunità di costruire insieme il proprio
con-testo di apprendimento. Come ho avuto già occasione di
affermare, infatti, è il con-testo che dà il senso alle esperienze
e agli apprendimenti. I contesti materiali che danno corpo
alle esperienze in cui si apprende possono essere differenti
e vari, non importa: che sia il palco di un teatro, un laboratorio
di chimica o di fisica, un orto o una console per videogiochi,
un cinema o una biblioteca, quel che importa è il senso che
l’esperienza ha per il soggetto che la vive.
Eppure, nonostante i limiti e le difficoltà che ogni volta
si ripropongono, alcune di queste nostre esperienze didattiche
on line risultano sorprendentemente ricche, animate, emozionanti,
soprattutto quelle che vedono coinvolti gli studenti universitari
(giovani e meno giovani) degli insegnamenti di Tecnologie
dell’istruzione e dell’apprendimento e di Comunicazione di
rete per l’apprendimento, sia alla Facoltà di Lettere sia
alla Facoltà di Scienze della Formazione. Un po’ della complessità
e della contraddittorietà di almeno una di esse (l’insegnamento
on line di Comunicazione di rete per l’apprendimento per il
corso di laurea in Scienze della Comunicazione della Facoltà
di Lettere) abbiamo provato – Roberto Maragliano, Ilaria Margapoti,
Mario Pireddu ed io - a raccontarla in un libretto (quello
a cui faccio riferimento qualche riga sotto), Didattica
e comunicazione di rete. Racconto di un’esperienza
universitaria (Stripes Edizioni, Rho, 2007).
Nel corso delle nostre attività on line, se è vero che un
po’ tutti faticano a trovare la propria cifra in uno spazio
di totale libertà comunicativa, è anche vero che proprio questa
libertà totale, passati i primi momenti di paura, diffidenza,
spaesamento, diventa travolgente (al punto che, in qualche
caso, alcuni studenti hanno trovato la forza polemica di mettere
in discussione cose come il prezzo del libro proposto per
l’esame, che vedeva me tra gli autori, elemento critico divenuto
oggetto di una discussione alimentata proprio da me come tentativo
di approfondire tematiche legate ad alcuni meccanismi della
produzione e diffusione editoriale). A quel punto, gli studenti
che ritrovano la libertà di poter dire fare partecipare secondo
uno stile e con dei contenuti di loro interesse, appartenenti
alla loro geografia di fonti e riferimenti, ritrovano il piacere
di imparare (almeno per una volta!), riconoscendo come valore
aggiunto la possibilità di farlo insieme al docente e di farlo
insieme agli altri. Scrivere, a quel punto, costituisce insieme
lo strumento e la materia di ciò che s’impara, testo e contesto,
appunto, storia personale e racconto collettivo, esperienze
e saperi costruiti insieme. Non avviene sempre, non coinvolge
tutti, purtroppo, ma ogni volta è una esperienza positiva
che da senso anche alla mia storia personale e professionale
di donna abituata a costruire il pensiero con tutto il corpo,
a “tenere la penna come un ferro da calza” e a scrivere come
se “rammendassi mutande”, per parafrasare ciò che della scrittura
delle donne disse Frédéric Soulié, intellettuale francese
di cui scrive Francesca Rigotti nella Premessa del suo Il
filo del pensiero.
Bibliografia
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- Il piacere del testo (a cura di Carlo Ossola), Einaudi,
Torino, 1999
Bolter Jay D., Grusin Richard, Remediation. Competizione e
integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini e Associati,
Milano, 2003
Braidotti Rosy, Nuovi soggetti nomadi. Transizioni e identità
postnazionaliste, Luca Sossella Editore, Roma, 2002
Bruner Jerome, La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura,
vita, Laterza, Bari-Roma, 2006
Goody Jack, “Dall’oralità alla scrittura. Riflessioni antropologiche
sul narrare”, in Il romanzo. Volume primo, La cultura del
romanzo, Einaudi, Torino, 2001
Maragliano Roberto, Margapoti Ilaria, Martini Ornella, Pireddu
Mario, Didattica e comunicazione di rete. Racconto di un’esperienza
universitaria, Stripes Edizioni, Rho, 2007
Ong, J. Walter, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola,
Il Mulino, Bologna, 1986
Rigotti Francesca, Il filo del pensiero. Tessere, scrivere,
pensare, Il Mulino, Bologna, 2002
Rosen Jonathan, Il Talmud e Internet. Un viaggio tra mondi,
Einaudi, Torino, 2001
Tagliagambe Silvano, Più colta e meno gentile. Una scuola
di massa e di qualità, Armando Editore, Roma, 2006
Sitografia
www.trinhminh-ha.com/
it.wikipedia.org/wiki/Paolo_Brosio
news.bbc.co.uk/2/hi/technology/8392653.stm
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