Scritture di sé in sofferenza
Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.8 n.1 Gennaio-Aprile 2010
NARRAZIONE DI SÉ ED ESPERIENZA AUTOBIOGRAFICA NELLE SITUAZIONI DI SOFFERENZA SOCIALE DEI LUOGHI DI DETENZIONE: IL BISOGNO DELL'ALTRO E LA NECESSITÀ DEL CONFRONTO DIALOGICO PER SUPERARE IL SENTIMENTO DI VITTIMISMO E SOSTENERE IL PASSAGGIO DEL MOMENTO RIFLESSIVO ALL'AZIONE; UNA ESPERIENZA PRATICA
Maria Cecilia Averame
mca@lettureliguri.it
Laureata in Storia della filosofia
Morale presso l'Università degli Studi di Genova, ha inizialmente
lavorato come educatore approfondendo, attraverso formazione
specifica, le tematiche relative all'educativa di strada e
al counseling con indirizzo gestaltico integrato. Dal 1998
al 2001 si è occupata della segreteria di redazione di un
giornale di strada volto alla prevenzione del disagio e riduzione
del danno edito dalla Comunità di San Benedetto al Porto,
e dal 2004 al 2008 del coordinamento dell'iniziativa di creazione
di un giornale nel carcere di Genova Marassi. Il binomio fra
educazione e comunicazione la ha portata infine a lavorare
nella comunicazione sociale e culturale, in special modo attraverso
il web.
1.1 Scrivere
ed essere scritti in carcere
La società moderna trova nella scrittura uno dei suoi tasselli
fondamentali, e abitua l'individuo ad 'essere scritto' dall'infanzia
fino all'ultima fase della vita (dai giudizi delle pagelle
scolastiche alle cartelle mediche negli ospedali), attraverso
tutto il percorso lavorativo e sociale.
La scrittura libera slegata da (parte delle sue) velleità
artistico-narrative può assumere - per chi scrive - un valore
autoriflessivo e introspettico che attraversa diverse discipline.
La scrittura di sé come interrogazione sull'identità del soggetto,
come travaglio individuale, come assunzione della 'cura di
sé'', come rielaborazione (forse) di una traiettoria di senso
[1] ha aperto una discussione
sul suo utilizzo in ambito pedagogico, formativo ed educativo.
Il carcere non è esente da questa caratterizzazione, che al
contrario viene enfatizzata. Nella realtà carceraria si viene
scritti attraverso le parole degli avvocati, dei magistrati,
nelle relazioni degli psicologi [2]
ed è una necessità quotidiana per richiedere permessi e sopravvitto,
colloqui o alimenti.
Spesso si viene poi raccontati anche attraverso altre parole,
quelle dei giornali e della stampa: parole che si diffondono
al di là delle mura del carcere e raggiungono parenti e conoscenti
ma cui non si può rispondere, e in cui spesso non ci si riconosce.
L’organizzazione stessa del carcere poi fornisce - oltre che
tempo - motivi per scrivere: si è in solitudine, si comunica
con l’esterno tramite lettere, si vive in una solitudine ambivalente
dove si è soli e costretti a dividere lo spazio più intimo
con sconosciuti, spesso di altre nazionalità e la scrittura
rappresenta la conquista di un momento di individualità e
libertà, dove essere sé stessi e magari anche rappresentarsi
come si vorrebbe essere visti.
Vi sono poi le parole della protesta, delle lettere ai giornali,
delle critiche alle istituzioni e alla società: parole talvolta
offuscate dalla rabbia, dall'isolamento, spesso intrise di
emotività. C’è uno iato fra tutte queste parole: della società,
degli esperti, e degli individui. Sono scritture che non si
incontrano, che seguono percorsi differenti e perseguono obiettivi
diversi pur riferendosi allo stesso individuo.
1.2 Peculiarità e problemi della narrazione di sé
nella condizione detentiva
La narrazione di sé e la pratica autobiografica rappresentano
quindi oltre ad un momento destinato alla autoriflessione
e alla ricomposizione della trama della propria esistenza
[3], la possibilità di
riprogettarsi e ripensarsi non solo 'oltre' le parole con
cui si viene descritti, ma spesso anche in opposizione ai
termini degli altri. Si racconta la propria storia per ribadire
la propria esistenza non solo come detenuto ma anche come
individuo. Si contrappone all'etichetta di 'criminale' la
complessità del proprio vissuto, si concede una valvola di
sfogo per narrare la propria sofferenza esistenziale rischiando
forse anche di auto-indulgere in un sentimento di vittimismo
che rischia di prendere il sopravvento.
La condizione detentiva è caratterizzata dalla privazione
degli affetti, dalla depersonalizzazione dell’individuo inserito
in un contesto fortemente regolamentato [4]
a scapito dell’identità individuale, e rappresenta una punizione
somministrata come riconoscimento di un errore commesso; ne
risulta enfatizzata la caratterizzazione di 'devianza', amplificata
la sofferenza esistenziale della persona mettendo in risalto
il suo non essere integrata, e quindi accettata, all'interno
della società.
Emotivamente e socialmente la condizione detentiva rappresenta,
di per se stessa, una condizione patologica [5]
dell’uomo che inoltre non è più attore responsabile del suo
agire nel mondo. A questo si deve aggiungere la presenza proporzionalmente
maggiore [6] all'interno
degli istituti di reclusione, di patologie psichiatriche e
di turbolenze psicologiche che hanno contribuito al percorso
deviante o ne sono state incentivate.
Questo richiede, nel proporre laboratori di scrittura autobiografica,
la consapevolezza del rischio di mettere in moto processi
di elaborazione psicologica che possono creare fratture profonde
nell'individuo, non in grado di affrontare la propria fragilità
esistenziale in una situazione dove é carente il supporto
psicologico.
Se é vero che la consulenza autobiografica, astenendosi dall'occuparsi
di questi ed altri indizi di grave malessere, apertamente
dichiara i suoi limiti [7],
la condizione detentiva può essere considerata di per sé indizio
di grave malessere.
Definiti i confini che ne separano l’utilizzo dall’ambito
psicologico-terapeutico, la scrittura può assumere una valenza
pedagogica-formativa nei momenti di crisi e ristrutturazione
del sé e dell'io in cui il soggetto collassa, poiché non vi
può essere adultità senza consapevolezza di sé [8].
Altri elementi da tenere in considerazione nella scrittura
di sé, e che assumono un carattere particolare nella situazione
detentiva riguardano le questioni della veridicità, del narcisismo
narrativo e dell'assunzione di responsabilità.
La descrizione autobiografica non annovera fra le sue finalità
il racconto del 'vero': il 'patto autobiografico' [9]
che l’autore tesse con se stesso contempla una parte di verità
e una di finzione, e la narrazione della propria vita e la
descrizione della sofferenza assumono quel carattere 'romanzato'
che nelle situazioni di crisi esistenziale permette di prendere
le distanze dal proprio sentire e di immaginarsi in un modo
differente. Se l’io autobiografico in fondo non rappresenta
che una maschera per come vediamo (o vorremmo vedere) noi
stessi, il rischio di tale mascheramento in una situazione
di isolamento sociale é quello di perdere la motivazione a
rivestire i propri panni, a re-immedesimarsi nella propria
esistenza quotidiana.
L’autobiografia necessita di un interlocutore [10]
che voglia ascoltare, controbattere, sdrammatizzare, riportare
alla realtà. Se la attuale società di massa oscilla fra un
estremo narcisismo ed estrema irrilevanza sociale [11],
fra estremo individualismo e tenace affermazione dei propri
diritti a discapito di una visione collettiva, la condizione
detentiva accentua la disintegrazione sociale, incentiva la
magmatizzazione [12] del
soggetto che si vede frammentato nelle parole d'altri e quindi
spinto a cercare un senso unitario per la propria esistenza.
Da ultimo, mentre la scrittura della propria storia utilizzata
in chiave pedagogica cerca di sostenere un percorso di presa
in carico di se stessi e quindi di assunzione delle proprie
responsabilità, il contesto attorno al detenuto tende fortemente
a deresponsabilizzarlo, imponendo una serie di regole che
vanno accettate al di là della comprensione, limitando le
possibilità di operare scelte e prendere decisioni: lo spazio
della riflessione individuale e della scrittura libera rappresentano
il solo luogo personale dove agire individualmente.
1.3 L'approccio dialogico e la necessità della presenza dell'altro
in ascolto nella pratica della narrazione autobiografica
Le considerazioni e le rilevazioni dei problemi sulla proposizione
dell’autobiografia e della scrittura di sé in carcere effettuate
non vogliono sminuirne il valore quanto riflettere sul senso
e sul modo con cui possono essere proposte.
Anche perché, come abbiamo accennato, in carcere si scrive
molto e si attraversano diversi generi, con una scrittura
spesso carica di emozioni: si scrivono poesie e racconti,
lettere, articoli, commenti, di sé e di altri, di realtà o
fantasia. La scrittura dal carcere é un grido continuo che
chiede di essere ascoltato, e che ricerca disperatamente il
suo spazio e la sua dignità.
Abbiamo evidenziato come la caratterizzazione peculiare della
situazione detentiva sia la mancanza dell’altro dovuta all’isolamento
dalla società. Certo vi sono altre situazioni di isolamento
sociale, ma all’interno delle carceri la mancanza di un interlocutore
si caratterizza per essere accompagnata da una forte stigmatizzazione
sociale che causa un costante timore di non essere accettato,
compreso. Per questo motivo la lettura dell’autobiografia
come pedagogia che parla ai soggetti può non bastare: la scrittura
di sé necessita non solo di un interlocutore, ma di uno sforzo
volto a ricucire quello strappo che si é creato con la società
da cui ci si sente rifiutati.
Se la descrizione della propria sofferenza e del proprio vissuto
rappresenta il tentativo di ricostruire, ri-pensare, ri-ordinare
- ora - il percorso fatto, tale percorso non può essere compiuto
in opposizione alla società, ma solo ripristinando un dialogo
con essa.
La necessità del soggetto marginale che si racconta é quella
di reclamare, con parole sue, la propria presenza nel mondo
[13], ricostruire il rapporto
con la società, ricercare un ricongiungimento fra quanto il
soggetto é in grado di elaborare e quanto la realtà gli offre
da elaborare. Percorso che parte della sfera più intima di
un soggetto in sofferenza e da compiersi attraverso quella
delicatezza rintracciabile nel lavoro pedagogico di Danilo
Dolci, nella capacità di sostenere la vena creativa, poetica
e quindi anche emozionale in un percorso di creazione continua,
di esternazione dei propri bisogni, di accompagnamento alla
formulazione di quella 'domanda' attraverso la quale si cerca
un riconoscimento e si intraprende un percorso di autoriconoscimento.
Non solo un'operazione introspettiva di ricostruzione del
proprio vissuto, ma una azione tesa a porsi come interlocutore
attivo nella società e di ricerca del proprio ruolo sociale.
Come sottolinea Donaldo Macedo in un dialogo con Paulo Freire,
riprendendo i temi tracciati da quest’ultimo nella sua 'Pedagogia
degli oppressi', 'Il dialogo sulle esperienze vissute dagli
individui non costituisce dialogo (...), esso si limita quasi
solo a far sì che l'oppresso si senta bene nella sua condizione
di essere vittima. In poche parole, non penso che la condivisione
di esperienza debba essere intesa solo in termini psicologici.
Richiede sempre un'analisi di tipo politico e ideologico.
Questo significa che la condivisione delle esperienze deve
essere sempre compresa in uno spazio che includa sia la riflessione
che l'azione politica' [14].
Condividere la propria esperienza in chiave politico-ideologica,
o forse ancor più adeguatamente sociale e culturale, obbliga
e permette all’individuo di inserire la lettura di sé nel
contesto, di dare inoltre sfogo all’orgoglio della propria
scrittura: é sì necessario razionalizzare, rendere intellegibile
ad altri la propria esperienza per poterla comunicare adeguatamente,
trovare parole che siano condivisibili con il proprio lettore
e quindi anche accettarne l’eventuale ritorno valutativo,
ma con lo scopo di raccontare una condizione particolare scarsamente
conosciuta, di aggiungere un frammento di conoscenza in più
a quelle possedute dal destinatario della propria scrittura,
di prendere parte ad un dibattito. Ritorna quell’orgoglio
gramsciano che vede nella scrittura - oltre che ad una azione
politica - un fine pedagogico a doppio senso: verso l’individuo
che racconta e nei confronti del pubblico lettore.
Il passaggio da una sfera puramente emozionale e sensoriale
a una riflessione 'attiva' attraverso la razionalizzazione
del proprio vissuto fornisce la possibilità di effettuare
e ricevere critiche, di interagire con l’interlocutore e di
superare l'atteggiamento di vittimismo (peraltro pericolosissimo
nella situazione carceraria che dovrebbe spingere l'autore
di un reato verso una assunzione di responsabilità).
Questa pedagogia 'attiva' rappresenta, come Freire ha voluto
sottolineare nell’ultima sua opera, una pedagogia 'della speranza':
dove il soggetto stesso ha - in potenza - la possibilità di
porsi come interlocutore attivo nella società, attraverso
uno scambio a doppio senso, nel quale ad arricchirsi non è
solo il soggetto, ma la società stessa, come vedremo in seguito.
Il conduttore di un laboratorio di espressione del sé assume
in questo modo il ruolo di facilitatore di questo percorso:
attraverso un atteggiamento em-patico e sim-patico; mediante
l’utilizzo di tecniche di ascolto attivo; attraverso la proposta
di 'temi generatori' che accompagnino un percorso di coscientizzazione
e soprattutto includendo nel compito pedagogico l’azione culturale
che sola é in grado di rendere un individuo libero e in grado
di fornirsi autonomamente una bussola orientativa delle proprie
esperienze e per il proprio essere nel mondo.
In tal modo ci si potrà anche avvicinare maggiormente a quell’obiettivo,
fondamentale nell’ottica di un lavoro con finalità formativa
e pedagogica compiuto attraverso l’utilizzo dell'autobiografia,
della 'revisione critica' delle esperienze: non tanto la quantità
di nozioni che possono essere trasmesse, quanto piuttosto
la modifica di certi schemi mentali, che si rivelano inadeguati'
[15].
2 Esperienze
Le esperienze pratiche raccontate in questo paragrafo sono
frutto di attività e laboratori condotti presso la Casa Circondariale
di Genova-Marassi fra il 2004 e il 2008.
Le attività si sono svolte in due differenti situazioni: un
laboratorio di scrittura e di comunicazione presso il Centro
Diagnostico Terapeutico e una 'redazione' di detenuti di diverse
sezioni. Alcuni di loro frequentavano i corsi di istruzione
scolastica: assieme a insegnanti, un criminologo ed educatori
di una cooperativa del privato-sociale operante all'interno
del carcere, é stato creato con loro un giornale di informazione
carceraria destinato alla popolazione cittadina.
Le due esperienze vengono prese a titolo esemplificativo per
due differenti situazioni:
- l’utilizzo della parola scritta in un contesto difficile,
dove lo scopo non era una riflessione sul proprio vissuto
quanto un -se pur minimo- miglioramento della qualità di vita
attraverso la socializzazione e la fluidificazione delle dinamiche
interpersonali;
- la creazione di un giornale carcerario come strumento di
dialogo con la propria città, di comunicazione dei problemi
e delle risorse delle strutture carcerarie in Italia, di narrazione
dei propri percorsi di vita.
2.1 Sui laboratori di scrittura
Le attività di scrittura e di narrazione delle proprie esperienze
acquistano in carcere un ruolo particolare; spesso la sola
presenza di un conduttore di laboratori, di un insegnante
o di un volontario rappresenta la possibilità di relazionarsi
con un individuo esterno dal circuito penitenziario.
Inoltre la frequenza di un laboratorio collettivo richiede
l’adeguamento ad altre norme di convivenza civile quali l'ascolto
delle esperienze altrui, il rispetto dei tempi, l'esercizio
dell'astensione del giudizio e la definizione collettiva di
una modalità di parlare del proprio sentito personale e di
quello altrui senza ferire nessuno. Spesso proprio la necessità
di avere un interlocutore esterno all'ambiente e la novità
dell’esperienza portano i partecipanti alle attività, per
lo meno nella fase iniziale in cui vengono concordate le regole
e i modi della discussione, ad avere un atteggiamento aperto
e disponibile (in seguito possono emergere barriere di difesa
personale nell'espressione di sé o difficoltà ad accettare
ritmi e interazioni, che richiedono una ridefinizione continua
di regole e comportamenti).
L’utilizzo della scrittura obbliga a rispettare anche le sue
regole e i modi, con tutte le difficoltà derivanti dalla bassa
scolarizzazione e dalla presenza di quasi un 50% di detenuti
stranieri nelle carceri italiane. L'espressione nel gruppo
permette di instaurare un clima atto alla condivisione delle
esperienze, a sentirsi partecipi delle realizzazioni comuni,
a trovare un punto di contatto fra sé e l’altro.
In un laboratorio tenutosi presso il Centro Diagnostico Terapeutico
del Carcere di Marassi l’utilizzo di una semplice mappa della
città attaccata su un cartellone ha permesso di raccontare,
senza dover abbassare troppo le proprie difese personali,
la propria strada e la visione della città in cui si era cresciuti.
Con il tempo sul cartellone sono stati inseriti stralci di
canzoni, poesie, fotografie e racconti di ricordi personali
che hanno reso il prodotto un lavoro in cui tutti potevano
ritrovarsi, e una interessante interpretazione di quel che
é Genova vista dall'interno del suo carcere.
Durante una precedente esperienza si é scelto di raccontare
l'indulto attraverso una storia di fantasia narrata a fumetti:
ne é nata la storia di un gatto incarcerato e detenuto fra
gli esseri umani e per giunta romano fra i genovesi. Attraverso
il gatto si sono affrontate le difficoltà linguistiche, di
etnia, di solitudine e soprattutto la paura di come ricominciare
dopo, utilizzando una 'maschera' per parlare anche di sé.
In questo secondo caso il 'cammuffamento' del gruppo nel gatto
permise da una parte di ragionare su quella che era una esperienza
comune e sui tratti che univano i partecipanti alla stessa
esperienza; d’altra parte fu un escamotage volto a reggere
la tensione della situazione e del luogo, dove oltre alle
difficoltà date dalla situazione detentiva, aveva particolare
importanza la tematica relativa alla salute.
Questi sono esempi di utilizzo della scrittura e dell'espressione
personale in laboratori che avevano come scopo non l'espressione
di sé e della propria sofferenza o la ricostruzione di un
passato frammentato, ma che si proponevano nel presente, nel
qui ed ora, di migliorare la qualità della vita anche attraverso
occasioni di socializzazione e di lavoro di gruppo.
2.2 Sul giornalismo dal carcere
Nell’ottica di concedere una possibilità di comunicazione
fra detenuto e società, fra dentro e fuori, le attività di
giornalismo dal carcere rivestono una particolare importanza.
Negli ultimi decenni all'interno delle carceri italiane sono
nate redazioni che hanno dato vita a giornali - a volte con
un vero lavoro giornalistico dietro, in altre occasioni attraverso
modalità più amatoriali - dove in diversi modi si cerca di
instaurare un canale di comunicazione con il mondo esterno
al carcere. Tali attività spesso sono richieste e sostenute
dai detenuti, proprio perché aiutano a 'dare un senso' alla
propria scrittura, e concedono la possibilità di immaginarsi
un interlocutore. D’altra parte richiedono un impegno e un
lavoro sulla scrittura e sul sé che costringe a 'mettersi
in gioco', a lasciarsi coinvolgere, ad accettare le critiche,
a trovare una metodologia di lavoro condivisa. La narrazione
del sé viene piegata ad uno scopo: farsi comprendere anche
da chi non ci conosce.
Ma perché scrivere dal carcere, con l’ambizione poi di essere
ascoltati all'esterno? Innanzi tutto perché il laboratorio
di scrittura o la redazione di un giornale, come già accennato,
rappresentano uno strumento per migliorare, nel qui ed ora,
la qualità della vita in un luogo dove difficilmente vengono
fornite alternative al tempo libero. Secondariamente perché
l’attività di gruppo e la produzione di materiale condiviso
necessitano di un confronto e di una riflessione comune.
La scrittura destinata a terzi poi, dovendo passare attraverso
un processo di razionalizzazione del pensiero, spinge verso
un ulteriore livello di riflessività: la scrittura ha un obbligo
di coerenza [16] e costringe
a verificare la chiarezza delle idee. In ottica formativa
la disponibilità al confronto con un pubblico - la redazione
stessa o il lettore esterno - incentiva quel processo di rielaborazione
e definizione del proprio percorso in relazione alla società.
Rappresenta l’occasione di riprendersi la propria voce e,
in un percorso bidirettivo com'è la scrittura aperta, è un
passaggio strettamente collegato all'accettazione della risposta
dell'altro sul proprio scritto.
Ecco qui che entra in gioco il grande problema dell’interlocutore:
La scrittura giornalistica dal carcere, destinata a terzi,
non può prescindere dalla domanda: 'per chi scrivo?' L’interlocutore
acquista una importanza fondamentale: se voglio che la mia
storia venga ascoltata, devo essere in grado di comunicarla
adeguatamente. Non è quindi solo l’io parlante' il protagonista
della narrazione, ma l'altro in ascolto. E' necessario trovare
un punto di contatto: evitare eccessivi tecnicismi che non
possono essere compresi fuori dalle mura del carcere, mettere
da parte il sentimento di vittimismo, l’eccessiva introspezione
e aprirsi all'altro. Spesso il punto di contatto è rappresentato
proprio dalle autobiografie, dai racconti di vita personali,
che si re-impossessano in tal modo anche di un valore sociologico
e antropologico.
Realizzare un giornale in un carcere richiede inoltre un rapporto
con altre discipline. Non è importante solo il contenuto ma
anche il contenitore, l’aspetto grafico, l’elaborazione della
struttura, consentendo quindi un costruttivo utilizzo di tecniche
e strumenti. Necessita di un rapporto 'attivo' e propositivo
nella società: bisogna ragionare su come distribuirlo, a chi
farlo arrivare, come instaurare un rapporto bilaterale con
il lettore. Consente di approfondire, con i diretti interessati,
alcuni temi, di far partecipare esterni alle attività della
redazione, di invitare ospiti. Permette di fare attività pubbliche
e obbliga a instaurare un rapporto con le istituzioni, con
i giornali locali. A confrontarsi con i problemi degli altri.
Costituendo una piccola redazione all’interno di un carcere
e proponendo ai detenuti un’attività più giornalistica l'approccio
é stato più direttivo: la proposta é arrivata da un gruppo
di operatori che erano stati in grado di cogliere le richieste
presentate nel tempo da alcuni detenuti. Le regole partecipative
sono più restrittive: soprattutto riguardo le modalità di
intervento nella discussione, di ascolto degli altri e riguardo
la scrittura stessa.
Il lavoro redazionale ha come presupposto la discussione e
la condivisione dei temi e degli obiettivi, numero per numero,
discussione che può aver luogo solo grazie all'accettazione
di regole condivise. Vi é poi uno spazio ridotto su cui scrivere
e un interlocutore cui parlare, elementi che presuppongono
una limitazione nella scrittura e nello stile. Nel giornale
del carcere di Marassi si scelse ad esempio di non pubblicare
poesie, poiché frutto di una esperienza e di un vissuto personale
difficilmente condivisibile e comprensibile da un lettore.
Si diede ampio spazio alle storie personali, si propose la
scrittura in terza persona per 'guardarsi con occhi estranei',
si utilizzò un sistema di intervista reciproca dove una persona
scriveva le esperienze dell'altro, per comprendere quali fossero
gli elementi più importanti visti da un punto di vista differente.
La preparazione di un numero viene organizzata secondo fasi
ben precise: da una iniziale discussione collettiva viene
proposto un tema da sviscerare, che parte dal proprio vissuto
ma che rappresenta un tema di interesse collettivo: l’informazione,
la scuola, la salute, la famiglia... Nei primi incontri di
redazione ci si apre al proprio vissuto, ci si confronta,
si da maggiore sfogo alle problematiche personali e alle storie
di vita. Il passaggio da una fase riflessiva ad una attiva
è caratterizzato dalla ricerca dei punti in comune fra le
diverse storie, dall'identificazione di interlocutori esperti
nel campo, e di servizi o di meccanismi di funzionamento della
società da indagare con più profondità. Non è un processo
che obbliga a 'mettersi da parte', a nascondere il proprio
io per compiacere un eventuale pubblico, quanto un partire
dal proprio vissuto per leggerlo all'interno del quadro sociale
di riferimento, ragionando contemporaneamente sulla propria
situazione e proprio comportamento e su quello degli altri.
Durante l'esperienza nel carcere di Marassi alcuni detenuti
stessi sottolinearono il fatto che questo modo di esprimersi
consentiva di 'non piangersi addosso', ma di esaminare le
problematiche personali in un ottica propositiva e reattiva.
Con il continuo bisogno di ricevere una 'risposta' a quanto
detto, di suscitare una reazione nel proprio interlocutore.
2.3 I benefici per una società che sa conversare con
i propri detenuti
Abbiamo fin qui esaminato l'utilizzo dell'autobiografia e
della scrittura dal carcere in un'ottica formativa concentrata
sul detenuto, sulle sue risorse e sulle possibilità pedagogiche
nei suoi confronti.
Ma in un'ottica dialogica (possiamo ancora una volta lasciare
alla psicologia il delicato compito di porsi come interlocutore
di un disagio personale), non si può prescindere dal fatto
che il detenuto sia inserito nel contesto della sua società,
e che il sistema penitenziario rappresenta comunque un ingranaggio
di un sistema sociale collettivo.
Luigi Manconi, all’epoca sottosegretario alla Giustizia, in
un convegno su “La scrittura in carcere - Esperienze a confronto”
- tenutosi nel 2007 nella Casa Circondariale di Rebibbia evidenziò
come “Il carcere oggi è tornato a essere, come negli anni
'50-'60, il luogo dei poveri. (...) Ed è proprio qui che questo
bisogno di comunicazione appare così forte, così impellente
e incalzante. È proprio qui che la scrittura assume questa
forza creativa e rassomiglia così tanto a un atto di libertà.”
La scrittura che viene dal carcere ha una valenza duplice
per la società: non solo perché spesso mette in risalto mancanze
e problematiche del nostro sistema sociale di cui la comunità
si deve far carico, quanto perché ci mostra una parte del
nostro mondo ignorato e poco conosciuto, ma spesso anche travisato,
con cui è necessario fare i conti.
All’esterno del carcere il dibattito sulla sicurezza ci presenta
una società spaventata e intollerante che richiede sempre
maggior controllo e una applicazione più rigida e restrittiva
della pena. Ma in realtà la conoscenza delle reali applicazioni
della pena, dell'esecuzione e della tipologia dei reati, o
dell'applicazione di misure alternative alla detenzione o
di riduzione della pena è scarsa.
A fronte di episodi che trovano ampio risalto sulla stampa
di reati commessi durante l’applicazione di benefici, vi è
una realtà dove questi vengono concessi con parsimonia e ne
gode una piccola parte della popolazione carceraria. Dietro
i grandi reati raccontati dalla stampa vi sono una infinità
di situazioni di microcriminalità che portano a percorsi di
devianza sempre maggiori. La società non ha idea di chi sia
la popolazione reclusa nelle carceri italiane, e questo contribuisce
a generare un clima di paura e insicurezza. E' essa stessa
che ha bisogno di ricostruire questo rapporto fra 'dentro'
e 'fuori'.
L’ascolto delle storie delle esperienze di vita in situazioni
di marginalità sociale permette di avere un quadro descrittivo
della realtà ambientale e di inserire le storie stesse nel
contesto storico. Se il disagio di un individuo deriva da
un delicato incontro di problematiche personali e vissuto
comunitario la risposta non può essere esclusivamente psicologica
e individuale, ma collettiva e sociale, poiché il dolore dell'io
é espressione di una sofferenza che in forme differenti, tocca
la comunità tutta.
Note
1] Franco Cambi, L’autobiografia
come metodo formativo, introduzione.
2] Cfr Caterina Benelli in
Narrazioni ed autobiografia in carcere.
3] Duccio Demetrio, La scrittura
clinica.
4] Michael Foucault, Sorvegliare
e punire.
5] Patrizia Patrizi, La patologia
della reclusione, pagg.244-263 in Per non morire di carcere.
Esperienze di aiuto nelle prigioni italiane tra psicologia
e lavoro di rete, a cura di Giorgio Concato e Salvatore Rigione.
6] I Dati sulle presenze,
sulle figure che operano in carcere, sulle patologie vengono
diffusi annualmente dal Dipartimento dell'Amministrazione
Penitenziaria e sono reperibili sul sito del Ministero della
Giustizia.
7] Duccio Demetrio, ibid.
8] Duccio Demetrio, ibid.
9] Philippe Lejeune, Il patto
autobiografico, 1975.
10] Philippe Lejeune, L'io
è un altro, 1980.
11] Franco Cambi, ibid.
12] Franco Cambi, ibid.
13] Paulo Freire, La pedagogia
degli oppressi, 2002.
14] Paulo Freire-Donaldo
Macedo, Cultura, lingua razza. Un dialogo. 2008.
15] Maurizio Lichtner, intervento
sui 'Metodi autobiografici nell'educazione degli adulti' all'interno
del convegno “La scrittura in carcere - Esperienze a confronto”
- 27 febbraio 2007 - Casa Circondariale di Rebibbia.
16] Maurizio Lichtner, ibid.
Bibliografia
Duccio Demetrio, La scrittura clinica.
Franco Cambi, L'autobiografia come metodo formativo.
Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi.
Paulo Freire, La pedagogia della speranza.
Paulo Freire Donaldo Macedo, Cultura, lingua razza. Un dialogo.
Philippe Lejeune, Il patto autobiografico.
Philippe Lejeune, L'io è un altro.
Michael Foucault, Sorvegliare e punire.
Karl R. Rogers, La terapia centrata sul cliente. (A cura di)
Maria Rosaria Mancinelli, Tecniche d'immaginazione per l'orientamento
e la formazione.
Petruska Clarkson, Gestalt Counselling.
Antonio Gramsci, quaderni dal carcere.
Articoli e interventi
Caterina Benelli in Narrazioni ed autobiografia in carcere.
Patrizia Patrizi, La patologia della reclusione, pagg.244-263
in Per non morire di carcere. Esperienze di aiuto nelle prigioni
italiane tra psicologia e lavoro di rete, a cura di Giorgio
Concato e Salvatore Rigione.
Atti del convegno “La scrittura in carcere - Esperienze a
confronto” - 27 febbraio 2007 - Casa Circondariale di Rebibbia
( interventi di Ornella Favero, Maurizio Lichtner e Luigi
Manconi).
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