Il 2008 è stato fatale. Davvero.
Chissà se nel tramonto o all’alba del mondo oltre o nel mezzo
del suo dì oppure all’happy hour o alla sera in un’osteria
dove il buon barbera o il buon merlot o forse il buon “tocai”,
visto che nell’oltre certe regole di bottega dovrebbero valere
assolutamente nulla (oggi, in terra friulana, il tocai si
dice “friulano” in ottemperanza alle burocrazie europee, ma
a New York si dice tranquillamente “tocai”) Lucio (Luison)
incontrerà mai Franco, Michele oppure Bruno, Piero e perché
no Giacomo. É proprio di Giacomo che desidero ricordare. Un
altro sociologo. Di quelli giunti accademicamente da poco
tempo ma forse sempre stato realmente tale: dottore in sociologia.
Abbiamo visto quindi come sia
possibile analizzare alcuni dati certi nel resoconto narrativo,
giungendo ad una loro interpretazione, non precostituita o
preordinata, né tantomeno affrontandola in chiave di semplice
restituzione rispetto a quanto riferito dal soggetto interessato.
Una sperimentazione che nella sua sostanza ha rivelato la
possibilità di adattare una griglia interpretativa che contenga
alcuni riferimenti espliciti individuati nel corso di qualunque
storia. E’ risultata in questo senso particolarmente utile
per procedere ad un accostamento e ad una comparazione delle
diverse scelte individuali senza scadere in considerazioni
di carattere generale valide a falsificare o verificare una
determinata teoria pregressa. Potremmo allora affermare che
l’analisi narrativa delle storie, resa secondo la prospettiva
del pensiero narrativo, consente di sviluppare una lettura
più chiara dei riferimenti soggettivi determinando una serie
di risultati utili a far luce sulle condizioni dell’esistenza
individuale e del procedere narrativo della propria esperienza
autobiografica pur limitando il suo campo di azione ad ogni
singolo soggetto che viene interrogato e senza alcuna pretesa
di validità universale.
Tramite le parole delle diariste
abbiamo ricostruito questo intimo rapporto con la scrittura
di sé e le abbiamo riconosciuto funzioni che vanno dal semplice
bisogno di condividere la propria storia al bisogno più profondo
di ritrovare se stessi. Fra le parole di ogni racconto, inclusi
quelli riportati su un diario personale, si scorge il perenne
dialogo dell’uomo con la morte, il profondo desiderio di redenzione
ed eternità e lo smanioso bisogno di condividere la propria
esperienza. Dai loro racconti siamo riusciti a trovare le
tracce dei cambiamenti sociali che si sono succeduti dagli
anni 50 ai giorni nostri; forse apparentemente scontati, ma
che trovano la loro concretezza in testimonianze vere di quel
tempo. La prova più affascinante del prezioso valore di quelle
parole custodite in un diario è l’emozione profonda nello
scorgere, sparse all’interno di una vita personale, i segni
di grandi avvenimenti del passato che per noi oggi sono storia
e che per loro, allora, erano quotidianità.
Ormai i lettori di file mp3 -
l’algoritmo di compressione per i brani musicali digitalizzati
- sono entrati nel ventaglio delle tecnologie di uso comune,
soprattutto per quanto concerne l’universo giovanile. All’interno
dell’infinita varietà di marche e modelli però, possiamo sostenere
con buona sicurezza che l’iPod, il lettore mp3 della Apple,
ha saputo conquistarsi una buona fetta di mercato. I motivi
del suo successo commerciale si legano a diversi elementi,
tra i quali non possiamo far a meno di citare la capacità
dell’iPod di assorbire le interpretazioni simboliche proposte
dai suoi fruitori, un processo quasi sconosciuto agli altri
lettori mp3. L’iPod non viene inteso sic et simpliciter come
un oggetto con relativa funzione ma anche come simbolo, un
contenitore di significati mutevoli che gli individui utilizzano
per comunicare ai propri simili la loro solidarietà nei confronti
del “pensiero Apple”. Ma non solo: se tutto ciò fosse vero,
potremmo anche immaginare questo lettore mp3 investito da
valori estetici a tal punto da trasfigurarsi in orpello da
abbinare con il soprabito. È possibile, quindi, pensare all’iPod
non solo come lettore di file mp3 ma anche come un qualsiasi
monile, gioiello e/o accessorio del proprio abbigliamento?
Questa domanda rappresenta la base della ricerca che verrà
approfondita nel seguente saggio, un lavoro che tramite l’utilizzo
di tecniche appartenenti all’universo della ricerca qualitativa
cerca di dare possibili risposte - mai definitive - ai precedenti quesiti.
Sukyo Mahikari (nel prosieguo
Mahikari) è un nuovo movimento religioso non buddhista che
ha origine dal Sekai Mahikari Bunmei Kyodan, fondato in Giappone
da Okada Yoshikazu nel 1963. Il centro della dottrina e delle
attività di Mahikari è il rituale di purificazione detto di
‘trasmissione della luce divina’ (okiyome), mentre il nome
stesso del movimento sottintende la sua natura di organizzazione
dedita alla trasmissione della ‘vera luce’ (ma hikari) e alla
diffusione di insegnamenti sovra religiosi (sukyo). Registrando
un tasso di crescita relativamente elevato (saldo netto tra
iniziazioni e uscite registrate), Mahikari viene oggi considerato
dagli studiosi un nuovo movimento religioso giapponese tra
i più interessanti. In Italia il movimento è presente dal
1974, a seguito dell'apertura di un primo centro di pratica
(dojo) nella città di Milano. I centri di pratica aderenti
alla Federazione Italiana Sukyo Mahikari si concentrano maggiormente
in Lombardia e in Veneto, ma con buoni tassi di crescita anche
nelle altre regioni. La mia ricerca etnografica, della durata
complessiva tre anni e svolta prevalentemente nei centri di
Milano, Lussemburgo e Takayama (Giappone), si è concentrata
sull'analisi di quegli elementi organizzativi del sistema
simbolico di Mahikari che garantiscono l'integrazione del
movimento in diversi contesti geografici nonostante lo spiccato
esotismo delle sue dottrine.
Nel gennaio 2007 ha avuto inizio
il “Corso di Counseling e Terapie Interculturali”; nello stesso
gennaio il Servizio di Diabetologia Pediatrica dell’Azienda
Universitaria Ospedaliera Policlinico Tor Vergata di Roma
ha richiesto la mia collaborazione per un progetto relativo
all’alleanza e all’aderenza terapeutica del minore straniero
affetto da diabete mellito. Ho avuto l’opportunità di partecipare
a questo progetto, poiché avevo avuto precedenti esperienze
nel Servizio di Medicina Solidale e delle Migrazioni, progetto
del medesimo Policlinico. Questo progetto riguarda tutti i
minori autoctoni e migranti affetti dalla suddetta patologia,
in cura presso l’Unità Operativa di Diabetologia Pediatrica.
Il mio ruolo principale all’interno del progetto è quello
di apportare un doppio ascolto medico-counselor durante le
visite di controllo, che possono variare a seconda dell’andamento
della patologia, da una cadenza mensile ad una quindicinale.
Durante questi colloqui il mio primo intento è quello di approcciarmi
alla famiglia in un’ottica sistemica, in seguito di affrontare
una ricostruzione autobiografica della storia familiare e
del processo migratorio.
Lo sviluppo impetuoso delle professioni
sociali nell’ultimo ventennio correlato al processo di costruzione
dello stato sociale in Italia è empiricamente del tutto evidente.
(...) il lavoro sociale è percepito più come artigianato che
non come industria. Gli operatori sociali si sentono come
artigiani della relazione recuperando in questo quadro l’unicità,
ma anche la pesantezza e la temporalità lunga del rapporto
significativo fra persone. (...) Questa descrizione fenomenologica
di quello che abbiamo definito come orizzonte di senso delle
professioni sociali (...). E’ in fondo questa, quella pericolosa
e feconda direzione ad essere chiamata nell’esperienza concreta
di chi agisce nel sociale navigazione a vista bordeggiando
presso coste sfumate e con equipaggi eterogenei e ambivalenti.
Se pensiamo a come i partigiani
del multiculturalismo si oppongono a quelli della separazione
culturale, è evidente la logica separatrice che inevitabilmente
prevale. Sia che vengano citate per opporle gerarchicamente,
sia che ci si sforzi di valorizzarne le differenze in vista
di una migliore coabitazione, le categorie etniche utilizzate,
così come le diverse forme di religione riconosciute, sono
ancora frutto di un’azione che mira a circoscrivere e isolare.
In quest’ottica, la logica del meticciato ci riporta di sicuro
sul sistema fondato sulla divisione, che a sua volta genera
delle categorie politiche chiamate identità. La transdisciplinarietà,
invece, prende le distanze tanto dalla logica relativista,
quanto dalla violenza unilaterale della mondializzazione.
Essa non si insegna, ma sorge al cuore delle intuizioni più
vive, aiuta alla comprensione del sacro, della sacralità laica,
permettendo di cogliere il senso ultimo della realtà con la
lucidità di un’intelligenza non intellettuale. Rifiuta gli
assolutismi disciplinari e si apre, invece, al transculturale
e al transnazionale, si situa al di là delle discipline, ed
ha bisogno di un linguaggio multireferenziale dove anche l’arte
e la poesia sono utili alla percezione dell’ Altrove in quanto
vuoto creatore.
La morte è un fenomeno “regimentato”
dall'imprevisto che si scontra con il desiderio razionale
del prosieguo; non accetta né governo né cura, e l'uomo vuole
neutralizzarne la carica destabilizzante. In molti casi però
il confine tra la vita e la morte è veramente sottile, tanto
sottile che non è più possibile tenere la morte ai margini
della nostra esistenza, essa ne diventa parte. Rientra tra
le pratiche quotidiane che è necessario render parte “almeno”
delle nostre riflessioni, andando oltre quel confine labile
che la separa dalle nostre attività in vita. È in questo modo
che qualcuno “agisce” la morte come si fa con la vita, che
non significa solo affrontarla, ma riconoscerla come parte
esistente della vita stessa, scegliendo di ridurla a fatto
“vitale”. Il nostro mondo dipende da come ci rapportiamo ai
fatti, e tra questi anche alla morte, il nostro “essere umani”
sta in ciò che rientra nel nostro essere in vita e in morte.
Vitalmente morituri, quindi, capaci di vivere e morire, di
“agire” la vita e anche la morte. Ma in verità si tratta di
riflessioni, dei tentativi che mettono insieme astrazione
e azione per comprendere alcune scelte e ridurle a categorie
conoscibili così come l’interpretazione sociologica permette
di fare, tuttavia, direi, che abbiamo ancora molta paura della
morte.
Uno dei concetti su cui mi piace
riflettere è quello della velocità. Più precisamente se sia
possibile connettere l’intelligenza alla velocità. Oggi è
necessario essere veloci e il vivere velocemente ha conquistato
la quotidianità confondendosi strategicamente con la nozione
di intelligenza. Le coordinate della surmodernità: l’accelerazione
della storia, il restringimento dello spazio e l’individualizzazione
dei destini pare abbiano imposto la velocità come conditio
sine qua non sia improbabile conquistare un dignitoso ruolo
sociale. Velocità come chiave di accesso, password obbligatoria,
condizione connettiva con cui l’io finalmente accede all’attuale
e soprattutto intelligente modo di vivere. La mia riflessione
si concentrerà sull’esempio di lentezza proposto dai barboni,
da ora in poi definiti diasporici metropolitani. Velocità
vs lentezza, dunque, per una riflessione sulle contemporanee
dinamiche del vivere metropolitano. Mi soffermerò su sensazioni,
emozioni, ricordi e principalmente dubbi, per articolare una
prima critica dell’equazione normativa “velocità uguale intelligenza”
nonché per mostrare un esempio di resistenza, un modello altro
in opposizione da quello dominate.
L’idea che la definizione della sessualità, e delle questioni ad essa connesse, vari nel tempo e nello spazio, e che non sia quindi possibile affrontare il tema in termini puramente biologici, è stata esposta ed argomentata dal professor Ken Plummer dell’Università di Essex (UK) nel corso di un incontro seminariale promosso dalla professoressa Rosalba Perrotta. L’evento, che si è svolto a Catania presso il dipartimento di Studi Politici della Facoltà di Scienze Politiche il 6 giugno 2008, era inserito tra le attività didattiche del master in Studi Criminologici e Penitenziari.
L’opera di François Laplantine, professore a Lyon II, antropologo di fama internazionale, è per il suo lavoro sul campo, principalmente orientato verso l’America latina. Laplantine è uno specialista dell’Immaginario. Qui egli pone, in un’opera che contribuisce a rinnovare le nostre categorie, una serie di interrogativi ai quali dovrebbero rispondere le scienze umane in Occidente. Opera capitale, sintesi necessaria e allo stesso tempo opera di lotta epistemologica…
Augusto Debernardi
Il 2008 è stato fatale. Davvero. Chissà se nel tramonto o all’alba del mondo oltre o nel mezzo del suo dì oppure all’happy hour o alla sera in un’osteria dove il buon barbera o il buon merlot o forse il buon “tocai”, visto che nell’oltre certe regole di bottega dovrebbero valere assolutamente nulla (oggi, in terra friulana, il tocai si dice “friulano” in ottemperanza alle burocrazie europee, ma a New York si dice tranquillamente “tocai”) Lucio (Luison) incontrerà mai Franco, Michele oppure Bruno, Piero e perché no Giacomo. É proprio di Giacomo che desidero ricordare. Un altro sociologo. Di quelli giunti accademicamente da poco tempo ma forse sempre stato realmente tale: dottore in sociologia.
Fabio Olivieri
Abbiamo visto quindi come sia possibile analizzare alcuni dati certi nel resoconto narrativo, giungendo ad una loro interpretazione, non precostituita o preordinata, né tantomeno affrontandola in chiave di semplice restituzione rispetto a quanto riferito dal soggetto interessato. Una sperimentazione che nella sua sostanza ha rivelato la possibilità di adattare una griglia interpretativa che contenga alcuni riferimenti espliciti individuati nel corso di qualunque storia. E’ risultata in questo senso particolarmente utile per procedere ad un accostamento e ad una comparazione delle diverse scelte individuali senza scadere in considerazioni di carattere generale valide a falsificare o verificare una determinata teoria pregressa. Potremmo allora affermare che l’analisi narrativa delle storie, resa secondo la prospettiva del pensiero narrativo, consente di sviluppare una lettura più chiara dei riferimenti soggettivi determinando una serie di risultati utili a far luce sulle condizioni dell’esistenza individuale e del procedere narrativo della propria esperienza autobiografica pur limitando il suo campo di azione ad ogni singolo soggetto che viene interrogato e senza alcuna pretesa di validità universale.
Alessandra Micalizzi
Tramite le parole delle diariste abbiamo ricostruito questo intimo rapporto con la scrittura di sé e le abbiamo riconosciuto funzioni che vanno dal semplice bisogno di condividere la propria storia al bisogno più profondo di ritrovare se stessi. Fra le parole di ogni racconto, inclusi quelli riportati su un diario personale, si scorge il perenne dialogo dell’uomo con la morte, il profondo desiderio di redenzione ed eternità e lo smanioso bisogno di condividere la propria esperienza. Dai loro racconti siamo riusciti a trovare le tracce dei cambiamenti sociali che si sono succeduti dagli anni 50 ai giorni nostri; forse apparentemente scontati, ma che trovano la loro concretezza in testimonianze vere di quel tempo. La prova più affascinante del prezioso valore di quelle parole custodite in un diario è l’emozione profonda nello scorgere, sparse all’interno di una vita personale, i segni di grandi avvenimenti del passato che per noi oggi sono storia e che per loro, allora, erano quotidianità.
Riccardo Esposito
Ormai i lettori di file mp3 - l’algoritmo di compressione per i brani musicali digitalizzati - sono entrati nel ventaglio delle tecnologie di uso comune, soprattutto per quanto concerne l’universo giovanile. All’interno dell’infinita varietà di marche e modelli però, possiamo sostenere con buona sicurezza che l’iPod, il lettore mp3 della Apple, ha saputo conquistarsi una buona fetta di mercato. I motivi del suo successo commerciale si legano a diversi elementi, tra i quali non possiamo far a meno di citare la capacità dell’iPod di assorbire le interpretazioni simboliche proposte dai suoi fruitori, un processo quasi sconosciuto agli altri lettori mp3. L’iPod non viene inteso sic et simpliciter come un oggetto con relativa funzione ma anche come simbolo, un contenitore di significati mutevoli che gli individui utilizzano per comunicare ai propri simili la loro solidarietà nei confronti del “pensiero Apple”. Ma non solo: se tutto ciò fosse vero, potremmo anche immaginare questo lettore mp3 investito da valori estetici a tal punto da trasfigurarsi in orpello da abbinare con il soprabito. È possibile, quindi, pensare all’iPod non solo come lettore di file mp3 ma anche come un qualsiasi monile, gioiello e/o accessorio del proprio abbigliamento? Questa domanda rappresenta la base della ricerca che verrà approfondita nel seguente saggio, un lavoro che tramite l’utilizzo di tecniche appartenenti all’universo della ricerca qualitativa cerca di dare possibili risposte - mai definitive - ai precedenti quesiti.
Andrea Molle
Sukyo Mahikari (nel prosieguo Mahikari) è un nuovo movimento religioso non buddhista che ha origine dal Sekai Mahikari Bunmei Kyodan, fondato in Giappone da Okada Yoshikazu nel 1963. Il centro della dottrina e delle attività di Mahikari è il rituale di purificazione detto di ‘trasmissione della luce divina’ (okiyome), mentre il nome stesso del movimento sottintende la sua natura di organizzazione dedita alla trasmissione della ‘vera luce’ (ma hikari) e alla diffusione di insegnamenti sovra religiosi (sukyo). Registrando un tasso di crescita relativamente elevato (saldo netto tra iniziazioni e uscite registrate), Mahikari viene oggi considerato dagli studiosi un nuovo movimento religioso giapponese tra i più interessanti. In Italia il movimento è presente dal 1974, a seguito dell'apertura di un primo centro di pratica (dojo) nella città di Milano. I centri di pratica aderenti alla Federazione Italiana Sukyo Mahikari si concentrano maggiormente in Lombardia e in Veneto, ma con buoni tassi di crescita anche nelle altre regioni. La mia ricerca etnografica, della durata complessiva tre anni e svolta prevalentemente nei centri di Milano, Lussemburgo e Takayama (Giappone), si è concentrata sull'analisi di quegli elementi organizzativi del sistema simbolico di Mahikari che garantiscono l'integrazione del movimento in diversi contesti geografici nonostante lo spiccato esotismo delle sue dottrine.
Angela Infante
Nel gennaio 2007 ha avuto inizio il “Corso di Counseling e Terapie Interculturali”; nello stesso gennaio il Servizio di Diabetologia Pediatrica dell’Azienda Universitaria Ospedaliera Policlinico Tor Vergata di Roma ha richiesto la mia collaborazione per un progetto relativo all’alleanza e all’aderenza terapeutica del minore straniero affetto da diabete mellito. Ho avuto l’opportunità di partecipare a questo progetto, poiché avevo avuto precedenti esperienze nel Servizio di Medicina Solidale e delle Migrazioni, progetto del medesimo Policlinico. Questo progetto riguarda tutti i minori autoctoni e migranti affetti dalla suddetta patologia, in cura presso l’Unità Operativa di Diabetologia Pediatrica. Il mio ruolo principale all’interno del progetto è quello di apportare un doppio ascolto medico-counselor durante le visite di controllo, che possono variare a seconda dell’andamento della patologia, da una cadenza mensile ad una quindicinale. Durante questi colloqui il mio primo intento è quello di approcciarmi alla famiglia in un’ottica sistemica, in seguito di affrontare una ricostruzione autobiografica della storia familiare e del processo migratorio.
Giacomo Innocenti
Lo sviluppo impetuoso delle professioni sociali nell’ultimo ventennio correlato al processo di costruzione dello stato sociale in Italia è empiricamente del tutto evidente. (...) il lavoro sociale è percepito più come artigianato che non come industria. Gli operatori sociali si sentono come artigiani della relazione recuperando in questo quadro l’unicità, ma anche la pesantezza e la temporalità lunga del rapporto significativo fra persone. (...) Questa descrizione fenomenologica di quello che abbiamo definito come orizzonte di senso delle professioni sociali (...). E’ in fondo questa, quella pericolosa e feconda direzione ad essere chiamata nell’esperienza concreta di chi agisce nel sociale navigazione a vista bordeggiando presso coste sfumate e con equipaggi eterogenei e ambivalenti.
Giusi Lumare
Se pensiamo a come i partigiani del multiculturalismo si oppongono a quelli della separazione culturale, è evidente la logica separatrice che inevitabilmente prevale. Sia che vengano citate per opporle gerarchicamente, sia che ci si sforzi di valorizzarne le differenze in vista di una migliore coabitazione, le categorie etniche utilizzate, così come le diverse forme di religione riconosciute, sono ancora frutto di un’azione che mira a circoscrivere e isolare. In quest’ottica, la logica del meticciato ci riporta di sicuro sul sistema fondato sulla divisione, che a sua volta genera delle categorie politiche chiamate identità. La transdisciplinarietà, invece, prende le distanze tanto dalla logica relativista, quanto dalla violenza unilaterale della mondializzazione. Essa non si insegna, ma sorge al cuore delle intuizioni più vive, aiuta alla comprensione del sacro, della sacralità laica, permettendo di cogliere il senso ultimo della realtà con la lucidità di un’intelligenza non intellettuale. Rifiuta gli assolutismi disciplinari e si apre, invece, al transculturale e al transnazionale, si situa al di là delle discipline, ed ha bisogno di un linguaggio multireferenziale dove anche l’arte e la poesia sono utili alla percezione dell’ Altrove in quanto vuoto creatore.
Emilio Gardini
La morte è un fenomeno “regimentato” dall'imprevisto che si scontra con il desiderio razionale del prosieguo; non accetta né governo né cura, e l'uomo vuole neutralizzarne la carica destabilizzante. In molti casi però il confine tra la vita e la morte è veramente sottile, tanto sottile che non è più possibile tenere la morte ai margini della nostra esistenza, essa ne diventa parte. Rientra tra le pratiche quotidiane che è necessario render parte “almeno” delle nostre riflessioni, andando oltre quel confine labile che la separa dalle nostre attività in vita. È in questo modo che qualcuno “agisce” la morte come si fa con la vita, che non significa solo affrontarla, ma riconoscerla come parte esistente della vita stessa, scegliendo di ridurla a fatto “vitale”. Il nostro mondo dipende da come ci rapportiamo ai fatti, e tra questi anche alla morte, il nostro “essere umani” sta in ciò che rientra nel nostro essere in vita e in morte. Vitalmente morituri, quindi, capaci di vivere e morire, di “agire” la vita e anche la morte. Ma in verità si tratta di riflessioni, dei tentativi che mettono insieme astrazione e azione per comprendere alcune scelte e ridurle a categorie conoscibili così come l’interpretazione sociologica permette di fare, tuttavia, direi, che abbiamo ancora molta paura della morte.
Sergio Straface
Uno dei concetti su cui mi piace riflettere è quello della velocità. Più precisamente se sia possibile connettere l’intelligenza alla velocità. Oggi è necessario essere veloci e il vivere velocemente ha conquistato la quotidianità confondendosi strategicamente con la nozione di intelligenza. Le coordinate della surmodernità: l’accelerazione della storia, il restringimento dello spazio e l’individualizzazione dei destini pare abbiano imposto la velocità come conditio sine qua non sia improbabile conquistare un dignitoso ruolo sociale. Velocità come chiave di accesso, password obbligatoria, condizione connettiva con cui l’io finalmente accede all’attuale e soprattutto intelligente modo di vivere. La mia riflessione si concentrerà sull’esempio di lentezza proposto dai barboni, da ora in poi definiti diasporici metropolitani. Velocità vs lentezza, dunque, per una riflessione sulle contemporanee dinamiche del vivere metropolitano. Mi soffermerò su sensazioni, emozioni, ricordi e principalmente dubbi, per articolare una prima critica dell’equazione normativa “velocità uguale intelligenza” nonché per mostrare un esempio di resistenza, un modello altro in opposizione da quello dominate.
Giuseppe Toscano
L’idea che la definizione della sessualità, e delle questioni ad essa connesse, vari nel tempo e nello spazio, e che non sia quindi possibile affrontare il tema in termini puramente biologici, è stata esposta ed argomentata dal professor Ken Plummer dell’Università di Essex (UK) nel corso di un incontro seminariale promosso dalla professoressa Rosalba Perrotta. L’evento, che si è svolto a Catania presso il dipartimento di Studi Politici della Facoltà di Scienze Politiche il 6 giugno 2008, era inserito tra le attività didattiche del master in Studi Criminologici e Penitenziari.
Georges Bertin
L’opera di François Laplantine, professore a Lyon II, antropologo di fama internazionale, è per il suo lavoro sul campo, principalmente orientato verso l’America latina. Laplantine è uno specialista dell’Immaginario. Qui egli pone, in un’opera che contribuisce a rinnovare le nostre categorie, una serie di interrogativi ai quali dovrebbero rispondere le scienze umane in Occidente. Opera capitale, sintesi necessaria e allo stesso tempo opera di lotta epistemologica…