Itinerari visuali
Marco Pasini - Giorgio Maggi (a cura di)
M@gm@ vol.7 n.2 Maggio-Agosto 2009
DUE MIGRAZIONI: APPUNTI DI FOTOGRAFIA
Marco Delogu
marco@marcodelogu.com
Affianca all’attività di fotografo,
quella di editore e curatore di mostre. Nel 2002 ha ideato
FotoGrafia - festival internazionale di Roma, di cui è il
direttore artistico. Nel 2003 ha fondato la casa editrice
Punctum. Ha esposto in Italia e all’estero, in molte gallerie
e musei, tra cui l’Accademia di Francia, Villa Medici, Galleria
Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, Palazzo delle Esposizioni,
Musei Capitolini ed Ex GIL a Roma; Warburg Institute a Londra;
Henry Moore Foundation a Leeds; IRCAM - Centre George Pompidou
a Parigi; Museè de l’Elysee a Losanna; PhotoMuseum a Mosca.
Ha pubblicato oltre 20 libri, fra cui: Cardinali (Bruno Mondatori,
Milano 2001); Senex (Leonardo International, Milano 2002);
I trenta assassini (Punctum, Roma 2004); Cattività (Punctum,
Roma 2006); 2 Migrazioni (Punctum, Roma 2007); 4 Studi di
Cavalli (Punctum, Roma, 2007).
Sono
andato a fotografare i protagonisti della bonifica dell’Agro
Pontino nel 1994.
Volevo entrare in contatto con queste persone al centro di
un’impresa del Novecento, una sorta di strano West italiano.
Quei piccoli viaggi nell’Agro Pontino e l’incontro con quelle
persone, che, nate nell’Italia del Nord Est, avevano fatto
il viaggio in treno a sud di Roma e poi erano state portate
negli oltre tremila poderi della bonifica, mi erano rimasti
dentro. Da molti anni la grande parete sopra il mio tavolo
è allestita con dodici ritratti del ’94, ed ero andato a ritrovare
alcuni degli uomini e delle donne che avevo fotografato negli
anni successivi. Ero e sono molto interessato ai loro racconti
e provo un interesse profondo per quelle storie forti e autentiche.
Ho sempre meditato di ritornare nell’Agro Pontino, e anche
di andare nel Triveneto per incontrare quelli che, arrivati
per la bonifica, avevano preferito tornare indietro. L’ho
fatto solo nel 2007 e ho ritrovato tre dei fotografati nel
’94: Libero e Bruno Stefani, e Santa Zago, moglie di Bruno.
Per Libero il tempo sembra non passare e tra i miei vecchi
fogli dei contatti ho ritrovato e stampato una fotografia
molto simile a quella appena realizzata; Bruno ha perso un
occhio per un intervento sbagliato a una cataratta. Abitano
a Borgo Montello, nello stesso podere che era del padre sin
dal 1933, e mi hanno raccontato una storia che non conoscevo
e che riguarda gli ultimi arrivi per la bonifica: 67 nuovi
poderi costruiti alla fine degli anni ‘30 nel comune di Ardea
per altrettante famiglie di italiani rimpatriati dall’Ungheria,
dove erano arrivati nei primi anni del Novecento dalla provincia
di Trento. Questa storia mi ha subito ricordato un altro incontro
e racconto: quello dei fratelli Fantinati, che arrivarono
a Borgo Vodice dalla Romania, dove famiglie di rovigini emigrarono
nel 1870.
Vecchi italiani: Narrano tutti storie di duro lavoro,
di guerra e di morte
Dina Ada Facco arrivò con la famiglia
nel 1931. Suo padre era un operaio che doveva costruire le
prime strade per il centro dell’Aeronautica Militare, sua
madre lavorava alla mensa; non erano coloni, erano operai,
la prima migrazione di operai dal Nord per realizzare le infrastrutture.
Il padre capiva il tedesco e ciò li salvò quando li misero
su un treno per i campi di concentramento. Capì la destinazione
e riuscì a far saltare tutta la famiglia giù dal treno. Dina
Ada fu mandata a Roma e poi in nove giorni di cammino raggiunse
Padova a piedi, scalza, passando sulla via ferroviaria. A
fine guerra seppe della morte dei genitori e di tre fratelli
saltati su una mina mentre cercavano di raccogliere del fieno.
Tornata a Borgo Grappa sposò Mariano Severin.
Armida Mattia ricorda l’infanzia
a Mel nel bellunese quando veniva presa in braccio da Angelo
Sbardellotto, un anarchico amico di famiglia che, dopo anni
di emigrazione in Francia, il 4 giugno del 1932 venne trovato
in Piazza Venezia con due bombe a mano e una pistola e venne
fatto fucilare pochi giorni dopo dal segretario politico del
suo paese natale, il federale Pace; Armida, ancora bambina,
incontrò nella piazza di Borgo Vodice il duce, che le chiese:
“bambina da dove vieni?”, e alla risposta “da Mel” notò un
espressione di disappunto sul volto di Mussolini.
Oltre a queste migrazioni, la Pontina ha visto il primo campo
profughi degli istriani dopo la Seconda Guerra Mondiale, una
migrazione di circa trecento uomini dall’isola di Pantelleria
negli anni ’60, vari movimenti dal Sud d’Italia e le ultime
dall’Est Europa e soprattutto dall’India, con una prevalenza
di sikh del Punjab che lavorano nelle serre sopportando le
alte temperature e il forte tasso d’umidità. Gli indiani sono
quasi tutti lavoratori clandestini arrivati dopo viaggi lunghissimi
e terribili, impossibilitati a tornare a casa. Sono parte
integrante dell’economia della zona, ma non vengono legalmente
riconosciuti.
Sono ritornato per pochi giorni ma ho deciso di passare lì
parte dei prossimi mesi, fare nuove fotografie ma soprattutto
raccogliere altre narrazioni. Le storie che scelgo mi interessano
perché legate a qualcosa che riguarda o ha riguardato la mia
vita. Mio nonno paterno era agricoltore, mio padre era medico
e ha studiato la malaria. L’Agro Pontino, la campagna e l’agricoltura
per moltissimi aspetti mi interessano e mi riguardano, così
come l’identità personale e di gruppo di persone che non abitano
nei loro luoghi d’origine.
Da più di dieci anni trascorro
molto del mio tempo in Maremma. La mia famiglia è sarda e
io sono la prima generazione nata e cresciuta nel “continente”.
Era inevitabile che mi appassionassi a un'altra migrazione:
quella dei pastori sardi che a partire dagli anni ‘50 arrivarono
in Maremma lasciando l’isola per una terra che permetteva
pascoli migliori, era collegata bene via mare, oltre a riprodurre,
rara altra terra in Italia, quella bassissima densità di popolazione
che contraddistingue la Sardegna.
È una migrazione di qualche centinaio di persone, forse poco
più di un migliaio. Portano in Maremma gran parte della cultura
sarda e quella grande abilità nell’allevamento delle pecore.
Molti sono nuclei familiari ancora completamente sardi, rari
i matrimoni con donne “maremmane”, e ancora molti i pastori
che passano la vita da soli.
Giovanni Marrone lavora in Maremma
da molti anni, e abita solo in una piccola casa di ferro propaggine
dell’ovile; vive attaccato a una grande centrale elettrica,
ma non ha né acqua né luce. Non va mai in paese, cammina avanti
e indietro per i pascoli con i suoi cani e munge all’alba
e al tramonto. Una mia amica interessata a fotografarlo è
andata a trovarlo, e lui dopo poco le ha chiesto: “Signorina
possiamo fare amicizia?”
Antonio Cuguttu lavora da oltre
cinquant’anni, gli ultimi quaranta in continente; torna raramente
in Sardegna, dorme in un casale di fronte all’ovile e racconta
di quando andava con i “ragazzi” al night a Viterbo e ogni
tanto quando alzavano troppo il gomito tornavano in “autoambulanza”.
Ora non ci va più, e mi dice “odio la confusione”.
Raffaele Gungui è stato per otto
anni a fianco di Marcello Mastroianni: giravano insieme il
mondo e lui risolveva i problemi pratici. Da quasi vent’anni
è ritornato a lavorare con le pecore, per lui, dice, è una
scelta naturale.
Giovanni Antonio Sola ricorda
quando lui e suo fratello mungevano ancora a mano, il tempo
passava lento, e si parlava in profondità della natura e del
senso della vita. “Il branco è come la famiglia, dobbiamo
saperlo allevare bene sennò tutto finisce.” Alla morte di
suo fratello ha imparato a tosare senza legare le pecore,
come fanno i neozelandesi: “ero rimasto solo, ho dovuto imparare.”
Tutti e tre lavorano insieme in una terra che sconfina dentro
il parco archeologico di Vulci. Sono nati in Sardegna ma sono
in Maremma da tanto.
A distanza di anni le nuove generazioni raramente vogliono
fare il mestiere dei padri: quest’ultimo fattore, insieme
all’apertura delle frontiere con l’Est e alla cosiddetta “crisi
dei Balcani”, ha fatto nascere una nuova migrazione di pastori,
questa volta da est verso ovest, e ai pastori sardi sempre
più spesso si affiancano rumeni, albanesi, macedoni, kosovari
e montenegrini: uomini spesso soli o raramente accompagnati
da mogli e figli, ma che considerano questa una migrazione
temporanea, sperando di tornare in patria presto. Ai pastori
dell’Est si accompagna un’altra migrazione temporanea, due
o tre mesi l’anno nella primavera inoltrata: quella di giovani
pastori australiani o neozelandesi che vengono per la tosatura
delle pecore, una specializzazione che velocizza i tempi dell’operazione
e trasforma un vecchio rito in una strana giornata all’insegna
di birra sarda e musica rock.
Il mio lavoro è incentrato prevalentemente sul ritratto trovando
il mio filo conduttore in progetti che si concentrano su gruppi
di persone. Lavoro per ritratti di comunità attraverso ritratti
singoli che in qualche modo possono comporre il ritratto di
una comunità che principalmente ha un’esperienza in comune
molto forte. Scelgo l’interazione con il soggetto per tentare
un indagine fotografica. Il mio è un approccio ‘psicologico’,
molto spesso infatti i miei scatti sono intenti a trasmettere
una gravità di condizione, concentrandomi sul significato
e l’utilità sociale dell’arte iconografica.
Scatto soltanto in verticale e con la dimensione 4 x 5, perché
le mie fotografie non sono mai, come si dice in gergo “catturate”,
ma sono sempre frutto di una posa che credo rappresenti la
massima espressione della naturalezza. Prediligo l’utilizzo
del noir et blanc perché riproduce meglio il mio concetto
di equilibrio.
Parola d’ordine: la ricerca del vissuto nel soggetto ritratto
togliendo. Semplificare l’immagine, individuare l’essenziale
e la verità, concentrandosi sullo sguardo umano o rivolgendo
l’attenzione su ciò che lo circonda.
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