Il m@gm@ costitutivo dell'immaginario sociale contemporaneo
Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.6 n.3 Settembre-Dicembre 2008
INVIO O NON INVIO?
Barbara Lucini
lilly_a@libero.it
Laurea Triennale in Scienze del
Servizio Sociale presso Università Cattolica del Sacro Cuore,
Milano; Tirocinio formativo assistente sociale presso Comune
di San Donato Milanese, Milano, area adulti in difficoltà
e anziani; Tirocinio formativo assistente sociale presso Consultorio
familiare di San Giuliano Milanese, Milano.
Questa
è una costante della mia personalità: non è indecisione, insicurezza
o qualcosa di simile, è il pensiero di scegliere nel modo
migliore e con le conseguenze meno pessime, che mi fa ponderare
il momento delle decisioni e lo fa durare più di quanto probabilmente
sia “normale.” Forse, invece, il problema centrale è che una
volta presa una decisione non torno indietro, qualunque cosa
capiti e sono perseverante, molto.
Bene, anche la scelta di inviare un mio contributo alla redazione
della rivista M@gm@ è stata ben ponderata, per una serie di
motivi. Prima di tutto non pensavo di possedere caratteristiche
e doti per scrivere un articolo che fosse poi passibile di
pubblicazione, la scrittura mi ha sempre affascinato e ho
intrapreso vari esperimenti di scrittura creativa e giornalistica,
ma senza un grande seguito: ho sempre considerato questo tipo
di attività come un piacere e quindi il tempo da dedicare
era quello libero, per la verità non molto. Il secondo fatto
riguardava la mia situazione personale di quel preciso momento:
letteralmente sommersa dagli esami all’Università, stage e
mille altre cose, per cui credevo di non avere molto tempo
da dedicare a questa passione.
Alla fine però, se ora sono qui a scrivere è perché ho inviato
l’email e sono stata apprezzata per il mio lavoro. Al contrario
di quanto pensassi, considero l’opportunità di partecipare
e collaborare nella redazione di questa rivista una sorta
di “benedizione” grazie alla quale mi è stato possibile aprire
i miei orizzonti e confrontarmi con un nuovo mondo, che apprezzo
molto. All’inizio nutrivo, come al solito, qualche dubbio
per il fatto di collaborare con persone decisamente più esperte
e competenti di me, ma ho accolto questa sfida e ho affrontato
la questione come una possibilità di dialogo, crescita e formazione.
Inoltre, il fatto di lavorare e collaborare solo tramite email
mi lasciava qualche dubbio in merito alla fattibilità ed all’efficacia
della situazione, invece, mi sono ricreduta e ho compreso
che anche se non si conoscono direttamente e personalmente
le persone con le quali collabori, vi è comunque la possibilità
di conoscersi anche se con modalità differenti, ma per questo
non meno profonde.
In generale, non mi piace pormi degli obiettivi, scopi o finalità,
ho una concezione che in questo periodo storico e sociale
è controcorrente rispetto alla maggioranza, ma sono convinta,
a tal punto che cerco di vivere in questo modo, che la vita
e tutto ciò che vi è in essa sia un percorso senza obbligo
di mete, più o meno circolare, ma che non necessariamente
ci debba portare da qualche parte in modo preordinato. A questo
proposito avete presente quella meravigliosa sensazione e
quella appagante emozione di camminare in una città straniera,
immersa fra la gente del posto, mantenendo un profilo basso,
di non identificazione con il solito turista, potendo ammirare
e godere tutto di quel posto? Le strutture architettoniche,
l’arte, la natura e la gente stessa, gli usi e le tradizioni
locali, i modi di fare a volte così impercettibilmente diversi,
gli odori, i colori: tutto questo mi fa sentire viva, parte
di un qualcosa che non so definire, ma che è quello al quale
proprio vorrei appartenere. Questo secondo me è la vera essenza
del viaggio, del viaggiare davvero, del visitare: significa
tornare a casa dopo un soggiorno di questo tipo, guardarsi
al proprio specchio e dire: “Non mi riconosco, c’è qualcosa
di diverso oggi, c’è una parte di quella gente, di quel luogo
che ora mi porterò sempre con me ed orienterà le scelte per
il futuro.”
La metafora del viaggio per me è in stretta analogia con quella
della vita, perché per me la vita è questo: un continuo camminare,
per posti spesso sconosciuti, con persone che vanno e vengono,
alcune delle quali però sempre con te, una perpetua conoscenza
di cose altre e per me non potrebbe essere altrimenti: sono
una persona curiosa ed entusiasta di natura, mi adatto piuttosto
bene in qualsiasi situazione, anche se come tutti a volte
ho rigidità che non mi permettono di affrontare nel modo migliore
le nuove situazioni. E’ questo attuale e dilagante andare
per mete, darsi obiettivi, finalità anche in situazioni differenti
dal contesto lavorativo, che rifiuto e spero di non dover
mai inglobare in me.
Molte persone, che mi conoscono bene, mi definiscono uno spirito
libero ed in effetti mi ritrovo molto in questa similitudine:
non mi piacciono le cose precostituite, il dover andare tutti
in una direzione che non condivido, per il semplice fatto
che è più conveniente, che è meglio fare così perché è “tradizione.”
Non sono una rivoluzionaria in tutto e per tutto, trovo che
gli estremi in ogni contesto e riferiti a differenti situazioni
siano spesso solo peggiorativi dello stato attuale, ma sono
profondamente convinta che non tutto quello che ci viene proposto
debba essere accettato secondo requisiti generali e non personali.
Se si vuole veramente cambiare qualcosa dobbiamo partire da
noi stessi, perché se ben ci pensiamo è l’unica risorsa disponibile
che abbiamo e con la quale possiamo veicolare un nuovo messaggio,
una nuova idea, che possa in qualche modo rendere la situazioni
migliore, o più adatta a noi ed al contesto che viviamo.
Ed è stato proprio con questo spirito e con queste personali
e discutibili e non condivisibili convinzioni, che ho deciso
di approfondire l’offerta di collaborazione con la rivista
e partecipare all’attività della redazione. A tal proposito
affermo con orgoglio, che non mi sono sbagliata: questa esperienza
mi ha regalato e spero lo possa fare ancora delle bellissime
esperienze ed emozioni. Mi riferisco in particolare ad alcuni
ambiti specifici: la mia personale formazione, la circolarità
delle conoscenze e della produzione di idee che rendono vera
la cultura, la possibilità di collaborare e sentirsi parte
di una comunità scientifica con tutte le ricchezze e le differenze,
che essa porta in sé.
Per quanto riguarda la formazione riprendo, sintetizzando,
un racconto della serie Lipika di Rabindranath Tagore intitolato
“Il pappagallo.” In questo racconto collocato nella cultura
libanese dello scorso secolo (anche se l’Autore in questione
non dà precise e specifiche indicazioni spazio - temporali,
ciò risulta desumibile da alcune indicazioni fornite nel corso
della lettura di tutta l’opera), si affronta il tema attuale
ed universale della formazione e di ciò che essa significhi.
Quando prendo in esame tale concetto lo pongo in comparazione
con altri due: quello di acculturazione e sapere nozionistico
fino a designare ciò che io chiamo il “trittico della formazione.”
Il pappagallo rappresenta in analogia la figura dello scolaro,
studente, discente, in generale di colui il quale dovrebbe
mettere in atto due operazioni: quella dell’accumulazione
del sapere nozionistico e quella della formazione personale.
Il pappagallo protagonista viene condotto dal re, il quale
impone ai suoi consiglieri di fornire al pappagallo tutto
ciò di cui può avere bisogno. Prima di tutto una gabbia dorata,
grande ma pur sempre una gabbia, uno spazio limitato.
La gabbia viene fatta costruire dai migliori artigiani del
reame e si prova a far entrare il pappagallo, che però si
rifiuta con schiamazzi e resistenze di ogni tipo. Il re decide
allora di fargli tagliare le ali, in modo che il pappagallo
non possa più volare e provare ad opporre resistenza. Passano
i giorni ed il pappagallo smette di comunicare. Allo stesso
tempo, alla corte arriva il migliore precettore di tutta la
città, il quale giorno dopo giorno cerca di “erudire” l’animale
in gabbia. Passa il tempo e dopo un po’ di giorni il pappagallo
viene trovato morto. Il motivo della morte lo si scopre toccando
il pappagallo: emette un rumore di fogli di carta compressi,
che nei giorni precedenti erano stati fatti “mangiare” al
pappagallo nell’intento di “formarlo.”
Personalmente, nella mia seppur breve esperienza di formazione
a differenti livelli e rivolta a diversi destinatari, tengo
sempre in debita considerazione le conclusioni e gli ammonimenti,
che si possono trarre da questo racconto. In esso, infatti,
ritrovo vari elementi: la persona che si vuole o si deve formare
concepita come attore passivo e mai protagonista dell’esperienza
formativa, la direzione spesso unidirezionale che assume la
relazione formativa, il concetto di sapere contrapposto a
quello di nozione. Credo infatti, che da entrambi i soggetti
coinvolti in una relazione formativa – educativa ci debba
essere il necessario spazio di accoglienza reciproca e la
voglia, nonché l’apertura di lasciarsi interrogare da chi
abbiamo di fronte, anche se a noi estraneo.
La mia personale collaborazione con la redazione della rivista,
mi ha dato l’opportunità di sperimentare tutto questo: oltre
alla pura soddisfazione personale, sono disposta e lo sarò
anche in futuro alla continua formazione, che per me assume
un significato complesso ed ampio rispetto a quello di acculturazione.
L’insieme nozionistico delle informazioni può essere adatto
per la compilazione dei giochi enigmistici, ma lo reputo poco
efficace in un’attenta e seria analisi del mondo e della società
particolare nella quale viviamo. Al liceo ho avuto la fortuna
di “godere” di una professoressa di filosofia, storia e pedagogia
che mi ha sempre costantemente ricordato una celebre frase
di Montagne: non è importante un cervello pieno, quanto una
testa ben fatta. Sono contenta di poter affermare che nelle
lezioni e non solo ha sempre egregiamente applicato questa
massima. Per me ora è lo stesso: mi è capitato di insegnare
nelle scuole primarie e ho potuto constatare direttamente
quanto sarebbe importante che molte persone, educatori ed
insegnanti pensassero così. Alle volte non capivo e tuttora
non lo capisco, il motivo di tanto burn out da parte degli
insegnanti: il lavoro è difficile, molto spesso non ci sono
gli spazi e gli strumenti didattici per metterlo in atto,
ma credo che i lavori che pongono sfide e rischi siano poi
i più gratificanti. Ho avuto esperienze difficili, dove i
bambini presentavano difficoltà e mancanze non solo didattiche
e nozionistiche, ma anche relazionali e familiari.
Per mia fortuna però ho avuto un’altra bellissima ed intensa
esperienza, che mi ha permesso di comprendere il vero atteggiamento,
con il quale si dovrebbe in generale accogliere la sfida formativa
– educativa: la voglia e la continuità di crescere e di mettersi
in discussione. Se manca anche solo una di queste due condizioni,
che per me risultano fondamentali, non ci sono le premessa
e le fondamenta per costruire nulla. La vera relazione ed
esperienza formativa è quella che permette la crescita di
entrambe le persone coinvolte in modo attivo. Considero la
formazione come un concetto globale che permette di comprendere
al suo interno sia l’atto di comunicazione e trasferimento
di nozioni ed informazioni, sia l’educazione nella sua essenza.
In particolare con i bambini credo sia importante dar loro
la possibilità di essere bambini, di godere dell’infanzia
e di sperimentare le possibilità offerte loro dalla vita.
E’ l’atteggiamento psicologico con il quale Erikson identifica
lo sviluppo del bambino nel primo anno di vita. A seconda
della relazione del bambino con l’adulto significativo, di
riferimento, che per lui costituisce il mondo e la rappresentazione
di esso, si potranno avere due sviluppi: fiducia verso il
mondo circostante, inteso sia in senso ambientale sia delle
persone, oppure sfiducia verso tutto e tutti. E’ la fiducia
scevra di ingenuità, che si dovrebbe far comprendere ai bambini,
perché è solo pensando in positivo e in modo aperto che è
possibile costruire qualcosa di significativo per se stessi,
ma anche per gli altri.
Formare significa, per me orientare la persona e le sue potenzialità
verso gli ambiti che sembrano essere maggiormente attinenti
alle caratteristiche specifiche di quella persona senza ingombranti
forzature: lo spirito creativo, la fantasia dovrebbero essere
incentivati e lasciati liberi di svolgersi secondo un flusso
loro proprio e non incanalate in modo precostituito ed ordinato.
Questa situazione è stata per me l’esperienza del mio primo
contributo: al di là della rete internet e del contatto mail
ho trovato persone accoglienti e disponibili, affinché si
potessero creare le condizioni perché alcune mie potenzialità
venissero espresse. Ho trovato, anche se in formato digitale,
persone disponibili a mettersi in gioco personalmente, a confrontarsi,
a dire apertamente: “io non la penso così, non sono d’accordo,
però voglio sentire il tuo parere, voglio le tue considerazioni.”
Tutto questo fa bene, molto soprattutto dopo una giornata,
in realtà più di una, che hai passato cercando di far vedere
che vali qualcosa, che la giovane età non è solo quella del
divertimento totale, ma che riesci a riflettere ed analizzare
fenomeni in modo creativo, ma allo stesso tempo rilevante.
Trovare disponibilità, lealtà e voglia di confronto, in questa
società dai ritmi frenetici e caotici, non è facile, soprattutto
perché la tanto abusata complessità si innesta anche nelle
relazioni interpersonali, facendole divenire qualcosa di evanescente
e refrattario. Difficile per me, che sono decisamente schietta
e diretta tanto da avere problemi a questo proposito; non
mi interessa rivestire una questione di belle parole per mantenere
l’apparenza: ogni problema, ogni fatto con tutte le sue sfumature
ha parole proprie con le quali può essere identificato e compreso,
sinceramente spesso non capisco i panegirici ed i voli pindarici
che spesso, troppo vengono usati per mistificare problematiche
decisamente concrete e che pertanto, per essere risolte veramente
richiedono soluzioni altrettanto concrete.
Spesso quindi si dà per scontato che la lealtà e la stima
reciproca siano una prerogativa di quasi tutte le relazioni
interpersonali, in realtà non sempre lo è: ho negli occhi
e nella memoria gli sguardi e le parole di coloro che ti guardano
e ti dicono: “sei giovane, vedrai che con il tempo cambierai
il modo di vedere le cose e ti adatterai.” Ecco, questa è
una di quelle situazioni a cui accennavo prima e verso la
quale non nutro particolare spirito di adattamento. Il passo
obbligatorio diventa quindi quello di voler rimanere giovani,
non per altri motivi estetici o di prestanza, quanto per la
vivacità ideale che anima questa età della vita. Conosco persone
anziane, però che non hanno nulla da invidiare ai giovani,
perché possiedono ancora quella voglia di conoscere e quella
libertà di conoscenza, che spesso i giovani perdono ancora
prima, sommersi forse da troppi stimoli, per i quali non hanno
strumenti a sufficienza che permettano loro di decodificare
ciò che è stato offerto.
Un altro elemento significativo che apprezzo di questa collaborazione,
è il fatto di averla scelta, voluta, protetta, nutrita. Non
è una delle tante cose che spesso, troppo spesso in questo
periodo capitano così, perché una serie di fattori multicausali
hanno fatto in modo che accadesse: è stata una decisione,
come ho detto prima, ponderata ma dalla quale non ho intenzione
di tornare indietro. Tutto ciò mi ha fatto venire alla mente,
il bel dipinto di Vincent Van Gogh “Le semeur” nel quale è
possibile ammirare un seminatore appunto, lungo un campo che
sta seminando, da solo: credo invece che questa collaborazione
possa essere considerata come l’opera di semina, ma non effettuata
in solitudine. Un’altra considerazione artistica, che per
analogia offre un’immagine nitida e chiara di ciò che penso
è la realizzazione degli arazzi (ho una smodata predilezione
per questo tipo di arte oltre che per l’arte in generale):
prima di tutto nell’arazzo non ci sono segni di incertezza
da parte di chi lo sta realizzando, le rappresentazioni sono
trattate in modo impeccabile e poi oltre all’arazzo in sé,
vedo oltre, il lavoro che vi è stato: una fine tessitura,
secondo una trama pensata e poi l’applicazione giorno dopo
giorno, dei punti di ricamo, con costanza, perseveranza, nella
speranza di poter confezionare qualcosa di grandioso, siano
esse scene di caccia, di vita agreste, campestre o di vita
in società.
A livello artistico, non trovo migliore analogia con quanto
mi sia capitato con il contributo la rivista. Ricordo, inoltre
come la tessitura abbia salvato Penelope dalla bramosia dei
proci. Approfondendo lo spazio virtuale, che mi offre la rivista
è quello di poter usufruire di contatti con altre persone,
studiosi, ricercatori, cultori di discipline, con la garanzia
di trovare risposte accoglienti, disponibilità all’ascolto
ed all’approfondimento, scambio di informazioni, impressioni
reciproche. Mi interessa molto questo ambito di lavoro e spero
in futuro, di poter continuare a partecipare, per poter dire
di aver preso parte anche io al processo circolare di produzione
e scambio di conoscenze.
Considerazioni nascono anche dal fatto che la rivista si occupa
di metodologie qualitative, non standard: per il mio ambito
di lavoro e studio che intendo e spero di poter approfondire,
esse rappresentano il metodo prediletto per la mia analisi,
anche se per alcune specifiche ricerche, mi devo attenere
ad una analisi standard, quantitativa. A tal proposito, la
collaborazione con la rivista mi offre la possibilità di confrontarmi
con l’utilizzo di metodologie, strumenti e tecniche applicate
in relazione a specifici campi d’indagine. E’ possibile inoltre
il confronto con persone straniere e che di conseguenza partono
da un background culturale differente rispetto al mio ed ovviamente,
per le ragioni prima espresse, ciò non fa altro che aumentare
la mia naturale predisposizione alla curiosità.
I differenti schemi entro i quali siamo abituati a concepire
e comprendere la nostra specifica realtà variano sia in relazione
al tempo nel quale ci troviamo a vivere, sia al contesto fisico
ed all’ambiente culturale, nel quale viviamo e lavoriamo.
Il confronto con esperienze internazionali e lo spazio dedicato
alla divulgazione rendono questa mia partecipazione, ancora
più interessante. Il tema della comunicazione e della divulgazione,
in questa sede mi appare meritevole di approfondimento.
Credo fermamente che la produzione di idee e cultura (nel
senso lato del termine) debbano sfociare, in modo quasi obbligato
verso la possibilità di divulgazione. I contributi, basati
su criteri scientifici e realizzati in osservanza di essi,
dovrebbero quindi essere divulgati e questo per una serie
di motivi:
- accrescimento del bagaglio culturale ed informativo di ognuno;
- possibilità di espressione e comunicazione delle proprie
idee ad altre persone, che possono contribuire ad orientarle
in modo anche differente rispetto a quanto pensato all’inizio;
- circolo di idee che viene garantito all’interno di una comunità
scientifica.
Alla mente mi ritornano, in ambito sociologico, alcune ricerche
condotte qualche tempo fa, che contenevano in sé limiti sia
dal punto di vista epistemologico, sia metodologico: per questo,
non avendo validità scientifica o di scoperta dal punto di
vista della ricerca, contenevano e presentavano utili indirizzi
ed orientamenti per evitare gli stessi limiti e per ragionare
su essi e sul loro possibile superamento. Considero quindi
l’atto della divulgazione e della conoscenza di esperienze
reciproche, come possibilità di oltrepassare il sapere singolo,
per arrivare ad un tipo di sapere condiviso e pubblico. Il
sapere e le proprie scoperte, pur mantenendo i “diritti d’autore”,
una volta che si riconosce la propria appartenenza ad una
comunità scientifica dovrebbero divenire patrimonio di tutti,
perché a volte esse possono diventare le basi di inizio di
un nuovo lavoro, possono venire sviluppate in modo diverso
e poi confrontate e comparate ed infine possono essere godute:
pensiamo a questo proposito all’immensa mole di eredità, che
abbiamo ricevuto dal punto di vista artistico ed architettonico.
Così come un artista non tiene nascosta la sua opera, così,
secondo il mio personale punto di vista, non dovrebbe fare
lo studioso o il ricercatore.
Per concludere l’analisi della mia personale esperienza di
collaborazione alla rivista, mi piace poter riprendere in
sintesi il passo finale dell’opera “Le città invisibili” di
I. Calvino, anche se visione pessimistico - realistica che
non condivido in modo estremo: nell’inferno di ogni giorno
vi sono due sole possibilità per superarlo: adattarsi ad esso
fino quasi a diventarne parte oppure, e questo metodo è il
più difficile da apprendere e da mettere in atto, cercare
chi e che cosa in mezzo all’inferno, non è inferno e dargli
spazio, e farlo durare.
M@gm@ per me ha rappresentato tutto questo. Una possibilità
di riconoscere ciò che non è inferno e dargli spazio, farlo
crescere e farlo durare e riconoscere la grande opportunità
che mi è stata offerta.
Un’ultima precisazione, nell’invio della prima email sono
stata attratta fin dall’inizio dal nome della rivista M@gm@:
qualcosa di caldo, ribollente, in continuo fermento, che esprime
forza e voglia di creatività e messa in discussione. E’ quindi
il mio punto di fuga, il momento personale di piacere nel
contribuire a fare qualcosa in cui credo davvero, fermamente.
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