Il m@gm@ costitutivo dell'immaginario sociale contemporaneo
Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.6 n.3 Settembre-Dicembre 2008
LE TRAPPOLE DELLA VALUTAZIONE
(Traduzione Paolo Coluccia)
Georges Bertin
georges.bertin49@yahoo.fr
Membro Onorario Osservatorio dei
Processi Comunicativi, Associazione Culturale Scientifica
(www.analisiqualitativa.com); Membro del Comitato Scientificoo
della rivista M@gm@; Direttore di Ricerche CNAM di Angers,
Francia (Consorzio Nazionale delle Arti e dei Mestieri); Direttore
esecutivo d’Esprit Critique, rivista internazionale in scienze
sociali e sociologia; Dottore in Scienze dell'Educazione;
ha conseguito l'Abilitazione a Dirigere attività di Ricerche
in Sociologia; Direttore Generale dell'I.Fo.R.I.S. (Istituto
di Formazione e di Ricerca in Intervento Sociale, Angers,
Francia); Dirige ricerche in Scienze dell'Educazione all'Università
degli Studi di Pau - Pays de l'Adour; Ha insegnato all'Università
degli Studi di Angers, alla Scuola Normale Nazionale Pratica
dei Quadri Territoriali; è membro del GRECo CRI (Gruppo Europeo
di Ricerche Coordinate dei Centri di Ricerca sull'Immaginario)
e della Società Francese di Mitologia, fondatore del GRIOT
(Gruppo di Ricerche sull'Immaginario degli Oggetti simbolici
e delle Trasformazioni sociali) e direttore scientifico dei
quaderni di Ermeneutica Sociale.
Questioni
preliminari sotto forma di constatazione
Quando ciascuno può constatare che in numerose pratiche sociali
e professionali (controlli, competenze, commissioni ad hoc
ecc.) la valutazione-controllo è sottoposta alle rappresentazioni
di un tempo astratto e continuo, che la trasparenza assoluta
è sollecitata, la garanzia degli esperti richiesta e stabilita
dall’inizio, che l’a-priori governa i ragionamenti politici
in base all’insignificanza generalizzata, che l’Organizzazione
estende la sua influenza, che le istituzioni raccomandano
l’adattamento dell’individuo alle norme sociali in un’ottica
di riparazione, di raddrizzamento, che comporta, con soggetti/oggetti
reificati, infantilizzazione e dipendenza, che cosa resta,
al sociologo, a chi interviene nel sociale, come tempo liberatorio
per una valutazione del processo? Quali implicazioni trarne?
Per quali strategie?
Riflessioni
Come aveva ben visto Jacques Ardoino [1],
almeno vent’anni fa, “i campioni più sofisticati della
tendenza alla funzionalizzazione e dell’ingegneria organizzatrice
dei tempi moderni ritrovano sotto un’altra forma gli aspetti
più rigorosi del pensiero normativo arcaico e dei manicheismi
primitivi. I linguaggi digitali dell’informatica provocano
un pensiero binario che vuole risposte nette alle domande
tollerate soltanto perché programmate”.
Così gli investimenti clinici, relazionali, educativi e sociali
diminuiranno in proporzione all’aumento progressivo ed ingiuntivo
delle istruzioni per l’uso, delle procedure sottoposte a controllo
(norme qualità ISO XXX). Ed è lì che risiede la trappola che
ci tendono gli schemi funzionali se non ci sono addetti alla
valutazione, la loro riduzione assoluta al non vivente, al
parametrabile. Da ciò si desume che valutare è un concetto
ambiguo.
Uno strumento di misura, che permette di quantificare, ad
esempio, l’evoluzione delle psicopatologie (scale di valutazione,
rating scales), è usato in senso normativo (di riduzione all’unità
misurabile perché sequenziale), e rinvia qui alle procedure,
al rapporto con la norma (contro ruolo delle imposizioni,
della contabilità in partita doppia), la logica che prevale
sarà quella della conformità ai modelli, essi stessi prodotti
in forme spaziali individuabili (grafici, figure, inventari
ecc.). Questa valutazione genera inevitabilmente la sua ripetizione,
l’impossibilità di fare attività clinica, psicologica o sociale,
e dunque, per l’esperto, della sua vita, poiché queste professioni
sono inizialmente influenzate, in ciascuno, dalla propria
personalità come strumento, avendo ciascuno a cuore di farne
persino un’opera d’arte.
Preso dal lato della produzione di valore (e-valuer in senso
proprio), dal valore che si dà all’azione, (il valore - value
- è ancora nel medioevo la qualità della persona valorosa),
valutare dovrebbe significare rendere conto dell’adeguamento
degli esperti nel loro lavoro ai valori che sottendono, nella
Repubblica (res publica), il corpo sociale, e che devono essere
universalmente condivisi per non compromettere l’equilibrio
stesso di quel corpo sociale. Sono nominati ed iscritti sulle
facciate dei nostri edifici pubblici, in Francia: Libertà,
Uguaglianza, Fraternità, ed ancora nella Dichiarazione universale
dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1948.
Valutare, significa andare alla ricerca di un senso del valore
costruito giorno per giorno nell’interazione, nei processi,
nella e attraverso la storia dei soggetti, la categoria che
si gioca e si prova è anche la temporalità come considerazione
dei processi, vi si oppone alle riduzioni spaziali summenzionate.
Ora, che cosa constatiamo?
Cornelius Castoriadis [2]
ha analizzato nelle sue opere lo sprofondamento della società
contemporanea in una ripetizione sempre più vuota e non cessa
d’interrogarsi sul valore della creatività come possibilità
inerente all’uomo quando sa attuare l’immaginario sociale,
che è “ideazione, attuazione, conservazione”. Con il pretesto
del rigore scientifico, ne deriva che i nostri apparecchi
moderni di valutazione non rendono più conto di ciò che può
preoccuparci.
Altri sistemi hanno così tentato nel 20° secolo ciò che affermavano
essere una gestione “scientifica” della vita sociale, ne conosciamo
le immagini prodotte, hanno il nome di Auschwitz, Gulag, e
ne conosciamo la logica implacabile istituita e le sue conseguenze:
l’eliminazione di ciò che devia, del marginale, poi del concorrente
all’interno del proprio sistema. È sorprendente constatare
che i primi ad essere eliminati, in queste gestioni, erano
giustamente i malati mentali. E sappiamo fino a qual punto
questi discorsi scientifici erano costruiti dalla politica
con la scusa dell’universalità o pretesa tale. “Disarmare
gli anarchici reazionari mostrandone il carattere illusorio
del loro potere, scriveva il medico Wilhelm Reich [3],
è uno dei compiti razionali della lotta per la Libertà”.
Tra destrutturazione e ristrutturazione, ciò che osserviamo
è un immaginario sociale che va alla deriva, non potendo più
svolgere il suo ruolo che istituisce creatività, esso è messo
sotto sorveglianza, represso dal gioco delle norme (questo
interviene d’altronde generalmente nei periodi moralizzatori
e puritani, di controllo del corpo sociale e si osserverà
con interesse la coincidenza delle ingiunzioni d’istituzioni
svuotate del loro senso e degli schemi dei regolatori che
si sostituiscono alla politica sulla base del ritorno all’ordine
morale).
Il riconoscimento dell’immaginario nelle sue due componenti,
il radicale ed il sociale, è certamente la chiave che permette
di superare le rotture di senso indotte dalla modernità tecnocratica.
È forse là che dovremo cercare un’alternativa alla deriva
tecnicizzata dell’immaginario sociale che prenderebbe il suo
senso soprattutto con la sua qualità intrinseca ed anche per
il suo inserimento in un tessuto vivente, in relazione con
conoscenze gruppali o sociali. Significherebbe, nel senso
principale di questo termine, la relazione dialettica intrattenuta
con le popolazioni o con il pubblico, con i pazienti (coloro
che soffrono, cosa che non manca).
È dunque una parte di risposta alla domanda posta prima che
ci arriva qui, essa porta un bel nome: resistenza, quando
l’illusione della libertà sostituisce l’esercizio della libertà,
poiché la subordinazione ai modelli organizzatori non può
produrre il senso ricercato nel difficile esercizio della
posizione clinica, sociale, psicologica, culturale o economica.
All’esercizio smodato degli strumenti normativi, opponiamo
un’altra logica, quella dell’analisi delle implicazioni, della
ricerca azione, di una valutazione-processo che sappiamo bene
non può mai essere esaustiva. È a ciò che i nostri metodi
di formazione devono preparare i clinici.
È la scoperta della ricchezza della vita locale, dei percorsi
dei soggetti e delle istituzioni, di tutto ciò che forma la
ricca trama della socialità, per osservarne gli assi strutturanti,
le direzioni effettive ed emozionali, l’immaginario istituente.
Mentre i poteri mettono in campo procedure di sorveglianza
tecnologiche, per effettuare un piano disciplinare, una sistemazione
del campo culturale, minuscole pratiche popolari (associazioni,
gruppi sociali in ricerca attiva) rispondono di fatto con
operazioni quasi-microscopiche. Queste pratiche acquisiscono
un grande valore in quanto valorizzate da strategie multiple
e tattiche che fanno che da uno stesso oggetto ciascuno fa
il suo prodotto su misura, differente. Meritano di essere
interrogate, valorizzate, valutate in base al senso che producono
in riferimento a valori condivisi, poiché esprimono ancora
una riserva d’energia insondabile e misteriosa che non si
può sottovalutare. È in questo senso che si può parlare d’incarnazione
della socialità nel clinico. Ma questo può mettersi in opera
soltanto in uno schema accettabile per le diverse parti sociali,
i dati concreti raccolti dagli attori e gli imperativi ai
quali si trovano di fronte. Il riconoscimento delle particolarità
è in questo caso l’antidoto ad un’universalità disincarnata
e terroristica e sfocia necessariamente e dialetticamente
sul singolare, a partire da una considerazione della ragione
sensibile e della sua attualizzazione (Michel Maffesoli).
Pensiamo che la competenza non può essere un modello unico,
poiché non sa mai realizzare una lettura critica delle categorie
del tragitto antropologico enunciate da Gilbert Durand.
Ogni pratica simbolica è di fatto - e la clinica ne è una
- la congiunzione mai esaustiva, sempre provvisoria tra dati
soggettivi ed intimazioni del mezzo.
L’intervento clinico deve compiere questa misteriosa alchimia
che consiste nel mettere insieme da un lato i dati soggettivi:
biografie, ricorso alla storia di vita dei soggetti, al loro
radicale immaginario, e a riferirli ai miti che vengono ad
informarli della loro storia, dei loro determinanti personali
o collettivi inconscienti, e dall’altro sottostare agli obblighi
delle realtà naturali, sociali, economiche, organizzative.
Se questi ultimi vogliono ben strutturare il campo di qualsiasi
ricerca, devono farlo in una proporzione radicalmente inversa
a ciò che osserviamo oggi.
NOTE
1) Ardoino Jacques, Education
et Relations, Paris, Gauthier Villars, 1980, p. 38.
2) Castoriadis Cornélius,
Une société à la dérive, Paris, le Seuil, 2005.
3) Reich Wilhelm, Les hommes
dans l’Etat, Paris Payot, 1978, p.106.
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