Scritture di sé in sofferenza
Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.8 n.1 Gennaio-Aprile 2010
IL DIRITTO ALL’AUTOBIOGRAFIA: IL PROGETTO “NARRAZIONITINERANTI”
Lucia Portis
lucia.portis@fastwebnet.it
Antropologa, formatrice e ricercatrice
sociale, esperta in metodologie autobiografiche, specializzata
in percorsi formativi e ricerca narrativa presso la Libera
Università dell’autobiografia di Anghiari (AR) fondata da
Saverio Tutino e Duccio Demetrio e di cui è collaboratrice
scientifica dal 2004. Si occupa, oltre che di formazione e
di progettazione partecipata, anche di valutazione, ricerca
narrativa e supervisione educativa. E’ docente a contratto
presso l’Università degli Studi di Torino di antropologia
medica.
Premessa
Haidegger in “Essere e Tempo” (1927) sostiene che la descrizione
del mondo comincia con l’elencare tutto ciò che si vede: cose,
alberi uomini, montagne astri, ecc.; Chatwin nel suo bellissimo
“Le vie dei canti” (1995) ci racconta che gli aborigeni narrano
di creature totemiche che, cantando il nome di ogni cosa,
fanno esistere il mondo. Cos’è l’autobiografia se non la costruzione
di un mondo, il mondo dell’esperienza soggettiva, il mondo
che creiamo con i nostri ricordi? Le storie di vita sono un
ottimo strumento per capire il mondo dell’altro, la ricostruzione
autobiografica è fatta di cose usuali, vicine all’esperienza
di vita di ognuno di noi, l’intensità degli stati d’animo,
le emozioni che vengono suscitate dalla lettura ci rendono
simili, più vicini e soprattutto ci fanno scoprire che il
mondo è fatto di parole, quelle che tutti noi utilizziamo
per descriverci e descrivere quello che ci sta intorno.
Il progetto
Il progetto “NarrazionItineranti” nasce nel 2007 da una collaborazione
fra la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari e
il Centro Interculturale della Città di Torino. L’incontro
proficuo tra le due realtà risale al 2002 e fa sì che a Torino
venga attivato un laboratorio permanente di scrittura autobiografica
e raccolta di storie di migrazione, consentendo a diversi
cittadini italiani e stranieri di sperimentare l’incontro
con la storia dell’altro, sia questo lontano per esperienze
di vita ed appartenenza cultuale che vicino.
In questi anni sono state realizzate quattro raccolte di storie
che hanno consentito quattro diverse pubblicazioni. “NarrazionItineranti”
è quindi l’evoluzione logica di questo percorso. La novità
del progetto consiste nella scommessa di riuscire, non soltanto
a raccogliere storie di migrazione, anche se con metodo che,
come vedremo in seguito, permette lo sviluppo di una relazione
e l’appropriarsi della storia tra intervistatore e narratore,
ma anche di consentire la scrittura, non di un’autobiografia
finita, ma di frammenti di vita.
Il percorso quindi, si è composto di due fasi: una di scrittura
di sé attraverso la realizzazione di un laboratorio autobiografico,
e l’altra di raccolta di storie, le persone che hanno partecipato
al laboratorio sono state anche intervistate al fine di raccogliere
la loro storia. Questa doppia scrittura mette in moto un gioco
di specchi: posso leggermi così come mi vede l’altro, che
trasforma la mia intervista in una storia, e confrontarlo
con la mia scrittura. Lo specchio riesce a sdoppiarti, a permettere
di vederti da lontano, da fuori, vederti vedere, con un’improvvisa
scoperta di alterità. Lo stesso gioco possono fare i lettori,
poiché il tutto è stato raccolto in un testo dal titolo “Storie
allo specchio, racconti migranti” edito da Unicopli.
L’obiettivo del progetto è stato duplice; da una parte consentire
alle persone migranti e autoctone di speriementare insieme
la scrittura di sé, dall’altro rendere visibili le narrazioni
di mondi e di identità delle persone che hanno attraversato
confini territoriali diversi e sono approdate nella Città
di Torino.
Questa visibilità si rende necessaria quando ci apprestiamo
a conoscere e comprendere alterità lontane per appartenenza
culturale, poiché sono proprio le storie di vita - il racconto
delle esperienze vissute - che ci svelano come possiamo apparire
differenti e nello stesso tempo simili agli altri. Le narrazioni
contenute nel testo dovrebbero, quindi, produrre conoscenza
delle caratteristiche culturali e sociali situate nel qui
e ora e offrire strumenti per riflettere e, di conseguenza,
scardinare gli stereotipi che spesso si accompagnano all’incontro
con il migrante, poiché nell’altro c’è, al tempo stesso, mistero
e trasparenza, diversità e somiglianza.
Il laboratorio autobiografico
Hanno partecipato al laboratorio ventitre persone, provenienti
da diverse parti del mondo: Perù. Senegal, Romania, Cuba,
Marocco, Polonia, Turchia, Argentina, Italia. A tutti è stata
proposto la scrittura autobiografica attraverso l’utilizzo
di dispositivi che toccavano diversi temi e apicalità dell’esistenza:
l’identità (intesa come un percorso infinito di costruzione
del sé), il viaggio, il corpo, i luoghi significativi, il
lavoro, gli affetti, in dodici incontri di tre ore.
Il laboratorio autobiografico è un percorso di scrittura di
sé sperimentato ormai da anni dagli esperti in metodologie
autobiografiche che seguono l’approccio messo a punto dal
prof. Duccio Demetrio, fondatore e presidente della Libera
Università dell’Autobiografia. Ogni incontro del laboratorio
è composto di diversi momenti: il momento introduttivo, in
cui viene illustrato il dispositivo e vengono invitati e accompagnati
i partecipanti a scrivere utilizzando suggestioni diverse;
letture, sollecitazioni teoriche, immagini.
Il momento individuale di scrittura in cui ogni partecipante
attiva meccanismi introspettivi e lascia sulla carta pezzi
di sé. Il momento della restituzione, che può essere attuato
a coppie o in piccoli gruppi, in cui i partecipanti sono invitati
a rileggersi e rielaborare quanto scritto in modo collettivo.
Il momento di chiusura nel quale sono messe in comune emozioni
e riflessioni, l’accento è posto sul processo e non tanto
sui contenuti. Al termine del percorso i partecipanti saranno
in possesso di frammenti di scrittura di sé, che ancora non
possono definirsi autobiografia, ma che possono essere considerati
un inizio o una bozza incompleta della stessa.
Gli incontri hanno, quindi, una trama e un termine, e utilizzano
dispositivi di scrittura che costituiscono un limite ed una
possibilità nello stesso tempo poiché guidano il partecipante
in un viaggio introspettivo non spontaneo. Il percorso di
ricognizione autobiografica così condotto permette di avviare
un lavoro introspettivo e retrospettivo che può aprire la
dimensione prospettica, ossia la possibilità di ri-progettarsi
nel futuro.
Se consideriamo il laboratorio un processo cognitivo che consente
il racconto in una prospettiva auto-formativa e riflessiva,
allora la meta-cognizione è un’attività della mente che accompagna
tutto il percorso laboratoriale. Che cosa si intende per meta-cognizione?
La capacità di educare la mente a riflettere sulle proprie
modalità di conoscere, interpretare, agire nel mondo. Pensare
i pensieri è un’attività autoriflessiva molto complessa che
implica il sapersi fermare, il sapersi guardare, il sapersi
analizzare. Marianella Sclavi (2000) utilizza il concetto
di bisociazione cognitiva per spiegare quella capacità di
sapersi guardare mentre si compie un’azione cercando gli elementi
spiazzanti, disfunzionali, fastidiosi. Sono questi gli elementi
che occorre osservare per uscire da una logica di conoscenza
stereotipata.
Proviamo a considerare la meta-cognizione una danza della
mente. Possiamo danzare per non sentirci mai troppo certi,
rassicurati, anzi possiamo danzare per imparare dall’imbarazzo.
Possiamo danzare per accettare di essere smentiti e sorpresi.
Possiamo danzare per esplorare mondi diversi e possibili.
La meta-cognizione è un’attività che genera consapevolezza
di sé e che ci aiuta ad andare oltre il già conosciuto, il
già compreso, oltre le rappresentazioni, oltre gli stereotipi.
Donata Fabbri (2002) riconosce nella narrazione di sé, nella
meditazione su di sé, questa possibilità meta-cognitiva, meta-riflettere
significa anche prendersi cura di sé, dei propri pensieri,
della propria mente. Nei laboratori autobiografici la prassi
narrativa si esplica attraverso il racconto scritto. Le operazioni
mentali che le persone compiono in un laboratorio sono relative
alla scelta dell’episodio da narrare, alla sua trasposizione
scritta e alla sua analisi.
Nella narrazione scritta e nella rilettura i partecipanti
sperimentano la bilocazione cognitiva, che possiamo considerare
già un primo livello di meta-cognizione, ma è attraverso l’analisi
del testo che avviene il passaggio tra il pensiero in forma
scritta e il pensiero pensato.
Quella che viene chiamata restituzione è un’attività analitica
/ interpretativa che ognuno può fare sul proprio testo.
Analizzare il proprio testo può voler dire:
Trovare gli elementi spiazzanti;
Trovare gli elementi ricorsivi;
Trovare ciò che non c’è;
Trovare ciò che ci interroga;
Trovare ciò che ci accomuna agli con altri.
Il gruppo rappresenta lo specchio, l’altro con cui confrontarsi,
con cui discutere; la parola dell’altro, a volte spiazzante,
agisce da svelamento per le proprie interpretazioni, che possono
apparire diverse quando sono messe di fronte all’altrui lettura.
Il gruppo dei partecipanti diviene un coro greco che amplifica
passaggi cruciali ed eventi marcatori. L’importante è essere
consapevoli che non esiste una sola verità ma diverse possibili
interpretazioni di sé e del mondo, ancor più quando questo
è fatto di persone che provengono da diversi luoghi del pianeta.
Il momento meta-cognitivo è un momento dell’esistenza dove
io m’immergo in me stesso, insieme ad altri, e ne esco diverso.
Le scritture
Le scritture del laboratorio, come detto in precedenza, vertevano
su diversi temi apicali, ogni partecipante ha poi deciso se
donarli, per la possibile pubblicazione o tenerli per sé.
I testi tratti dalle esperienze di ognuno, e re-interpretati
alla luce del presente, ci raccontano e rendono visibili le
caratteristiche universali dello spirito umano, parafrasando
Lévi-Strauss; le emozioni che suscitano i racconti di un italiano
o di un peruviano o di un cubano sono simili, tant’è che è
difficile distinguere, se non per i nomi dei luoghi, qual
è la narrazione di uno o dell’altro.
Così raccontano la loro identità in trasformazione e le speranze
nel futuro due ragazze, una peruviana, arrivata in Italia
a dodici anni e al termine del liceo, e l’altra italiana,
appena entrata nel mondo del lavoro.
“Io ero.
Una bambina: come ogni bambino mi piaceva giocare e nient'altro.
Quando si è piccoli non si ha la concezione del tempo, si
pensa che si sarà sempre piccoli, spensierati, sempre protetti
da mamma e papà. Si hanno aspettative per il futuro, ma più
che altro questo è un fantasticare su cose che in quel momento
credo non arriveranno presto, anzi, non arriveranno.
Io sono.
Una ragazza. Come ogni ragazza della mia età, ho un passato
che ha costruito la mia identità. Sto scoprendo che la vita
è un continuo scoprire; e ho un futuro prossimo davanti, più
prossimo di quanto non me lo sarei aspettata. Cerco di incamminarmi
con cura verso di esso.
Io sarò.
Oso supporre che sarò qualcosa di non molto diverso da oggi,
anche se non uguale. Qualcuno con un'esperienza più ricca
e che ha compreso nuove cose. Mi piace pensare che riuscirò
in quello che sto costruendo ora, e che riflettendo sul passato
io rimpianga nulla o almeno poco.
Io sono.
Una ragazza "in evoluzione" come una spirale con un inizio
preciso, definito, il mio passato ma anche i miei buoni propositi
per il futuro: ciò che alcuni chiamano "aspirazioni" o persino
"ambizioni"... per me sono ipotesi, idee, voglie (delle più
varie), desiderio di realizzare i miei sogni sapendo e rendendomi
conto, giorno dopo giorno, quanto sia difficile, faticoso
diventare grandi!
Io ero.
Da piccolissima (relativamente pochi anni fa) molto timida,
riservata, una bambina che amava ridere, scherzare ma allo
stesso tempo giocare da sola, nonostante la mia numerosa famiglia,
una bambina sognatrice che adorava fantasticare su tutto e
su tutti ... un esempio? Mio papà era il mio principe azzurro!
Poi sono cresciuta e di quella bimba spensierata, solare,
piena di fantasticherie per la testa è rimasto poco. Tutto
si è capovolto con alti e bassi: credo sia successo da quando
a 12 anni il mio principe azzurro se ne è andato dal castello.
Io sarò.
Sempre la stessa o meglio io mi vedrò e mi sentirò sempre
nella stessa maniera: la stessa Paola di quando avevo 10,
18, 30 anni e così via. Certo, non sarò realmente uguale al
passato e credo che lo capirò dagli altri, dal loro modo diverso
e cangiante di vedermi.
Le aspirazioni, il modo di riflettere sulla propria identità
futura, non differiscono per appartenenza culturale; è impossibile,
poiché i luoghi non sono citati, scoprire chi è autoctono
e chi è straniero.
E così raccontano tre donne la loro adultità, poco importa
la loro provenienza (italiana, cubana, peruviana), il loro
sentire è un sentire comune, è la bellezza di riconoscersi
grandi, sono le difficoltà di sentirsi in esilio e di cercare
una casa, sono le speranze di trovare una strada: la propria.
“La musica invade la stanza e il mio corpo. Chiudo gli occhi
e comincio a danzare. Il bacino dondola, dolcemente, e ripasso
gli otto della danza del ventre, alzo le braccia tracciando
linee immaginarie con le mani, mi avvicino allo specchio e
osservo il movimento del bacino, il mio ventre tondo, i seni
piccoli, delicati. I momenti in cui mi sento bene nei confini
del mio corpo si fanno sempre più frequenti. Comincio a sentirmi
donna e ad amare la mia immagine. Mi chino sullo specchio
e mi accarezzo il viso con le mani, la bocca piccolina, le
guance rosse, gli occhi grandi. Scompiglio i capelli con la
mano e mi sorrido. Aggiungo un po’ di terra rossa sulle guance,
un filo di mascara, abbottono la giacca, avvolgo la sciarpa
al collo e spengo la musica. Esco nell’aria fredda di Torino
e comincio a camminare, con passo deciso, la testa alta, porto
con orgoglio la mia figura per il mondo, cammino verso i miei
progetti e obbiettivi, serena, curiosa, me stessa. Donna.”
“In esilio e senza una famiglia sono sola, stanca, insonne,
con paure e a volte tanta rabbia e con tanti libri che non
bastano mai, libri sopra e sotto il letto, libri in bagno,
libri al lavoro, libri nella borsa. Libri e autori che ci
sono stati sempre e senza i quali non saprei definirmi: ancora
nell'infanzia più di Jules Verne e Conan Doyle, Edgar Allan
Poe; nell'adolescenza non tanto Hemingway ma Mario Benedetti
e Italo Calvino più alcuni filosofi tra cui Popper e Feyerabend.
Da grande, nei vari periodi: periodo invernale con due metri
di neve, i più vicini, Dostoevskij e Gogol, e penso anche
Tolstoj; periodo gioioso, Miguel de Unamuno che gioca con
l'immortalità e Fernando Savater che mi parla di morale. Nei
vari periodi di crisi esistenziale, tra gli autori che ho
amato e amo, ci sono Pier Vittorio Tondelli (che mi ha fatto
conoscere Ingeborg Bachman, Cellati, Cerami), Simone de Beauvoir
che mi assicurò di essere una donna, a quaranta anni, anche
se non ho figli, ed Elias Canetti, un volontario arrivato
al confine, che provò ad aiutarmi a fare i conti con la mia
identità. Un confine, nel quale ho esibito un passaporto a
me stessa, per accettare la mia identità e concedermi il permesso,
un permesso senza scadenze per continuare il viaggio. Sono
un corpo dove i sentimenti sono stati banditi per stare al
passo a una razionalità di tipo occidentale, col rischio di
diventare un corpo decadente e povero di futuro. Sono un corpo
che ha piacere di risposarsi ma, che non trova ancora una
casa per farlo.”
“Io sono ancora una giovane attraente, mia mamma diceva che
ero una “civetta naturale”, i uomini mi guardavano un po’
curiosi, avevo molti uomini intorno me però io ero molto impegnata
a lavorare nel sociale e non avevo tempo per loro, sono laureata,
mi piace il mio lavoro, però non sono contenta con quello
che vedo intorno a me, ho scoperto un mondo diverso al mio,
non avevo cognizione che così vicino a me c’erano mamme che
non potevano neanche dare da mangiare ai loro figli, c’erano
uomini che passavano la vita a bere per non guardare la propria
famiglia soffrire perchè loro non trovavano lavoro, adolescenti
senza futuro prendere le strade sbagliate, e poi vicino anche
a me, gente che faceva le vacanze in Europa, macchine bellissime,
abiti carini e molto costosi, tutto in una stessa città… così
decisi di partecipare attivamente, vivere la mia cittadinanza
fino in fondo, parlare forte per quelli che soffrono e non
avevano voce…”
I luoghi sono considerati qualcosa che caratterizza culturalmente
gli individui, ma sono anche spazi dell’anima, che rappresentano
momenti significativi ed emotivamente rilevanti; i luoghi,
il loro nome, ci indicano la provenienza e la fatica del viaggio
e dell’arrivo; un ragazzo marocchino, una donna rumena e una
dona peruviana così li raccontano.
“È il silenzio di quel luogo dove sono nato che sembra nascere
con me per poi scordarsi della mia esistenza, come io di lui
conservo solo il silenzio, il silenzio d’una memoria, poiché
tutti i miei ricordi in quel posto li trovo nella memoria
degli altri, mia madre mio fratello mio padre, invece nella
mia neanche un residuo di quell’esistenza troppo immatura
per la consapevolezza del suo essere, tranne fantasmi dei
racconti d’infanzia e un silenzio spopolato. Eppure i luoghi
non parlano che la lingua del silenzio oppure la loro grandezza
sfugge alla nostra comprensione e cosi inventiamo idee e convinzioni
come la patria o la nazione per sentire meno l’inferiorità
rispetto a quel ospitante indifferente alle sciagure del uomo
e le sue calamità, sposo di quell’altro nemico titano del
tempo, e sembrano passare l’eternità a meditare la loro grandezza
rendendo l’uomo ancora più infelice nella sua miserabile caducità.
Eppure sacrifichiamo la vita a chi non ci ha mai considerati,
trascurando così la nostra vera appartenenza all’umanità che
fa dei luoghi paesi città e patrie.”
“Alla stazione di arrivo mi aspettavo di vedere mio marito
… ma non c’era. Poi arrivò, con qualche minuto di ritardo.
L’italiano … una della lingue che mi piacciono assai! Avevo
già iniziato a studiarlo prima di venire in Italia. Ma sentire
parlare questa lingua è ancora più bello! L’ho imparato in
poche settimane. La prima cosa diversa da quello a cui ero
abituata era l’uso dei mezzi di trasporto: dover prenotare
per scendere e far segno con la mano perché il tram si fermi!
E poi la pastasciutta! Avevo già sentito in tv, in diversi
film in cui gli italiani mangiano la pasta ogni santo giorno,
ma non volevo credere che un giorno di astinenza li può far
soffrire tanto. Nella mia mente ho la convinzione che si può
vivere e sopravvivere senza pasta anche più di un giorno.
Di familiare ho trovato tanta gente che già conoscevo o le
persone conoscevano me… tanti connazionali e tanti del mio
villaggio. Estraneo per me era lasciare tutte le porte aperte.”
“Lima, casa della nonna. Non so che giorno sia, sono molto
piccola. Fa caldo, è estate. Io passo gran parte del tempo
sul balcone, sdraiata sul pavimento perché è fresco, pensando
a chissà cosa, ma pensando. Si filosofeggia un sacco quando
si è bambini, perché si ha molto tempo da perdere. Il profumo
dei fiori di Barranco, il mio quartiere, è intenso, per me
è l’odore di quel luogo, se mi portassero ad occhi bendati
fin lì, senza dirmelo, io saprei dall’odore di essere lì.
E l’odore della casa di mia nonna, anche quello è inconfondibile.
Due stanze, il bagno, il salotto, la cucina e la lavanderia,
al primo piano di un palazzo. I ricordi sono un po’ annebbiati
e poco chiari: mia nonna che cuce, io nel divano giocando
con un pagliaccetto che lei stessa aveva cucito; io filosofando,
sdraiata sul pavimento fresco del balcone, con i vasi di gerani
a sinistra, la porta per uscire sul balcone si apre. È mio
nonno che voleva sapere dove ero: apre la porta, mi vede e
senza dire niente a me si gira e dice alla nonna ‘Esta tornando
sol’ ”.
Anche in questi testi la sensazione è di vicinanza, tutti
abbiamo sperimentato lo spaesamento dato dall’essere in un
luogo nuovo, dove e caratteristiche delle persone e del paesaggio
ci risultavano sconosciute. Tutti possiamo intravedere nelle
parole dell’altro le difficoltà di adattamento, che sono difficoltà
universali incontrate in un’esperienza di viaggio, di cambio
di città o anche di casa. Certo, per una persona che si sposta
da una parte all’altra del mondo questo è infinitamente più
complicato e doloroso, ma il rispecchiamento che posso trovare
nelle parole dell’altro è uno strumento formidabile di superamento
dei pregiudizi.
La raccolta di storie
Oltre al laboratorio autobiografico, il progetto prevedeva
anche una raccolta di storie configurata come ricerca autobiografica.
La ricerca autobiografica si realizza attraverso un percorso
relazionale tra interlocutore e ricercatore e si caratterizza
per il coinvolgimento attivo di tutti gli attori presenti
nel percorso.
Le diverse fasi sono così articolate:
La co-costruzione del progetto con tutti gli attori coinvolgibili,
attraverso azioni di sensibilizzazione.
Formazione dei raccoglitori di storie suddivisa in due livelli:
Un primo livello, più strutturato sul sé e sulla propria storia;
Un secondo livello, più strutturato sulla raccolta della storia
dell’altro.
Monitoraggio della raccolta di storie.
I partecipanti, al termine del percorso di formazione, sono
invitati ad individuare gli interlocutori per raccogliere
le loro storie e restituirle, in forma scritta, attraverso
i diversi colloqui narrativi. Il momento della restituzione
del testo finale al narratore è cruciale poiché attiva meccanismi
cognitivi di svelamento, la storia non è mai del soggetto
che la raccoglie, è sempre del soggetto che la racconta e
che può decidere come trasformare il testo finale al fine
di appropriarsene.
Il prodotto finale è quindi una storia co-costruita, perché
sia il ricercatore che l’interlocutore si riconoscono come
soggetti realizzatori e tra loro si instaura un rapporto che
cambia entrambi, come possiamo leggere nelle parole di due
ricercatrici: “In molte parole di Tessie mi sono ritrovata,
nella sua difficoltà di espressione e voglia di comunicare,
attraverso la scrittura, il corpo e gli occhi. A volte le
parole sono strette e non dicono tutto, ma lasciano trapelare
realtà che si sentono con la pelle. Questa storia nasce soprattutto
da quello che non è scritto. Da alcuni incontri a casa e in
un bar, da tè biscotti, ingurgitati voracemente, mentre fuori
piove. Non sono scritte le risate, gli esercizi di yoga fatti
con un calzino, gli sguardi, i silenzi e gli occhi di Tessie
che scorrono veloci questi fogli.”
“Ho raccolto la storia di Clementina Sandra Ammendola il 12
luglio 2007. Non ci conoscevamo e ci siamo date appuntamento
dopo il lavoro al parco Ruffini. Senza bisogno di segni distintivi
ci siamo riconosciute, forse per via della stessa età, dello
stesso segno zodiacale, della stessa fisicità mediterranea,
della stessa timida cautela che ci guida nell’incontro con
l’altro (…) Avevo chiesto di poter essere io ad intervistare
Clementina per due motivi, perché viene dall’Argentina e perché
scrive. Entrambe le cose si legano alla mia storia e al mio
desiderio. La mia nonna paterna nacque in Argentina, figlia
della prima migrazione dei contadini e braccianti piemontesi;
di lei mi resta una fotografia che la ritrae giovane e spavalda,
pantaloni e scarpe basse, le braccia sul manubrio di una Lambretta,
i capelli mossi al vento, grandi cerchi alle orecchie e un
lampo di ribellione nello sguardo. A quella immagine potente
ricorro ogni volta che la memoria torna a lei come l’ho conosciuta,
eternamente invalida, danneggiata nel corpo e nello spirito,
spenta e rancorosa. Clementina scrive, ha cercato e trovato
in sé la capacità ed il coraggio di farlo, ha allenato con
tenacia questa sua disposizione, ha alimentato con la lontananza
la sua passione costruendo ponti di parole tra l’Italia e
la sua terra; per me la scrittura rappresenta un desiderio
che mi accompagna da quando ero bambina, la mia terra del
fuoco, un’eccitante avventura per la quale non riesco a decidere
di partire. Adesso mi trovo con tante pagine piene di parole
e la vita di una sconosciuta che mi si dispiega davanti. Sento,
forte, la responsabilità di restituire quello che Clementina
intendeva raccontare di sé, della sua storia di migrante e
della sua scrittura, diventata irrinunciabile mezzo espressivo.
Con rispetto e delicatezza, come se stessi maneggiando un
oggetto prezioso e fragile, ho riletto e modificato, tagliato
e spostato, sintetizzato e rivisitato più volte la stesura
originale di questa intervista.”
Le storie raccolte sono state dieci, i narratori, come spiegato
in precedenza, erano gli stessi che avevano partecipato al
laboratorio autobiografico.
Il diritto all’autobiografia
L’autobiografia è una costruzione longitudinale del sé che
tiene conto delle trasformazioni identitarie verificatesi
nel tempo. E’ una costruzione narrativa di sé composta dai
ricordi che prendono forma nel momento in cui li si narra
a se stessi o a qualcun altro.
Quali obiettivi e svelamenti può consentire la narrazione
autobiografica per l’autore / narratore / protagonista?
Esistono diverse possibili risposte.
La descrizione della propria storia di vita nel qui e ora;
l’esigenza di sentirsi situati in un tempo (storico) e in
uno spazio (culturale e sociale).
La descrizione della propria autenticità come esseri unici
al mondo e quindi possessori di una storia unica e irripetibile.
La descrizione di una propria identità narrativa possibile
o meglio ancora, delle proprie traiettorie identitarie, così
come sono emerse, in modi diversi, durante il passato e così
come sono venute a configurarsi nel presente.
La descrizione delle proprie relazioni con il mondo e con
l’alterità e, di conseguenza, la descrizione dei mondi cognitivi
e delle proprie modalità interpretative.
Tutto ciò però in un’autobiografia viene descritto da sé;
il soggetto narrante diventa il personaggio del suo racconto,
il protagonista definisce i confini della propria storia.
Il mondo della migrazione, così come l’alterità esotica, è
sempre stato descritto da chi intendeva prendere la parola
per capire meglio, per indagare fenomeni e per comprendere
le culture. I protagonisti, i soggetti sottoposti all’analisi,
hanno difficilmente avuto la possibilità di descriversi da
sé. Questo ha tentato di fare il progetto “NarrazionItineranti”,
sia nel laboratorio che nella raccolta di storie: dare la
possibilità all’altro, il diverso, il lontano, di narrarsi
con le proprie parole, potendole controllare (spesso nelle
ricerche etnografiche l’intervista non è sottoposta a restituzione).
Il diritto all’autobiografia è il diritto a definirsi, a dialogare
con tratti culturali diversi, al di là di qualsiasi tentativo
di costringere la cultura, e le appartenenze culturali, in
sterili categorizzazioni. Ancor più oggi che la cultura non
viene più considerata un oggetto osservabile bensì una costruzione
determinata da un processo, discontinuo e contrattuale (Malighetti,
2004).
Non c’è alcun dubbio che la narrazione autobiografica abbia
una grande valenza interculturale poiché ci avvicina alla
diversità e consente all’altro di esprimersi con i suoi tempi
e nei suoi modi. Però, per consentire all’altro di esercitare
il diritto all’autobiografia, occorre sperimentare l’attesa,
perché i tempi possono essere lunghi, anche faticosi; l’altro
può avere altri linguaggi e altri tempi, altre pratiche discorsive
e altri tipi di interpretazione di sé e del mondo.
Lasciare all’altro tempi e modi è indispensabile per costruire
un percorso condiviso dove poter incontrarsi alla pari e creare
un mondo “terzo”, dove non ci siano più nativi e migranti
ma solo uomini e donne. Questo, nel mondo contemporaneo, sembra
essere sempre più difficile.
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