Écritures de soi en souffrance
Orazio Maria Valastro (sous la direction de)
M@gm@ vol.8 n.1 Janvier-Avril 2010
LA SCRITTURA AUTOBIOGRAFICA COME GIUSTIFICAZIONE DI UN PERCORSO
Madjid Touzouirt
touzouilt@yahoo.com
Chargé de Cours Département d’Italien
Université de Blida, Algérie.
Introduzione
Erri De Luca è uno scrittore che decide di raccontare negli
anni ottanta (1985-1986 secondo l’autore), nel suo romanzo
Non Ora Non Qui, la storia della sua gioventù durante la quale
è stato protagonista, negli anni sessanta e settanta, di un
movimento universale di protesta contro un’ideologia, una
cultura, una società, un modo di vivere. Egli svolgeva la
funzione di responsabile del servizio d’ordine dell’organizzazione
extra-parlamentare lotta continua.
1. Le caratteristiche del romanzo autobiografico
Un vantaggio dell’uso della prima persona è che permettendo
al personaggio di esprimere i suoi sentimenti, pensieri ed
esperienze, il lettore è attratto ed invitato ad introdursi
nella vita del narratore che si svela a lui. In merito a questo
rapporto tra “l’io” del romanzo e il lettore, D’Intino [1]
sostiene che anche gli autori autobiografici, che affidano
al testo la trasmissione di valori generali e universali,
si riferiscono quasi sempre ad una realtà extratestuale precisa
e vicina composta da: “l’io” storico dello scrivente; un pubblico
incluso in un giro d’orizzonte più o meno largo, ma contemporaneo;
e un contesto storico riconoscibile e comune ad entrambi.
A volte lo svolgimento del racconto alla prima persona crea
un’intimità confessionale intensa. La scrittura, in questo
caso, acquisisce il carattere di una registrazione diretta
di un processo di maturazione che si innesca nel momento in
cui si comincia a pensare in retrospettiva alla propria vita
in cerca di un’identità. Un simile processo può diventare
uno degli strumenti di una vera e propria terapia che spinge
a ripensare il proprio passato e a scriverlo in un libro al
fine di giungere a una comprensione e accettazione di sé e
del mondo. Per questo motivo, Duccio Demetrio (2001) sostiene:
“Il romanzo autobiografico ha il carattere terapeutico come
se chi scrive volesse ripercorrere attraverso la narrazione
alcuni momenti della propria vita per motivi personali ed
interiori”.
Quindi, la domanda che possiamo formulare è qual è l’obiettivo
mirato da Erri De Luca scrivendo un romanzo autobiografico?
Sarebbe: la volontà di lasciare una testimonianza e lottare
contro la dimenticanza l’oubli; la volontà di confessarsi
come ha fatto Sant’Agostino; l’obbligazione di giustificarsi
come Rousseau; o usare la sua autobiografia per difendere
una tesi, un punto di vista o trasmettere un messaggio come
ha fatto Sartre? Crediamo che in questo caso lo studio dell’etica
e della doxa chiarirebbero la nostra curiosità.
2. Il narratore come testimone e l’etica
Il romanzo di Erri De Luca, secondo noi, è monologico [2]
per il fatto che il narratore anziano, ribelle, assume il
compito di istruire la tesi dell’opera: la orienta e commenta
il percorso ideologico dei personaggi ed i loro errori. Egli
possiede un campo di visione che domina rispetto ai personaggi
che giudica, per addirittura condannare alcuni di loro. Così,
si localizza facilmente la posizione ideologica del narratore
attraverso le idee che sono esplicitamente affermate. Quelle
non condivise sono sviluppate come caratterizzazioni dei personaggi
o supporti di una confutazione. Possiamo, perciò, dire che
l’autore prende il lettore per mano per spiegargli il suo
modo di concepire il mondo e fargli ammettere una visione
politica particolare.
Gli studiosi sostengono che spesso, in paragone col fare del
personaggio, che appare sempre esplicitamente al livello attanziale,
il pensiero del narratore, che gestisce il romanzo, resta
nella maggior parte dei casi implicito. Nel caso del romanzo
di De Luca, però, è esplicito e svolge tre funzioni nel suo
progetto narrativo: giustificare, spiegare e convincere.
La morale è anzitutto una valutazione delle condotte socializzate.
Ogni etica o valutazione morale accentua, mette in rilievo,
discrimina, distingue fra i personaggi. Se questa valutazione
è dappertutto nel testo, il romanzo è, peraltro, un luogo
testuale ideologicamente molto marcato, dove l’etica del narratore-personaggio
ed i suoi rapporti con le leggi morali si esprimono direttamente.
Egli introduce dei personaggi, li descrive, ne racconta una
storia e la commenta, per presentare degli argomenti diversi
in difesa delle sue convinzioni morali. In questo lavoro,
non sono i suoi compagni di lotta da convincere, ma i giovani
che sognano che regni l’equità e l’uguaglianza nel mondo.
La morale veicolata è, oltre alla necessità della comprensione
umana e l’importanza della solidarietà, quella di combattere
l’ingiustizia e l’autorità e condannare il fatalismo e la
passività.
La fonte di valutazione del romanzo è, quindi, il narratore-personaggio:
è lui che seleziona i dettagli che meritano l’attenzione del
lettore nei ritratti e nel seguito degli avvenimenti. L’immagine
che il lettore ha del personaggio dipende, così, dal modo
con cui è presentato dal narratore. Egli distribuisce le positività
e le negatività tra i personaggi, riferendosi a un sistema
di valore ben definito che è sottostante al romanzo.
Vincent Jouve afferma in proposito: “La nostra visione del
personaggio dipende, prima del suo ritratto fisico e morale,
dal modo con cui è presentato nel testo” (1992: 197). Si tratta,
quindi, di un sistema di valori intrinseci che è sottostante
all’opera e che serve da punto di riferimento al lettore per
orientare la sua valutazione.
Il narratore, così, tratta con il narratario che rappresenta
i giovani, di cui anticipa le attese e le obiezioni e di cui
sollecita l’adesione. In effetti, dietro l’apparente testimonianza,
si tessono, in modo indiretto, dei procedimenti argomentativi,
che trasformano questo racconto di vita in una vera requisitoria
dotata di un contenuto etico.
In linea di massima, emana dal romanzo un conflitto tra due
sistemi di valori sottoforma di un conflitto tra il personaggio
del narratore, che incarna un’ideologia egualitaria di tendenza
socialista e quello della madre, che incarna un’ideologia
dominatrice e conservatrice.
2.1. Il personaggio del narratore
Il narratore si autovaluta in quanto personaggio. Questa valutazione
gli permette di giudicare, insieme, le sue azioni anteriori,
presenti, future e di paragonare il suo essere passato, in
quanto bambino, alla fase presente della sua evoluzione, in
quanto anziano. L’autovalutazione testimonia anche del progresso
del narratore bambino da una persona muta, balbuziente a una
persona anziana, che padroneggia la parola e valuta anche
gli altri personaggi. Si tratta anche della sua appartenenza
a un sistema di valori: il narratore bambino, passivo e dominato,
acquisisce col tempo il coraggio per superare questa situazione
e diventare attivo e ribelle rispetto all’ordine stabilito,
incarnato dal personaggio della madre.
Il narratore anziano rievoca il suo passato per spiegare l’evoluzione
che ne risulta: si presenta come un uomo stufo del mondo dove
vive, e, che decide di rifiutare l’ingiustizia e le concessioni.
La sua ideologia e le sue convinzioni le espone man mano evocando
gli altri personaggi. Gli piace la casa del vicolo che si
trova in un quartiere popolare e odia la nuova casa che si
trova in un quartiere ricco. Potremmo, perciò, dedurre che
egli veicola un’ideologia di sinistra, vicina alla classe
operaia.
2.2. La madre
È il personaggio con cui il narratore si confronta durante
tutto il romanzo. Lei è descritta come rigida, autorevole
e dominatrice, perciò diventa il punto di riferimento della
legge e istituisce la morale. Lei, che proviene da una famiglia
ricca, dopo un periodo di povertà dovuta alla guerra, riacquista
la sua agiatezza economica. Di conseguenza decide di cambiare
casa e di abitare in un quartiere ricco con altre famiglie
benestanti e gli americani. Perciò, raffigura la borghesia
insieme all’autoritarismo. Ma rappresenta anche l’anima del
narratore, immortale, che gli racconta il male che caratterizza
il mondo: “Il male che mi insegnavi a riconoscere, io lo vedevo
causato dalle persone. Mi sorvegliavo per non procurarlo,
perché anche un rossore risparmiato ad un altro fa parte delle
proprie responsabilità. Non tutti ebbero una madre che spiegava
il male” (p. 79).
Questo personaggio sembra assumere, in realtà, un ruolo paradossale:
esso incarna nello stesso tempo l’autorità a cui il narratore
si oppone e dalla quale cerca di liberarsi, e l’anima che
lo guida nella sua vita.
2.3. L’appropriazione della parola del padre
Si tratta di una strategia discorsiva in cui il narratore
prova ad assicurarsi la sua legittimità e a dare un certo
impatto alla sua propria parola. Nonostante, infatti, la forma
del dialogo tra il narratore e la madre che caratterizza il
romanzo, la comunicazione si svolge a senso unico. Il romanzo
affronta gli atteggiamenti del giovane in un discorso autobiografico
e l’analisi esterna adulta che lo spiega. Così, alla spontaneità
del narratore quando era bambino si oppone la lucidità del
narratore quando è diventato vecchio.
In queste condizioni, il narratore, avendo come scopo l’uso
di una strategia discorsiva alla ricerca di una parola singolare,
legittima ed efficace, si rivolge alla madre in una specie
di dialettica, ma che consiste in realtà nell’evocare l’opinione
della madre, solo per giustificare la sua presa di posizione.
Questa presa di posizione, in verità, la eredita dal padre.
Quindi, quest’ultimo, anche se non è molto presente, viene
posto come la fonte della morale su cui appoggia il romanzo.
In effetti, attraverso un dialogo tra il narratore e suo padre,
quest’ultimo gli consiglia di non aspettare:
- Papà, se io non voglio stare in attesa e voglio stare senza
attesa, posso? Allora interruppe di radersi, aprì del tutto
la porta e, come se avesse capito una cosa, non so quale,
disse solo così: ‘‘Se tu sarai capace di stare senza attesa,
vedrai cose che gli altri non vedono.’’ Poi aggiunse ancora:
‘‘Quello a cui tieni, quello che ti capiterà, non verrà con
un’attesa.’’ Aveva metà della faccia rasa e metà ancora insaponata,
in una mano il rasoio nell’altra il pennello. Si chinò un
poco su di me per farsi intendere. Lo guardai con tutto il
campo degli occhi. Non era lui, nemmeno la voce era la stessa.
Neanche ero sicuro di essere stato io a domandare. Credette
che non avessi capito, con un poco di sorriso si rimise allo
specchio e mi disse di stare attento a quando tornavi tu.
Non seppi domandare, non capii la risposta, ma non ho dimenticato.
Quel giorno mi distolsi dalle attese, imparai a non attendere.
(p. 55)
Le attese, secondo gli psicologi, formano con le speranze
una coppia e sono iscritte all’interno del tempo, più precisamente
nel futuro: l’attesa di cui parla il romanzo è legata all’avvenire
immediato, come quello della madre che è legato all’evento
del ritorno del padre, mentre la speranza è legata a un futuro
lontano, quello a cui il narratore aspira, pieno di promesse
senza tracce dell’ansia, dell’inquietudine, della perplessità
e dell’insicurezza che ci procura l’attesa.
Il narratore ha deciso, seguendo l’esempio dei suoi compagni,
di non attendere e quindi di essere attivo, perché tutti avevano
la speranza di realizzare insieme un progetto e un ideale
e sono andati verso il tempo. L’hanno provocato e hanno contribuito
alla costruzione della storia umana, anche se non sono riusciti
a raggiungere completamente il loro obiettivo, sia perché
la gente era “folla” e quindi non seguiva, sia perché fra
i compagni di lotta c’erano anche dei traditori. In conseguenza
a ciò, il narratore si rassegna, come ha fatto prima di lui
Massimo (il suo personaggio modello). Si ferma e si ferma
anche con lui il tempo. Scopre così la noia: “Porto il vuoto
che mi hanno lasciato e mentre mi tengo le mani mi sento spuntare
impazienza e impulso di smettere il tempo della foto e dell’autobus”
(p. 88).
Nonostante la delusione, egli non si scoraggia perché considera
il passato solo una battaglia persa. La speranza nel realizzare
quegli ideali e quei valori continua con i giovani, che credono
nella stessa anima perché è immortale. Essa, al contrario
degli esseri umani, trascende il tempo e la vecchiaia, e rimane
soprattutto legata ai giovani: “Sei giovane, un’età tua che
non ricordo più. Si dice che le mamme non abbiano età” (p.
15), ai quali, il narratore consiglia di continuare la battaglia
e di non confinarsi nella passività. Questo sarebbe il messaggio
trasmesso dal romanzo ai giovani.
3. La doxa come fondamento dell’argomentazione
La doxa o l’opinione comune ha un grande ruolo nella comunicazione
verbale. Appoggiandosi su di essa, l’oratore tenta di far
aderire i suoi interlocutori alle tesi che egli presenta per
ottenere il loro assenso. Inoltre, siccome la doxa, a cui
è ancorata l’argomentazione, è un’entità coerente, retta da
una logica sotterranea, il discorso del narratore si conforma
a una specie di dottrina. In effetti, è in uno spazio d’opinioni
e di credenze collettive che il narratore di De Luca tenta
di chiarire una posizione personale e un percorso e di consolidare
un punto di vista. Il sapere condiviso e le rappresentazioni
sociali costituiscono quindi la base di ogni argomentazione.
Per capire la situazione di narrazione e il dispositivo enunciativo
che determinano l’argomentazione, bisogna prendere in considerazione
i diversi strati di dati storici: si tratta del movimento
del sessantotto, che ha avuto come protagonisti dei giovani
di ideologia leninista-marxista, sollevati contro gli antagonisti
capitalisti e le diverse forme di autorità politiche o sociali.
All’interno di questo quadro, bisogna citare l’autorità dell’autore
e il suo ruolo di militante di lotta continua. L’altra parte
è costituita dalle nuove generazioni degli anni ottanta in
poi, che egli tenta di sensibilizzare.
Quindi la conoscenza di ciò che si diceva e si pensava rispetto
a quell’epoca è necessaria alla buona comprensione di un discorso
argomentativo. A maggior ragione, quando si tratta di un movimento
che ha suscitato e continua a suscitare tante polemiche rispetto
al suo impatto sulla società, i cambiamenti che è riuscito
a provocare, la sua mira, il suo metodo di protesta e, soprattutto,
la violenza a cui era associato e le sue conseguenze. Perciò,
la conoscenza di una doxa, che prende la forma di un’ideologia,
è necessaria per effettuare un’analisi pertinente dell’argomentazione
nel discorso.
Inoltre, bisogna indicare che la doxa è divisa in due forme
che chiamiamo topiche. La topica nelle sue dimensioni retorica
e pragmatica è legata alla concezione moderna del ‘luogo comune’
come opinione condivisa o tema familiare. Il luogo comune
si esprime attraverso una grande varietà di forme verbali.
Comunque ci sono due grandi categorie: quella degli enunciati
doxici che raggruppa le generalizzazioni espresse, cioè le
sentenze, e quella che rileva dalle rappresentazioni sociali
che emergono nel discorso in un modo più o meno implicito,
cioè lo stereotipo.
3.1. La sentenza
Aristotele [Réthorique (1991: 254)] definisce la sentenza
come un’affermazione che porta non sui fatti particolari ma
su delle generalità. Essa, quindi, consisterebbe nell’esporre
una relazione diventata indipendente da situazioni particolari
o da uno stato di cose. Inoltre, le sentenze sono classificate
in due categorie: quelle che sono autosufficienti perché appartengono
all’opinione comune, e quelle che sono accompagnate da una
dimostrazione per essere convincenti.
Nel nostro caso, abbiamo un narratore che proferisce delle
sentenze di sua propria invenzione, con lo svantaggio, però,
di non poter appoggiarsi su un’autorità esterna, che rappresenterebbe
una saggezza globale o collettiva e che servirebbe a legittimare
il suo discorso. In questo caso, Aristotele segnala la necessità
di motivare la verità generale e di usare delle sentenze solo
in modo appropriato, cioè nelle circostanze dove il locutore
non si ritrovi a produrre abusivamente delle generalizzazioni.
Per il filosofo greco, è inconveniente parlare usando sentenze
se non si è raggiunta un’età rispettabile o se non si ha nessuna
esperienza sull’argomento in questione. In altri termini,
la sentenza è efficace solo in rapporto all’ethos dell’oratore.
Perciò, il rimedio trovato nel romanzo di Erri De Luca è quello
di affidare questo ruolo a un narratore anziano, che rivisita
per una seconda volta con l’occhio di un osservatore gli avvenimenti
di un passato, di cui era protagonista. Queste sentenze sono
presenti lungo il romanzo e riguardano argomenti che vanno
dall’importanza della scrittura come testimonianza per chiarire
un evento storico, specificando che si tratta di un movimento
spontaneo, al concetto della vita e della morte, indagati
dal punto di vista della dottrina esistenziale, che per altro,
proveremo ad analizzare, in seguito, attraverso l’analogia,
predicando le lodi di valori come l’attivismo, la responsabilità,
la lealtà e la solidarietà.
3.2. L’analogia tra giocattolo e vita
Le domande argomentative, molto presenti dalla pagina 37 alla
pagina 40, sono usate come per segnalare la natura intensamente
argomentativa di questa parte del romanzo, e lasciar presagire
l’ideologia su cui è fondata tutta l’opera: la dottrina dell’esistenzialismo.
Questa difende la libertà individuale, la responsabilità e
la soggettività. Il narratore comincia a parlare della proprietà.
La proprietà dei giocattoli, infatti, lo preoccupa perché
è legata à una condizione, e lui desidera una libertà assoluta
senza costrizioni. Notiamo che egli insiste sulla domanda,
che riguarda la proprietà, e che viene ripetuta due volte,
la cui risposta è sempre legata a una costrizione. Descrive
il giocattolo come un oggetto che ha una durata nella quale
si usa, poi si abbandona. Ma la domanda che incuriosisce il
narratore è l’attimo della sua fine. Egli, infatti, scopre
che la morte non è uguale per tutte le cose e che ci sono
oggetti che cominciano a invecchiare solo dopo averla attraversata.
Così, il giocattolo invecchia solo dopo che si è rotto, e
quindi, dopo che è morto. Dice che il gioco dura solo il brevissimo
spazio di tempo che costituisce l’istante della sua rottura
e che quell’attimo vale tutta la sua durata precedente. Di
conseguenza arriva alla conclusione che solo al momento della
sua morte il gioco è veramente di chi l’ha in mano e aggiunge
che solo questa condizione ne completa il possesso.
Il narratore usa, in seguito, un’analogia tra il gioco e la
vita dichiarando: “solo in morte la vita è interamente di
chi l’ha vissuta, e il possesso è senza donatori, senza rimproveri”
(p. 39). Poi si rivolge a sua madre usando la domanda: “È
mia la vita che mi desti?” e, alla fine, risponde alla sua
domanda: “Sta sera sì, è mia del tutto” (p. 40).
Così, con la morte nell’autobus, egli completa il possesso
della sua vita. In realtà, questa analogia applicata alla
propria vita dal narratore sembra essere una dichiarazione
del dovere compiuto.
Le idee di questo passaggio sono ispirate dalla dottrina dell’esistenzialismo
ateo, che afferma che l’esistenza precede l’essenza, nel senso
che l’uomo prima sorge nel mondo poi esiste e alla fine si
definisce attraverso le sue azioni di cui è pienamente responsabile.
Perciò, ogni persona è un essere unico che è padrone dei suoi
atti e del suo destino.
La questione della completa proprietà della propria vita,
sottolineata con insistenza dal romanzo, pone il concetto
dell’ateismo, che spiega il dissenso del narratore nei confronti
della chiesa. L’esistenzialismo sostiene che se l’uomo non
può essere definito all’inizio della sua esistenza è perché
prima non è niente. Solo, dopo, diventa tale quanto ha scelto
di farsi. Quindi, siccome non c’è Dio per concepirlo, per
dargli un’anima predeterminata, siccome all’alba della sua
esistenza l’uomo non è niente, il suo futuro gli appartiene:
ciò che egli è, e, ciò che egli sarà gli appartengono.
Di questa dottrina citiamo due concetti fondamentali che la
caratterizzano. Il primo concetto è quello della libertà,
con cui essa sostiene che dato che non c’è né morale né ci
sono valori preesistenti all’uomo, allora non c’è nessuna
giustificazione ne scusa: l’uomo sceglie i suoi valori da
solo, perciò, è libero. Egli è il solo responsabile di fronte
a sé e alla civiltà, dei suoi atti. Quindi, l’unica essenza
che può preesistere all’uomo è la libertà. Una libertà incondizionata
e assoluta, di attitudini e di scelte, che è la condizione
primaria a una qualsiasi responsabilità umana. Conformandosi
a questo principio, il narratore decide di liberarsi dalla
dominazione della madre che rappresenta l’istituzione educatrice
che istituisce la morale, come l’hanno fatto i suoi coetanei,
cioè, ‘i bambini’ che hanno condotto il movimento del sessantotto:
“Non ora, non qui. Avevi ragione, molte delle cose che mi
sono accadute furono errori di tempo e di luogo, cose da dire:
non ora, non qui. Però a questo vetro d’autobus mi accorgo
di essere in un’ora e in un posto a me riservato da tempo”
(p. 44).
Partendo da questo concetto, egli critica gli uomini rassegnati
che scelgono di non battersi per un mondo migliore che sarebbe
l’Italia-nave, l’Italia-Andrea Doria e non l’Italia-terra
ferma. Questi uomini costituiscono la folla, una pietra, un
anello manipolabile da quelli che hanno il potere.
Il secondo concetto è quello della responsabilità, in quanto
l’uomo determina sé stesso. La sua essenza è il risultato
del suo progetto di essere. Non è ciò che ha voluto essere,
ma è il risultato delle sue scelte. Egli quindi è responsabile
di ciò che è. Perciò, il narratore dichiara: “Il male che
mi insegnavi a riconoscere, io lo vedevo causato dalle persone.
Mi sorvegliavo per non procurarlo, perché anche un rossore
risparmiato ad un altro fa parte delle proprie responsabilità”
(p. 79).
Inoltre, al di là della responsabilità individuale, secondo
la stessa dottrina, l’uomo è responsabile davanti all’umanità:
egli, definendosi attraverso le sue scelte, sceglie di dare
un certo modello, una certa immagine, coinvolgendo così con
le sue scelte l’insieme dell’umanità. Il narratore, infatti,
afferma: “Allora, non so più come fu, io capii che non ero
testimone di tutto quel male e del mondo, ma responsabile”
(p. 58).
Il narratore asserisce, peraltro, che nessuno ha il diritto
di sottrarsi alle sue responsabilità in un mondo ingiusto,
dove sono sfruttate le categorie sociali povere, sull’esempio
di Filomena, da parte della borghesia e degli imperialisti,
alla loro testa gli americani.
Partendo dal concetto della responsabilità, questa dottrina
ha affrontato il problema della responsabilità degli scrittori.
Essa, infatti, pensa che dato che l’uomo definisce con le
sue scelte il senso della vita in generale e impegna simbolicamente
l’umanità nella via che egli sceglie, lo scrittore deve sentirsi
impegnato. Pertanto, uno scrittore scrive sempre affinché
nessuno si consideri innocente di ciò che succede nel mondo.
Egli mostra la realtà e incita il lettore a cambiare le situazioni
che narra perché, secondo questa dottrina, scriviamo sempre
per gli altri, mai per sé. Sarebbe per questo che Erri De
Luca rievoca il movimento del sessantotto ai giovani per spiegare
i suoi ideali e valori e trasmettere il simbolo della sua
lotta contro i mali del mondo, che perdurano anche oggi, alle
nuove generazioni? Il suo narratore, in realtà, stima che:
“Parlare è percorrere un filo. Scrivere è invece possederlo,
dipanarlo” (p. 25).
3.3. Lo stereotipo
Per Ruth Amossy (2000: 110) lo stereotipo deve essere concepito
come un elemento doxico senza il quale nessun’operazione di
categorizzazione o di generalizzazione sarebbe possibile,
così come nessuna costruzione d’identità e nessuna relazione
all’altro potrebbero elaborarsi. Lo stereotipo, quindi, assume
un ruolo importante nell’argomentazione. In effetti, in quanto
rappresentazione collettiva fossilizzata che partecipa della
doxa ambiente, esso fornisce il terreno sul quale potranno
creare comunione i partecipanti all’interazione. Perciò, l’allocutario,
che aderisce alle immagini proposte, potrà lasciarsi convincere
dall’argomentazione che si alimenta dalle rappresentazioni
che provengono dalla sua propria visione del mondo.
Studiando la doxa, che può contribuire a chiarire l’ideologia
del discorso, si studia la valorizzazione. E dato che i valori
si oppongono secondo un andamento polare, ci serviamo degli
antonimi per precisare la contrapposizione contro l’autorità
e la dominazione su cui è fondato il romanzo di Erri De Luca,
basandoci sull’osservazione di François Rastier(2004):
Risquons toutefois une bénigne hypothèse cognitive : le binarisme
séduit parce qu’il est facile à comprendre. Les travaux expérimentaux
menés depuis un siècle sur les associations et l’organisation
du lexique mental ont toujours confirmé que l’antonyme vient
à l’esprit dans le temps le plus court. Aussi la relation
d’antonymie reste privilégiée par les discours de propagande,
car elle exige peu d’efforts.
Pensiamo che questo procedimento sia adoperato nel romanzo
per garantire un massimo successo alla trasmissione del messaggio
alle nuove generazioni.
È secondo lo stereotipo della Destra e della Sinistra che
riprende un concetto antico del ricco e del povero, del padrone
e dello schiavo, del borghese e del lavoratore, del proprietario
e dell’operaio, del capitalista e del comunista, che viene
concepita l’ideologia della lotta e della contrapposizione
tra due mondi antagonisti, a cui il narratore aderisce, adoperando
delle opposizioni tra il personaggio del narratore, che intenderebbe
conquistare la sua libertà e il personaggio della madre, che
a sua volta sarebbe determinato nel voler continuare ad instaurare
la sua dominazione; tra il personaggio del padre, che si sarebbe
compromesso con la Destra e il personaggio del nonno, che
avrebbe fondato la sua politica sul proletariato; tra la sorella,
che sarebbe radicale ed estremista e Massimo, che sarebbe
moderato; tra Filomena, che rappresenterebbe la classe dei
lavoratori e gli americani, che rappresenterebbero il sistema
capitalista e imperialista; tra la folla, che designerebbe
la gente passiva che accetta la sua sorte e l’Italia-nave,
in movimento; tra il personaggio di D’Annunzio, che sarebbe
privo di veduta politica e il mar-tirreno, che richiederebbe
una strategia e una abnegazione continua; tra il personaggio
della moglie, che rappresenterebbe l’organizzazione di lotta
continua e che si impegnerebbe per attuare la giustizia sociale
e i responsabili, che instaurerebbero l’oppressione; tra il
personaggio dei coetanei-bambini, che avrebbero assunto la
loro responsabilità, sollevandosi contro il male e Dio o la
chiesa, che si confinerebbe nel silenzio.
Al livello lessicale abbiamo anche delle opposizioni o delle
antinomie che possiamo riassumere in: acqua/pietra, rilevate
dal discorso del narratore riguardo il personaggio della folla,
e che corrisponderebbero successivamente alla gente attiva
e alla gente passiva;
colpi/gridi, riguardo al personaggio dei bambini e che corrisponderebbero
successivamente all’aggressore e all’aggredito;
nave/terra ferma, riguardo al personaggio personificato dell’Italia
e che corrisponderebbero successivamente all’evoluzione e
alla stagnazione;
buio/luce, riguardo al personaggio Dio e che corrisponderebbero
successivamente all’ignoranza e alla razionalità.
Di conseguenza, ci risulta un punto di vista di un narratore
che denuncia la classe dominante e l’assoggettamento. È questo
punto di vista globale, difeso nell’insieme del romanzo, che
si manifesta nel testo attraverso la scelta di un lessico
dispregiativo (asino per i passivi), delle associazioni ideologiche
dei lavoratori (designati come poveri), della borghesia (designata
come un gruppo di approfittatori), che orienterebbe, in realtà,
l’interpretazione del romanzo.
L’interazione argomentativa è fondata, così, su un sapere
condiviso che conferisce al dire la sua plausibilità. Le sue
premesse ed i punti d’accordo su cui il narratore fa leva
sono presi a prestito a una doxa accreditata dall’uditorio.
Perciò, le nozioni di sentenza e di stereotipo permettono,
come abbiamo visto, di afferrare i punti consensuali attraverso
cui il narratore comunica con il suo auditorio e negozia le
sue posizioni.
Conclusione
La disposizione enunciativa del romanzo, attraverso la contrapposizione,
riflette un’organizzazione sociale ed economica, la rivendicazione
di un’etica, e rispecchia un posizionamento ideologico. Appare,
infatti, chiaro nel romanzo una tensione che troviamo presente
dall’inizio fino alla fine dell’opera mediante la sequenza
principale del testo che delinea l’incontro del narratore
con la madre, di fronte a cui espone una sua esperienza vissuta
per una valutazione. Si tratta di una valutazione a posteriore,
sottomessa a un tipo di anima, quella che si rammarica del
male e delle ingiustizie del mondo, generati dalla classe
ricca e borghese, e subiti dalla classe operaia. Questa valutazione
di un percorso è sopposta più oggettiva, perché fatta da un
anziano. La tensione tratta, inoltre, la problematica dell’esistenzialismo,
dell’individuo di fronte alle sue responsabilità e delle sue
aspirazioni a un mondo migliore privo di ogni forma d’ingiustizia
e di sottomissione. La madre assume un ruolo protettore ma
nello stesso tempo invadente e dispotico. Nondimeno il narratore
anziano riesce a liberarsene scegliendo una direzione mediante
cui realizzerà le sue aspirazioni. Con questa decisione, egli
invita tutti quelli che hanno la stessa anima a reagire. Pensiamo
perciò che “l’io” del romanzo racchiuda un “io” collettivo
in cui si identificano tutte le persone che hanno preso la
stessa decisione (o che sono stati coinvolti dagli stessi
eventi), insieme a tutti quelli che hanno gli stessi sogni.
Sarebbe una giustificazione di un percorso per i primi, i
suoi compagni di lotta, e un invito a reagire e ad assumersi
per i secondi, i giovani.
Note
1] In p. 63, D’Intino cita
Petrarca, che pur sapendo bene di rivolgersi ad una cerchia
larghissima di lettori posteriori, e di investire il suo testo
di un significato universale, sceglie comunque di adottare
la forma epistolare, tipica della comunicazione ravvicinata
e immediata con persone conosciute.
2] Bachtin propone la tesi
che il dialogismo si stabilisce al livello delle idee personificate,
nellle quali, si manifesta anche la distinzione tra le opere
monologiche e quelle dialogiche. Per Bachtin, un’opera è monologica
quando tutte le idee affermate si fondano nell’unità della
coscienza dell’autore che guarda e rappresenta; mentre nell’opera
dialogica, le idee sono distribuite tra i personaggi, non
in quanto idee valide in sé, ma in quanto manifestazioni sociologiche
o caratterologiche del pensiero.
Bibliografia
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