Contributi su aree tematiche differenti
M@gm@ vol.7 n.1 Gennaio-Aprile 2009
GLI SPAZI DI NEGOZIAZIONE DELL'APPARTENENZA RELIGIOSA IN SUKYO MAHIKARI: UN'ANALISI ETNOGRAFICA
Andrea Molle
andrea.molle@gmail.com
Laureato in Scienze Politiche e dottore di ricerca in Sociologia. Dal
2006 al 2008 è stato Visiting Fellow per la Japan Society for the
Promotion of Science presso il Nanzan Institute for Religion and
Culture dell'Università Nanzan di Nagoya. Si occupa prevalentemente di
sociologia ed antropologia dei nuovi movimenti religiosi e delle
implicazioni religiose del progresso scientifico e tecnologico.
Metodologo, collabora con la cattedra di Metodologia della Ricerca
Sociale della Facoltà di Scienze Politiche dell'Università Statale di
Milano.
Sukyo
Mahikari (nel prosieguo Mahikari) è un nuovo movimento religioso
non buddhista che ha origine dal Sekai Mahikari Bunmei Kyodan,
fondato in Giappone da Okada Yoshikazu nel 1963. Il centro
della dottrina e delle attività di Mahikari è il rituale di
purificazione detto di ‘trasmissione della luce divina’ (okiyome),
mentre il nome stesso del movimento sottintende la sua natura
di organizzazione dedita alla trasmissione della ‘vera luce’
(ma hikari) e alla diffusione di insegnamenti sovra religiosi
(sukyo).
Registrando un tasso di crescita relativamente elevato (saldo
netto tra iniziazioni e uscite registrate), Mahikari viene
oggi considerato dagli studiosi un nuovo movimento religioso
giapponese tra i più interessanti. In Italia il movimento
è presente dal 1974, a seguito dell'apertura di un primo centro
di pratica (dojo) nella città di Milano. I centri di pratica
aderenti alla Federazione Italiana Sukyo Mahikari si concentrano
maggiormente in Lombardia e in Veneto, ma con buoni tassi
di crescita anche nelle altre regioni.
La mia ricerca etnografica, della durata complessiva tre anni
e svolta prevalentemente nei centri di Milano, Lussemburgo
e Takayama (Giappone), si è concentrata sull'analisi di quegli
elementi organizzativi del sistema simbolico di Mahikari che
garantiscono l'integrazione del movimento in diversi contesti
geografici nonostante lo spiccato esotismo delle sue dottrine.
Lineamenti organizzativi di Mahikari
Da un punto di vista organizzativo, Mahikari è caratterizzato
da una struttura piramidale che garantisce il controllo centralizzato
e il funzionamento efficace dei suoi centri di pratica, distinti
gerarchicamente tra loro in base al numero di iniziati (kamikumite)
e alle competenze funzionali loro attribuite. La progressione
interna al nuovo movimento religioso è basata sulla valutazione
della comprensione della sua dottrina, che viene impartita
dall'alto tramite 'insegnamenti' di tipo iniziatico, articolati
tendenzialmente su tre livelli (elementare, medio e superiore).
Secondo l'antropologo americano Brian McVeigh (McVeigh, 1997)
in Mahikari, al pari di qualsiasi modello organizzativo che
prevede dei ruoli corrispondenti a differenti livelli di sapere
e di potere iniziatico, l'interdipendenza viene sancita attraverso
particolari processi di autorizzazione e regolazione rituale
tra le componenti del sistema. Questi processi sono descrivibili
come uno scambio di potere tra due o più soggetti che si modifica
nel tempo (McVeigh, 1997, pp. 99 e seg.). In Mahikari, questo
avviene attraverso due canali simbolici: il chushin kakuritsu
(individuare, conquistare e mantenere il proprio posto) e
lo okiyome.
La struttura dei meta-valori
L'interdipendenza tra okiyome e chushin kakuritsu si fonda
un assunto cinetico: 'stare al proprio posto' garantisce il
naturale passaggio della 'luce divina'. Pertanto l'intera
struttura ne risulta legittimata. Mahikari ha un vertice,
la divinità Mioyamoto Su Mahikari Omikamisama, da cui sgorga
l'immaginaria 'luce divina' che si propaga poi nel mondo tramite
il leader del movimento, legittimato dal principio di ereditarietà
del carisma (McVeigh, 1997, p. 101), e le persone iniziate
ai suoi insegnamenti. Rispetto a questi insegnamenti, i differenti
livelli della gerarchia possono essere individuati facendo
riferimento a particolari strutture di valori organizzativi
(McVeigh, 1997, p. 131).
McVeigh, adottando la prospettiva della psicologia culturale,
isola alcuni indicatori di queste strutture valoriali che
fanno riferimento a un numero piuttosto limitato di vocaboli
ricorrenti. Nel primo indicatore (o cluster, adottando la
terminologia dell'autore) il concetto di gratitudine (gratitude)
viene individuato nell'impiego di strutture verbali e lessicali
formali che sottendono al ringraziamento le proprie scuse.
Il cluster dell'obbedienza (obedience), viene invece definito
dall'uso intensivo di termini come sunao (obbediente, docile,
mansueto) e kokoro no geza (umiltà del cuore). L'accettazione
delle regole che queste espressioni presuppongono rinforza
la nozione di gerarchia, il riconoscimento del proprio ruolo
e del proprio spazio all’interno di un apparato organizzativo
complessivo che solo nella sua completezza dà piena giustificazione
alle azioni singolo iniziato. Il terzo cluster, l'appartenenza
(belongingness), rivela conseguentemente tutta la sua aderenza
al concetto giapponese di unicità del gruppo. Tramite la definizione
di norme e regole che ogni membro è tenuto a seguire, il gruppo
sviluppa infatti una propria identità e conseguentemente determina
i canali di autorizzazione per l'individuo, legandolo in questo
modo al proprio ambiente sociale. Diligenza e devozione (diligence
and devotion) formano invece il quarto cluster: l'appartenenza
a un dato gruppo implica coinvolgimento, che inevitabilmente
rimanda allo sforzo continuo del singolo a un impegno cosciente
e continuo. L'impegno diventa quasi un dovere, un obbligo
nei confronti della comunità che per esistere si aspetta il
massimo da ogni singola unità. Gli iniziati sono infatti incoraggiati
alla massima responsabilità nella pratica e nella diffusione
della dottrina, così come sono spinti ad affrontare le sventure
in maniera ottimistica e gioiosa. Infine l'ultimo cluster
riguarda la comprensione intesa come empatia (empathy). Empatia
e compassione si esprimono nell'esperienza dell'iniziato con
il suo continuo trasmettere la 'luce divina' a ogni cosa,
animale o persona ritenuti a suo dire bisognosi di purificarsi,
anche dove ciò non è esplicitamente richiesto.
Nelle loro ricerche su Mahikari, molti autori (Bernard-Mirtil,
1998; Louveau, 2000; Rodrìguez, 1998) confermano l'evidenza
che per mezzo di questi cluster la comunità di Mahikari si
struttura in modo che il singolo attore sociale sostenga il
movimento e creda nei suoi principi e dottrine, ma soprattutto
che ricopra attivamente specifici incarichi, esegua mansioni,
sia flessibile nella scelta dei turni di presenza nei luoghi
sacri, giungendo a offrire spontaneamente la propria partecipazione
o a vincolare aspetti intimi della vita privata come le relazioni
famigliari o di sentimentali.
Per Hardacre (1986) si sviluppa in questo modo una struttura
organizzativa conforme a tutte le esigenze quotidiane del
gruppo, che spinge per a dei sempre maggiori partecipazione,
impegno, disponibilità mano a mano che aumenta il coinvolgimento,
facendo così sfumare ogni distinzione tra attività sacre e
impegno profano e determinando un sostanziale incapsulamento
degli iniziati dal resto del mondo. Secondo quest'ottica analitica,
da uno studio approfondito delle competenze gerarchiche emerge
che il ruolo primario dei missionari (doshi) e dei dirigenti
impegnati in altri contesti non giapponesi sia quello di rafforzare
l'uniformità della comprensione degli insegnamenti e dei valori
trasmessi tramite la partecipazione.
La definizione processuale dell'arena organizzativa
Nel contesto italiano, il mio studio ha raccolto molte evidenze
empiriche che sostengono questo tipo di funzionamento dei
cluster. Tuttavia, nel processo di socializzazione a Mahikari,
i suoi iniziati sono esposti continuamente a elementi della
lingua e della cultura giapponese la cui metabolizzazione
implica il dialogo tra strutture di significato molto differenti
e determina un risultato particolare per ogni diverso contesto
geografico e culturale. La riuscita di questo processo non
può dunque essere considerata automatica né il suo risultato
invariabile, in quanto il semplice utilizzo condiviso di una
terminologia giapponese e di una struttura gerarchica prestabilita
non realizzano di per sé la reale condivisione di significati
e di pratiche.
In particolare, il confronto tra diverse generazioni di iniziati
mi ha fornito un'ampia raccolta di anomalie linguistiche e
organizzative che indicano il tentativo costante di un progressivo
adattamento dell'intera struttura organizzativa al contesto
italiano. Esse emergono come la naturale conseguenza della
politica tipica di questo genere di nuovi movimenti di non
imporre l'esperienza originale (Reader, 1994) ma optare piuttosto
per una sua penetrazione graduale che tenga conto delle specificità
culturali, al fine di massimizzare le proprie chance di diffusione
(Barone et al, 2006; Molle, 2005).
In base alle mie osservazioni, lo spazio assunto nell'esperienza
italiana dei cluster indicati da McVeigh non è ancora del
tutto definito, ma è piuttosto oggetto di negoziazione. La
dirigenza non impone, infatti, comportamenti standardizzati,
ma in linea generale si limita a legittimarli o sanzionarli
caso per caso, predisponendo quegli appropriati canali di
autorità che delimitano le zone di negoziazione delle interpretazioni
concorrenti. Si tratta di una forma di adattamento strategico,
mirante ad assicurare la continuità con alcuni elementi culturali
fondanti delle società occidentali nelle quali il movimento
prova ad inserirsi.
Le strategie retoriche e dell'azione
In particolare è riscontrabile una certa tendenza alla separazione
tra vita privata e vita di gruppo, che si esprime nel rifiuto
di quella parte di isomorfismo che normalmente si ha nella
selezione delle relazioni amicali e sentimentali in modo quasi
esclusivo all'interno del movimento o della cerchia dei cooptabili.
Il processo di esclusivizzazione della propria rete relazionale
non è crescente, ma si situa piuttosto nell'arco del primo
periodo di socializzazione religiosa al nuovo gruppo. Se si
guardano i percorsi tipici di adesione, esso non assume che
raramente la forma di un'epurazione dei propri conoscenti
resistenti all'iniziazione, quanto piuttosto quella del blando
tentativo di portarli comunque ad avvicinarsi al movimento
nella forma del mero 'ricevente della luce' non iniziato.
Queste strategie individuali sono indice di una resistenza
più generale al processo di esclusività relazionale e sono
particolarmente evidenti nell'apprendimento del chushin kakuritsu.
In modo difforme rispetto all'esperienza giapponese, gli iniziati
italiani evidenziano infatti una forte spinta alla competizione,
mascherata come volontà incondizionata di aiutare gli altri
a portare a termine i loro compiti. Inoltre è riscontrabile
la tendenza dei praticanti italiani a interpretare il principio
di 'trasmissione della luce' come fattore inequivocabile di
democratizzazione del potere. Sulla base del principio che
'la luce viene data a tutti senza distinzioni' sono da segnalarsi
molti casi di messa in discussione delle catene gerarchiche:
di critica aperta o attraverso iniziative personali che non
passano per i propri diretti responsabili. Nel complesso si
evidenzia pertanto la ricerca di un principio di legittimazione
spirituale in accordo con l'orientamento democratico, aperto,
carrieristico, tramite la costante promozione di istanze individuali
e collettive che entrano in conflitto con l'ordinamento gerarchico.
Prendendo in considerazione l'analisi dei taikendan (testimonianze
scritte di presunte esperienze miracolose, lette durante le
cerimonie) si evince anche una precisa scelta strategica degli
iniziati: inserire ogni tipo di problema in un frame definito
in funzione dei propri obiettivi di costruzione della propria
identità religiosa.
Nella prima colonna della seguente tabella [Tab. 1] sono indicate
le forme retoriche predominanti nella costruzione del discorso
dei kamikumite, estratte dall'analisi delle testimonianze
dirette e dai resoconti scritti. Nella seconda colonna, queste
forme verbali sono state raggruppate in blocchi omogenei,
sintetizzate e associate con i maggiori punti di incontro
e frizione tra le esperienze organizzative e le relative interpretazioni
sociali. Le colonne seguenti indicano invece il cluster (McVeigh,
1997) più pertinente al fine di determinare il relativo fattore
di attenuazione della distanza cognitiva, l'incidenza relativa
ed il fattore isomorfico in grado di ridurre la distanza tra
le interpretazioni divergenti e il conflitto tra chushin kakuritsu
e pratica dello okiyome.
Analizzando il risultato di questa
schematizzazione emergono alcuni elementi interessanti, grazie
ai quali è possibile valutare l'incidenza della distanza cognitiva
nel processo di negoziazione dei significati religiosi in
funzione di determinare la propria appartenenza al gruppo.
In primo luogo si può identificare un processo di negoziazione
e distinzione simbolica che passa per il ricorso alla definizione
privata dell'appartenenza, consolidata in funzione dei compiti
e delle responsabilità che vengono affidate ai kamikumite
e che inevitabilmente li rimandano ad una valutazione in base
ai concetti di diligence and devotion (quarto cluster) e di
gratitude (primo cluster).
Inoltre, si può osservare come interagiscono i due cluster
facendo riferimento alla struttura dialettica di Mahikari.
Tutte le sue strategie linguistiche sono progettate per rafforzare
la legittimazione gerarchica strutturando ogni interazione
attraverso il ricorso a formule di richiesta di autorizzazione/perdono
tanto più complesse quanto più è ampia la distanza gerarchica
tra i due interlocutori o l'importanza dell'evento. Dall'analisi
delle testimonianze italiane è tuttavia emersa la tendenza
degli iniziati a sostituire ogni elemento linguistico e cognitivo
giapponese non realmente impiegabile (ad esempio per mancanza
di un corrispettivo in lingua italiana) accentuando ulteriormente
la componente di partecipazione attiva.
L'indice di partecipazione a tutte le attività del movimento
sembra essere pertanto il fattore maggiormente implicato nella
misurazione della devozione, del coinvolgimento e del senso
di appartenenza dei kamikumite all'organizzazione di Mahikari.
Esso quantifica materialmente la gratitudine per le esperienze
maturate durante la pratica.
Una prova ulteriore a sostegno dell'ipotesi che sia la partecipazione
a determinare il livello di percezione dell'appartenenza è
la seguente. Se l'adesione formale e saltuaria a Mahikari
è caratterizzata dai suoi legami laschi di appartenenza (versamento
di una quota, partecipazione alle cerimonie più importanti
che si svolgono una volta al mese), quella alla 'comunità
di pratiche' propriamente detta è valutata in via strettamente
simbolica. Da un punto di vista sostanziale, gli obblighi
informali legati alla qualifica di kumite membro effettivo
e praticante della comunità sono infatti molto numerosi e
incidono notevolmente sulla gestione della vita quotidiana.
Esistono inoltre obblighi e concessioni legati al grado di
iniziazione e in questo caso la spinta isomorfica al conformismo
determina una partecipazione continuativa a quante più attività
possibile in funzione di poter accedere a gradi di iniziazione
più elevati.
E' evidente che più aumenta la partecipazione e maggiori sono
le occasioni di conflitto interpretativo tra la leadership
di Mahikari e la comunità dei suoi iniziati italiani. Le differenze
riscontrate possono essere catalogate in base all'evidenza
della loro percezione da parte degli attori sociali, con particolare
accorgimento alla loro 'pericolosità' per il mantenimento
della coerenza con il gruppo.
Le differenze che non sono oggetto di grandi tensioni sono
in gran parte associabili alla categoria geertziana di differenza
experience-near, nelle quali è immediatamente rintracciabile
per l'iniziato un corrispettivo abituale, mentre le differenze
ineludibili corrispondono grosso modo a quelle experience-distant
(Geertz, 1988). In questo senso si può identificare per ciascuno
di questi gruppi di attori un punto di incontro e di eventuale
frizione basato sulla distanza di ingaggio. Tuttavia la classificazione
delle differenze in base alla sola distanza è una condizione
necessaria ma non sufficiente per coglierne il reale significato,
o il peso che queste hanno nella ridefinizione organizzativa
dell'appartenenza religiosa. E' necessario, infatti, approfondire
l'analisi della natura intima di queste differenze in base
al grado di problematicità che esse implicano e alle conseguenti
strategie di risoluzione predisposte dall'organizzazione.
Può essere utile riassumere e schematizzare alcune differenze
al fine di comprendere meglio la negoziazione tra la forma
tipico-ideale dei contenuti del messaggio religioso e l'insieme
delle tendenze rilevate nella mia ricerca sulla loro penetrazione
nel contesto italiano. Come è stato messo in evidenza da altri
autori, gli aspetti di vita comunitaria si incontrano quotidianamente
con le necessità organizzative di Mahikari e sono funzionali
al mantenimento di una struttura basata sull'adesione e l'attività
volontaria (Bernard-Mirtil, 1998; Louveau, 2000). Nel corso
di questo processo di avvicinamento accade però che si abbiano
delle vere e proprie frizioni tra i modi in cui questi aspetti
vengono concepiti dagli iniziati italiani e i canali previsti
dal movimento. La spinta all'isomorfismo promossa dalla dirigenza
incontra solo un parziale accordo da parte degli attori sociali
coinvolti, ritenuto funzionale al corretto svolgimento delle
attività e interpretato nel lungo periodo come un banco di
prova, uno strumento pedagogico, per il proprio miglioramento
spirituale.
Tutte queste differenze retroagiscono sulla definizione continua
dell'appartenenza. Per i kumite italiani si tratta dell'affermazione
del proprio punto di vista sulla natura organizzativa, che
elude e reinterpreta il senso attribuitole dalla leadership
senza negarlo apertamente; per la leadership, essa è il canale
formativo principale in una strategia di espansione di lungo
periodo e di controllo (non pericolosa espulsione) delle interpretazioni
devianti dell'edificio dottrinale.
La cultura della monoappartenenza
Oltre a quanto detto finora, esiste nel contesto italiano
un problema relativo alla coesistenza con un'identità religiosa
strutturata sull'appartenenza più o meno esplicita al cristianesimo
cattolico. Per la portata di questa osservazione è necessario
introdurre un problema che si incontra tipicamente quando
si osserva come un convertito tenta di legittimare la nuova
esperienza religiosa creando una continuità con quella precedente.
Nel caso di Mahikari, la dirigenza sembra accettare, se non
apertamente incoraggiare, una sorta di 'stato confusionale'
sui principi dottrinali ritenendolo funzionale al processo
graduale di comprensione degli insegnamenti. La giustificazione
data a questa politica organizzativa risiede nella necessità
di lavorare per superare il tratto esclusivista che la religione
ha in occidente. Tuttavia questo aspetto ha risvolti sociologici
più ampi.
Il problema dell'appartenenza è senz'altro uno dei campi più
affascinanti dell'indagine sociologica, ma è ambiguo (Snow
et al., 1984, p. 168) e difficile da analizzare a causa del
suo accavallarsi con il controverso tema delle conversioni
(Hervieu-Léger, 2003; Introvigne, 1996) e dell'identità (Remotti,
2001). In particolare quest'ultimo concetto non si presta
ad una interpretazione univoca ed è opportuno che chiarisca
il confine nel quale intendo utilizzarlo.
E' un dato facilmente verificabile che ogni attore sociale
sia in continua interazione con gli altri, con i quali condivide
una o più appartenenze. In determinate condizioni, che non
è certo possibile indicare per ragioni di spazio, l'individuo
tende a identificarsi con più di una comunità moltiplicando
così, in un numero tendenzialmente infinito, le proprie appartenenze.
Ciascuna di queste comunità può essere legata ad altre e tutte
possono, ma non necessariamente debbono, essere ordinate gerarchicamente
secondo un criterio di importanza.
Esistono inoltre degli ambiti in cui non si possono realisticamente
far coesistere differenti appartenenze, perché sarebbero in
contraddizione tra di loro (Maalouf, 1999). La religione,
la lingua, l'etnia, la professione, gli interessi, la cultura,
sono un esempio di ciò che ogni giorno unisce e contemporaneamente
divide a seconda del senso costruito e attribuito loro dalla
società e dal suo sviluppo storico. Questa pluralità ordinata
non va trascurata nel caso delle appartenenze religione, così
come non deve esserlo l'instabilità presente nella componente
soggettiva, psicologica, dell'identificazione con un messaggio
spirituale.
Da un punto di vista teorico, l'identità religiosa è vissuta
e percepita come un tutto immutabile, ma si trasforma e scompone
continuamente in seguito alla sovrapposizione, al dialogo,
ai contrasti delle appartenenze che la compongono, alle quali
viene di volta in volta attribuita una certa preminenza. A
livello individuale il processo di acquisizione situazionale
della propria identità religiosa primaria è ineludibile, e
ciò mette il soggetto nella condizione di dover necessariamente
comunicare con altri che condividono un modello identitario
comune.
Superando il livello individuale, quando un nuovo movimento
religioso come Mahikari tenta di inserirsi in una comunità
data e strutturata sotto il profilo mitologico e religioso,
bisogna che esso sappia sfruttare le sue 'zone d'ombra', agganciandosi
alle richieste cognitive dei suoi potenziali membri. Durante
questa fase, detta appunto dell'identità negoziata perché
coinvolge anche dei fornitori di elementi cognitivi (Barth,
1998, p. 6), viene determinata una specifica fisionomia religiosa.
Ma, come suggerisce l'antropologa Adriana Destro (2005, p.
198), questi fattori diventano molto interessanti solo se
visti nel momento in cui si assemblano, si riproducono e si
modificano nel tempo: quando cioè orientano l'azione dei soggetti
stabilendo e legittimando la loro appartenenza al nuovo gruppo
che cerca di trovare il suo spazio nel sistema religioso complessivo.
Pensare delle nuove forme di aggregazione non vuol dire concepire
individui in conflitto o senza legami con la propria socializzazione
religiosa primaria, ma significa interrogarsi sul significato
stesso del concetto di appartenenza. Nei casi evidenti di
conversione i soggetti recidono, almeno tendenzialmente, il
rapporto con il passato e per questo processo di conversione
necessitano di un evidente turning point volto a giustificare
la scelta di una nuova appartenenza religiosa che ha caratteristica
di esclusività. Per questo motivo, lo studio sociologico su
cosa significhi aderire oggi ad una nuova religione è per
lo più coinciso con l'assunzione di indicatori di conversione
radicale legati all'introduzione di una precisa identità e
di una nuova appartenenza religiosa (Dawson, 2005).
Nel postulare sempre e comunque un turning point, la ricerca
sociologica ha creato però incontrato un ostacolo: l'appartenenza
religiosa non può sempre essere paragonata ad uno scambio
di liquido tra diversi contenitori. Essa non deve essere intesa
come il vettore di una identità da un frame religioso all'altro,
ma piuttosto come la base della legittimazione soggettiva
che tende a voler includere elementi apparentemente discordanti,
scelti a seconda delle proprie esigenze personali. Più che
di studio della conversione dovrebbe trattarsi dell'analisi
sistemica di molteplici atti di rinuncia e selezione adattiva
che modificano il frame esistente. E' in questo senso che
per gli attori sociali si fa stimolante la possibilità, offerta
dall'incontro con la particolare religiosità giapponese, di
forgiare la propria identità sulla base di una 'pluriappartenenza'
derivata da un'elaborazione creativa della propria identità
primaria (Reader, 1994).
Ad esempio è consuetudine per alcuni iniziati di Mahikari
farsi il segno della croce prima di salutare l'altare e quasi
tutti quelli con cui ho avuto modo di interagiore affermano
con sicurezza che Gesù, per guarire, 'trasmetteva la luce
agli ammalati'. Anche il culto dei santi viene utilizzato
a sostegno della coerenza tra il vissuto cristiano-cattolico
e gli insegnamenti di Okada, gettando un ponte anche verso
il buddhismo. Per una kumite i santi sono infatti: (...) sempre
raffigurati nelle chiese mentre trasmettono la luce. L'hai
notato. Per esempio San Francesco, l'ho visto io ad Assisi,
ma anche Padre Pio trasmetteva la luce, come i discepoli di
Buddha. Anche loro e chissà chi altro!
Anche nelle dispense ufficiali dei corsi di iniziazione esempi
di questo tipo sono ampiamente utilizzati.
Come si può parlare pertanto di conversione in termini radicali?
La maggioranza dei membri italiani di Mahikari non si limitano
a dichiarare un passato cattolico, con gradi differenti di
coinvolgimento nelle attività religiose, ma si dichiarano
tuttora (o nuovamente) tali. Se a livello individuale l'approccio
conversionalista inteso come rifiuto del proprio passato per
abbracciare una nuova identità ha buoni meriti, in prospettiva
sociologica esso non spiega mai il motivo per il quale l'aumento
delle adesioni ad un dato movimento coincide con profondi
cambiamenti nelle dottrine e nelle prassi dello stesso, spesso
fino al punto di originarne uno nuovi (basti pensare in questa
chiave al rapporto tra ebraismo e cristianesimo).
In casi come Mahikari, contrariamente all'idea di conversione
come rifiuto del passato, la strutturazione della propria
identità religiosa si esprime nel senso di appartenenza legittimato
dalla partecipazione alle attività del gruppo. In virtù dell'estrema
attenzione al processo di ricerca della coerenza spirituale
con il passato, cui fa verso la scarsa attenzione al processo
di ricerca della coerenza interna agli insegnamenti. Un altro
kumite ammette quindi di considerarsi: (...) cattolico romano,
come potrei dire di no. Non sono shintoista o buddhista o
credente di Mahikari. Credente in Mahikari non ha senso. Ma,
vedi, però, il cattolicesimo senza okiyome è una scatola vuota
fatta di dogmi. In Mahikari capisci anche certi dogmi.
Si possono fare molti altri esempi di come l'esperienza italiana
in Mahikari sia vincolata a questo framework interpretativo.
Un kumite milanese afferma in maniera molto radicale che proprio:
(...) grazie a Mahikari puoi ripulire le parole di Gesù da
tutta la sporcizia della Chiesa per recuperare il suo messaggio
che... dico io... alla fine è quello che dice il nostro fondatore
ed è vero, Mahikari è la vera religione e lo è sempre stata,
solo che con il tempo le religioni dell'uomo hanno perso di
vista la verità. Hai presente il 'Codice Da Vinci'? Credo
sia andata veramente così, per noi è una conferma (...).
Non sarebbe esatto interpretare affermazioni come questa come
una doppia appartenenza debole, sintomo di momento di passaggio
o di un fallimento nel processo di conversione. Si tratta
piuttosto di una dialettica continua tra attori sociali e
organizzazione, che è soggetta a intensi processi di selezione
degli elementi conformi ad un progetto collettivo e richiede
sempre una validazione ex-post di livello istituzionale.
Nella sua analisi su Shinnyo-en, un caso molto simile sotto
questo aspetto a Mahikari, il sociologo Zoccatelli (2001)
ha notato che per molti italiani il nuovo movimento religioso
rappresenta un 'passaggio' verso una nuova identità religiosa
(Zoccatelli, 2002) e non un punto di arrivo. Tuttavia le idee
di 'passaggio', sostenuta dalla letteratura francese (Lenoir,
1999; Hervieu-Léger, 2001), o di believing without belonging
(Davie, 1994) di matrice anglosassone non mi convincono pienamente
nel caso di Mahikari. Se osserviamo infatti il fenomeno dal
punto di vista organizzativo si può notare che, nonostante
sia mantenuta ad un livello dottrinale, la partecipazione
attiva alla vita cattolica sfuma con il tempo mentre diventa
più importante il quadro fornito dall'esperienza di Mahikari.
In questo caso non si può dunque parlare di 'doppia appartenenza'.
La partecipazione alla comunità di pratiche che sostiene e
giustifica il senso dell'esperienza reale diviene piuttosto
l'elemento portante di una strategia di attribuzione di coerenza
alla propria esperienza spirituale. Più che di passaggio o
di abbandono parlerei pertanto di un 'elemento mutageno' dell'identità
religiosa il cui risultato finale, come in tutte le mutazioni,
è incerto e potenzialmente fallimentare.
Conclusioni
Dall'insieme degli elementi presentati fino ad ora emerge
l'esistenza di un complesso insieme di aree di significato
instabili, fatto di differenze più o meno distanti che si
presentano durante la socializzazione religiosa, in un quadro
strettamente organizzato. Come si può vedere dalla seguente
tabella riassuntiva [Tab. 2], nella prima colonna sono posti
i principali elementi della mia analisi dei dati raccolti.
Nella seconda colonna è riassunto il senso attribuito loro
dalla dirigenza giapponese, mentre nella terza colonna trova
posto la tendenza comune dell'interpretazione italiana in
funzione mediativa con l'impianto dottrinale tramesso dalla
dirigenza.
Il confronto tra questa tabella e quella precedente mi porta
a ritenere che nei cluster proposti da McVeigh si giochi realmente
la negoziazione tra le strategie cognitive (isomorfiche) di
tutte le parti coinvolte nel processo di espansione del nuovo
movimento religioso.
Da una parte il nuovo movimento religioso fa leva sugli aspetti
dottrinali dei quali riesce a trovare un corrispettivo locale
facilmente utilizzabile per far avvicinare il maggior numero
di potenziali kamikumite avendo, in prospettiva di lungo periodo,
il chiaro intento di spostare l'accento delle loro interpretazioni
quanto più vicino possibile alla forma originale.
Dall'altra, i kumite italiani sfruttano, spesso inconsapevoli,
queste stesse aree di significato potenzialmente condiviso
per salvaguardare la base del loro background religioso pregresso
e contemporaneamente massimizzare quanto più possibile la
loro nuova esperienza in funzione di plasmare a loro piacimento
la propria identità religiosa. Nel corso di questo processo
il chushin kakuritsu e lo okiyome intervengono a sostegno
delle aspirazioni personali e delle esigenze organizzative
salvaguardando la continuità con le esperienze religiose precedenti.
In altre parole, coscientemente o meno, gli iniziati costruiscono
la loro immagine di Mahikari selezionando gli elementi di
loro interesse; altrettanto fa la leadership proponendo gradualmente
il proprio messaggio valutandone gradualmente la corretta
diffusione.
In una prospettiva sociologica più ampia e in un quadro organizzativo
complesso, la gestione della distanza o dell'estrema vicinanza
tra le interpretazioni rappresenta uno dei processi principali
per la sopravvivenza di un movimento religioso fuori dal suo
ambiente di origine. In Mahikari, nel corso di questo processo
negoziale ogni cluster agisce sugli iniziati come fattore
di guida e di legittimazione, ma allo stesso tempo retroagisce
modificando la propria rete di significati religiosi al punto
che diventa estremamente difficile valutarne gli effetti se
non considerandolo una continua negoziazione di un sistema
di significati mai realmente condiviso.
Questo senso di appartenenza, rideterminando continuamente
il risultato dell'incontro delle diverse spinte isomorfiche,
limita l'insorgere di barriere di significato interne al gruppo
potenzialmente disgreganti aprendo la strada al processo sociale
grazie al quale si incontrano e si massimizzano i benefici:
i kamikumite trovano il loro percorso spirituale ideale, le
differenze pericolose si disinnescano e l'organizzazione si
espande.
Bibliografia
Barth, F., Ethnic Groups and Boundaries. The Social Organization
of Culture Difference, Prospects Heights, Waveland Press,
1998.
Barone, C., Molle, A., «Così vicini, così lontani: i percorsi
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