Le m@gm@ constitutif de l'imaginaire social contemporain
Orazio Maria Valastro (sous la direction de)
M@gm@ vol.6 n.3 Septembre-Décembre 2008
EPIGRAMMI DI SOCIOLOGIA QUALITATIVA: PER UN POSSIBILE ISTITUENTE
Augusto Debernardi
augudebe@gmail.com
Collaboratore Scientifico Osservatorio
dei Processi Comunicativi, Associazione Culturale Scientifica
(www.analisiqualitativa.com); Membro del Comitato Scientifico
della rivista M@gm@; Laureato in Sociologia all'Università
degli studi di Trento; è stato componente dell’équipe del
Prof. Franco Basaglia all’Ospedale Psichiatrico Provinciale
di Trieste; diplomato all’INSERM di Pargi in epidemiologia
Psichiatrica; coordinatore dell’équipe sociopsicologica dell’Alloggio
Popolare Gaspare Gozzi di Trieste; componente dell’équipe
O.M.S. per la psichiatria; collaboratore Unità Operativa dell’istituto
di Psicologia del CNR per la prevenzione malattie mentali
ed autore di parecchie pubblicazioni; editor del Centro Studi
per la salute Mentale, Collaborating Center W.H.O.; fondatore
dell’U.O. per l’epidemiolgia psichiatrica ed autore di numerose
ricerche e valutazioni; specializzato in statistica sanitaria
e programmazione sanitaria; esperto nel settore della cooperazione
nel campo della salute mentale nella Repubblica di Argentina
e del Cile; Coordinatore Sevizi Sociale presso l’ASS Isontina;
direttore servizi minori Comune di Trieste; Collaboratore
dell’Associazione Oltre le Frontiere per le questioni dell’immigrazione;
collaboratore della CARITAS della diocesi di Gorizia per la
questione del manicomio di Nis (Serbia); Direttore di Area
Provincia di Trieste; Presidente dell’ITIS (Istituto Triestino
per Interventi Sociali); componete dello staff del direttore
generale ASS Triestina; Presidente Co.Ri. (Consorzio per la
riabilitazione); animatore dell’associazionismo in temi culturali
e dell’integrazione europea.
Società
dello spettacolo, quella di Guy Debord, frutto della concentrazione
da buco nero del capitale oppure società della comunicazione/informazione.
Ecco, due immagini plausibili della stessa società, due sguardi,
quello resistente e quello dell’istituito o, perlomeno, del
borderline.
Due modalità di organizzazione dei saperi del sociale (società)
in cui gli investimenti libidici del soggetto (lavoratore-professionale)
assumono diverse valenze difensive attraverso le formule organizzative
adottate. Le vecchie angosce primarie sono sempre sperimentate
in ogni momento della vita e trovano nell’organizzazione prescelta
non solo il ”particolare” ovvero lo strumento macro (dialettico)
per poter esprimere il lavoro e gli obiettivi adottati od
imposti ma anche per difendersi da quelle stesse angosce originarie
che si possono brevemente classificare in due coppie: dipendenza
e solitudine e/o ansia abbandonica e paura di schiacciamento.
E poi da tutte quelle secondarie, naturalmente, ovvero l’ansia
e l’insoddisfazione che accompagnano di solito tutti i lavoratori,
tutti coloro che sono inseriti in una qualsivoglia organizzazione,
direi semplicemente… tutti. Un’organizzazione non è mai neutra,
né tanto meno inerte ed implica nella sua proprietà originaria
o costituente un uso difensivo. Se si superano certi livelli
di investimento (libidico, ovvero semplice attenzione) abbiamo
dirottamenti energetici rispetto agli stessi compiti primari
e di difesa primaria e cresce la situazione di angoscia secondaria,
sempre di più.
Negli ultimi tempi chiunque si occupi di discipline legate
allo ”psi” ed al ”socio” ha avuto notizia se non cognizione
dei cosiddetti tavoli di lavoro dei piani
di zona a cui sono chiamati anche i cittadini del volontariato.
Il nome della neo-organizzazione è “tavolo di lavoro” (da
distinguersi dunque da quello del mangiare - sic, ce n’era
bisogno, visti i tempi che corrono e che ci imprimono caste
e costi degli apparati!). Non si dice gruppo di lavoro. Ed
è corretto. Il tavolo di lavoro non è un gruppo, ma un ambiente
composto da gruppi diversi. Intanto c’è un “gruppo oggetto”
che è tale perché è costituito ed è definito dalle istituzioni
cui afferisce come i servizi sanitari o comunali o di qualche
settore economico/cooperativo etc. Questo gruppo è determinato
da una caratteristica esterna ed in comune gli individui hanno
che parteggiano per un interesse comune, possono influenzare
le decisioni e cambiare facilmente i modi di fare e di decidere.
Accanto al “gruppo oggetto” si ritrova il ”gruppo soggetto”
[1] che è abile ed autonomo
nell’azione ed è lì perché vi è portato dalla sua volontà
originaria (se non completamente almeno in buona misura).
Inoltre su questo gruppo - di solito non pagato per questa
sua presenza e dunque ancor più handicappato - pesano dei
condizionamenti esterni non solo come per tutti i cittadini
che sono i pesi dell’istituito, ovvero ciò che si è interiorizzato
in fatto di regole esplicite ed implicite e quant’altro si
è appreso od è stato imposto.
E’ il gruppo che vuole delle cose sul serio, che scombina
le cose della tradizione degli enti istituiti, che riceve
le critiche di non avere uno sguardo comune (sic, bene comune
condiviso - da chi?), cosa che sta ad indicare semplicemente
che non ha accettato né compreso gli obiettivi del gruppo
oggetto che spesso non li sa nemmeno bene lui stesso. Implicitamente,
questo gruppo oggetto, sa sempre che deve difendere le posizioni
ed i redditi derivati; se poi riesce ad aumentare il consenso
od almeno l’inerzia delle critiche e delle domande, sarà indubbio
valore aggiunto. Il gruppo soggetto è invece il gruppo che
è spesso accusato di non perseguire il bene comune (generalismo
dell’istituito). Il gruppo soggetto tende verso l’autogestione.
Il volontariato è un po’ questo: mette a frutto gli abbandoni
(metaforici e non) dell’istituito per rendere più colorata
la vita propria e degli altri, non in nome dell’astrattezza
del bene comune che di solito è definibile solo dal gruppo
oggetto o dalla classe istituzionale, ma della concretezza
delle sue missioni, delle sue relazioni, dei suoi rapporti
diretti, face-to-face fino a quando glielo si lascia fare,
beninteso. E se glielo si lascia fare è gruppo che spesso
riceve critiche di familismo. Questa critica, questo giudizio
un po’ sprezzante in certi casi fa dimenticare che nei domini
assistenziali sono spesso gli stessi genitori che si autorganizzano
per far fronte a ciò che essi reputano bene per il loro cari
e così pure nel dominio della cultura dove vengono etichettate
poco moderne certe azioni fatte magari per ribadire il senso
della “resistenza”, quello dell’olocausto, quello dell’espressività
in genere, comprendendo la riscoperta dell’art brut poetica
e letteraria in quanto capace ricomunicare realtà importanti
e singolarità. E’ facile comprendere che c’è un bisogno immenso
di queste forme di azioni culturali promosse e messe in campo
dal volontariato proprio per evitare che, permettendo la continuità
della tradizione diretta del narrare, si neghino certi eventi
storici o, peggio, si venga a considerare ciò che accadde
a Marzabotto o a Basovizza, sul Carso triestino, una semplice
scampagnata di nazifascisti in libera uscita o di bande comuniste
fuggite ai controlli. Oppure si rinforzi l’idea che cultura
è solo ciò che viene degli istituti, in primis la tivvù.
Ma non è tutto. Nel “tavolo di lavoro” c’è pure, come si è
anticipato poco sopra, un gruppo socialmente omogeneo che
è detto “classe istituzionale” che è composto da
persone che occupano i medesimi posti all’interno della divisione
sociale del lavoro (quelli degli stessi livelli, come gli
infermieri, le assistenti sociali, dottori, amministtrativi
etc., anche se appartengono a differenti istituzioni e funzioni)
[2].
Siamo nel 21° secolo, quello delle reti più evocate che invocate,
né molto comprese. Ad esempio: l’altro giorno dicevo con foga
ad una da poco ex dirigente del sociale se si ricordava di
quanto andavo dicendo lustri or sono a proposito della funzione
procedurale di riproduzione delle disuguaglianze propria della
rete. Allora ella era scettica ed incredula, ma visto che
solo oggi sperimentava, con grande disappunto, una sorta di
stato di marginalità in cui si veniva lentamente a trovare
nei confronti di certe organizzazioni sulle quali non aveva
più nessun potere né alcun riconoscimento delle funzioni precedentemente
svolte e quindi un rispetto privilegiato, pareva assumere
una compliance a ripensare anche se la sua posizione era quella
di chi pretende, in nome della rete, dei ponti d’oro in fatto
di accoglimento occupazionale. Strano modo di ragionare, strano
modo di costruire saperi consolatori prima. Le reti non sono
semplici livellatori dei gruppo-oggetto, dei gruppi-soggetto,
delle classi istituzionali come certi pensieri da “mamme del
popolo” hanno fatto ipotizzare. Sono ben altro.
Per averne un’idea immediata basta pensare a cosa sono o possono
essere le reti di spionaggio. Inoltre nel 21° secolo dovremmo
saper utilizzare un pensiero trasverso, trasversale capace
di connettere davvero mentre invece il pensiero/azione delle
istituzioni è più orientato a proteggersi ed a stimolare tutti
gli effetti di cui alla nota 2.
In realtà, noi cittadini, noi volontari, siamo di fronte a
saperi completamente scissi, la cui scissione è completamente
compiuta. Con tutte le conseguenze. Come quella dell’istituzione
che si ricicla sempre - a scapito del soggetto - e si ripensa
e si rimodella e si fraziona all’infinito anche e proprio
perché il soggetto non è altro, per lei, che individuo senza
rapporti sociali, senza cristallizzazione di stati d’animo,
senza scatti, senza singolarità. Solo lei (istituzione) può
permettere un certo legame fra la vita emotiva e la vita pratica
e dunque permettere all’uomo/donna infagottato/a nelle sue
emozioni e pulsioni di realizzare qualche cosa nell’ordine
dell’umanità. Così pensava E. Tosquelles. Ma questa sua accezione
ha molto di analogia con quanto dicevo a proposito dell’organizzazione.
Istituzione però è qualche cosa di più: è quello che ci hanno
detto che va difeso! Dunque un’organizzazione più importante
e significante. E. Tosquelles, forse il fondatore dell’analisi
istituzionale, diceva che l’istituzione (organizzazione) è
lo scambiatore centrale del biosistema del pensiero, del sistema
della vita, dell’essere umano. A Sant Alban, ospedale psichiatrico
nel sud della Francia nella regione di Lozère dove si era
rifugiato e a lavorare dopo la condanna a morte da parte del
regime spagnolo franchista, Tosquelles aveva avviato una riflessione
su cosa era il manicomio nella società divisa in classi ed
aveva cominciato a capire il ruolo dell’istituzione.
Capire cosa producono queste organizzazioni ed istituzioni
su se stesse e sulle persone (soggetti) è un po’ ciò che vogliamo
fare anche noi per cambiare e realizzare dei momenti (espressioni
di energia) meno dominati e meno coartati, meno asserviti,
più liberi. Nel discorso che ho appena fatto va ricordato
subito che l’attribuzione di particolarità negative, per lo
più negative, ai gruppi-soggetto così come a certe persone
è semplicemente la risultante di proiezione di istanze razzistiche
o similari. Anche se è vero ciò che si afferma ci troviamo,
invece ed in realtà, di fronte ad una menzogna che indossa
vesti di verità perché le ragioni che ci fanno dire quelle
cose sono false. Lacan sapeva benissimo che la gelosia del
paziente pur avendo una sua ragione di essere per il semplice
fatto che era certo che la moglie andava con un altri uomini
doveva essere trattata come uno stato patologico. Perché?
Ma perché viene disconosciuto l’investimento libidico nella
figura dell’amante… o nel caso dei “tavoli della politica”
e del razzismo nella figura dell’ebreo, del negro, del meridionale,
del giovane, del disadattato, del genitore etc… Il risultato
è di solito, anzi sempre, il politicamente corretto che ci
impone nuove regole relative ai contenuti invece di cambiare
la nostra posizione soggettiva. Una gran comodità, di solito
dispendiosa per i bilanci, di solito di difficile applicazione….
e tanto affine al gattopardismo.
Oggi le cose sono sì sempre controllate dal feticismo delle
merci tanto a caro a Marx ma sono ancor più controllate dallo
spettacolo che non è altro che un rapporto sociale fra individui
mediato dalle immagini. La leggerezza o l’inconsistenza o
l’impalpabilità di certe formule organizzative - tavoli o
all’incirca tali - si definiscono proprio come nuova immagine
in cui va in scena la rete, presupposta tale. Inoltre, avete
visto che nelle stazioni ferroviarie, quelle dove accedono
e scendono anche i lavoratori pendolari ammassati come sardine
da treni spesso ad orario variabile o flessibile hanno messo
diversi schermi? Il monologo elogiativo dell’istituzione-azienda-società
è così ininterrotto. Così… più egli (cittadino) contempla,
meno vive, più guarda le immagini ed in esse si riconosce,
più i suoi desideri diventano incomprensibili ed alieni così
come la sua esistenza. Il massimo. Bolle nel liquido di una
società liquida ma… democratica e fragile, così fragile che
deve essere preservata. Come? Con la garanzia dell’immutabilità
delle scelte di governo. Ecco allora che vediamo i programmi
politici dei due blocchi messi dalla satira in una qualche
pagina dei giuochi enigmistici. Nel confronto il lettore deve
esercitarsi a scovare le diversità o le analogie.
Un passo indietro, dovuto allo stimolo avuto dalla presentazione
del libro di Luccio Riccardo - professore di analisi dei dati
a psicologia in Trieste, medico di formazione che, ci dice,
fin da giovane voleva fare lo scienziato ed essere comunista
- dal titolo “Treno per pendolari (epigrammi)”, collana Il
Nuovo Timavo, edizioni Hammerle in Trieste.
Nel 40 d.C giunse a Roma Marco Valerio Marziale, nato a Bilbilis
in Terragona. Occupò ben presto quel ruolo di poeta (squattrinato,
come si addice di solito a chi poeta è sul serio) scarrocciando
dalla rotta della professione avvocatizia ma raggiungendo
ben presto una ottima fama. Senza dimenticare però che per
averla e per mantenerla c’erano servili prostazioni verso
il patronus di turno o chi lo ”noleggiava” per qualche occasione
o festa. In ogni caso la sua fama fece sì che l’imperatore
Tito gli dette un vitalizio, anzi un sussidio riservato a
coloro che avevano tre figli. Ma Marziale non ne aveva. (Cosa
non straordinaria anche per noi contemporanei dell’anno 2008
d.C.) I Carmi di Priapo sono una meraviglia come pure gli
altri epigrammi. Liber de spectaculis, 33 o 36 epigrammi scritti
per l’inaugurazione dell’anfiteatro Flavio (Colosseo). E poi
altri. Ciò che prevale in questi componimenti è l'aspetto
comico-satirico, spesso reso dal fulmen in clausula
o in cauda venenum o più comunemente come si dice
in italiano stoccata finale, ovvero la tendenza a concentrare
gli elementi comici e pungenti nella chiusa dei componimenti,
terminati con una battuta inaspettata. Come anche nelle barzellette,
che chiudono in maniera improvvisa o rovesciata e suscitano
il riso anche se affrontano questione seriosissime. Certo
il buon Freud avrebbe da dirci qualche cosa! L’epigrammista
- però va anche detto che epigramma è ciò che veniva scritto
in breve sulla pietra (tombale) e dunque niente affatto ironico…
per forza di loculo - coglie la comicità attraverso la rilevazione
della contraddizione (tutti alla conferenza sulla pace al
circolo culturale in piazza Oberdan angolo via Pietro Micca,
ci direbbe il prof. Luccio). Ciò che si annida nelle situazioni
reali, specie nei vizi e nei difetti umani può diventare rivelazione
formalmente accettata anche se molto aggressiva. Ed oggi,
alla grande, striscia la notizia. È così si delineano
nei suoi versi degli epigrammi, nelle notizie strisciate allora
come oggi, molti tipi umani: dal pervertito al finto ricco,
dalla lussuriosa all'ubriacona, dall’arrivista al potente,
al dedito alla famiglia ed ha figli in altre famiglie, a chi
occupava uno stabile (possibilmente di qualche ente in disarmo)
beninteso per il potere non di sé bensì di un altrui - ci
mancherebbe - e continua nell’occupazione del potere sempre
per l’altrui bene - questo sì che è bene collettivo - per
tutta la sua vita e così via. Si mettono alla berlina i vizi
morali ma anche i difetti fisici e le malattie, le donne che
si truccano per apparire giovinette pur essendo anziane, medici
che uccidono i clienti, avvocati viscidi che ingannano i loro
clienti, mariti cornuti che fanno fuori le mogli per prenderne
l’eredità, l’alito che rende inavvicinabili. Insomma già a
quel tempo l’apparenza - ingannevole allora come oggidì -
era padrona degli esseri umani. L’epigramma con la sua forza
aggressiva illuminava più una società che il bisogno di cambiamento.
Già come era la vita dell’epoca? Come era l’istituito quotidiano
di Roma?
Per pochi fortunati, Roma - che non lasciava dormire il buon
Marziale che abitava ad un terzo piano di una casa sita sul
colle del Quirinale - era una festa continua, una baldoria
sfrenata, mentre per molti era un affaccendarsi continuo.
Altri ancora preferivano dedicarsi ad affari più redditizi
come i tenutari dei bordelli che trovavano terreno fertile
o come la moltitudine di ruffiani e delatori. Quella Roma
affaristica offriva spazi di manovra impensabili e i mercanti
facevano affari d'oro con i prodotti di lusso: il padrone
di una pescheria poteva fornire duemila murene per un solo
pranzo; i mercanti d'uccelli potevano mettere a disposizione
nel giro di poco tempo più di cinquemila tordi in una sola
volta e decine e decine di caprioli, cinghiali e capi di selvaggina
si vendevano a carissimo prezzo per i banchetti e le orge
private. Il mestiere più antico del mondo era attività assai
remunerativa e giova ricordare che a Pozzuoli ogni prostituta
aveva la sua bella casetta con una propria fonte sulfurea
privata e riservata ai facoltosi clienti. Il cibo, immenso
nei banchetti che contano, era un grande status simbol. E
lo era pure il possedere almeno due ville. Un "ricco autentico"
non poteva avere meno di due ville: una vicino alla capitale,
un'altra presso una spiaggia come Baia o Pozzuoli. Più che
ville erano veri templi del lusso: mobili pregiati, argenti,
pietre preziose, perle d'Oriente e suppellettili d'oro massiccio.
Non c'è che dire: Roma era una città di intenditori e più
che esser affinati in politica o strategia militare si doveva
esser capaci di riconoscere i veri pavoni di Samo, le gru
di Melo, i capretti di Ambracia, il tonno di Calcedonia, le
murene di Cadice, le ostriche di Taranto, gli storioni di
Rodi, i datteri d'Egitto, i vini delle colonie più lontane
e via dicendo. In un mondo votato al lusso, al piacere, all'emulazione
insensata anche i patrimoni più cospicui potevano disperdersi
nel giro di pochi mesi ed allora il poveretto, fino ad allora
riverito ed adulato, si ritrovava solo e senza più un amico:
in quel tempo «esser povero non era più, o soltanto, la peggiore
ignominia né il peggior delitto, ma l'unico». Tutto poteva
essere perdonato se la tasca era ben fornita. Ma la miseria
non si perdonava a nessuno. Allo stesso modo poteva esser
facile fare qualche soldo grazie alla fortuna perché bastava
andare a genio a qualche potente o famiglia illustre per sistemarsi
per qualche tempo sempre che il destino tenesse lontano le
sventure e non facesse precipitare il mecenate (o quasi) dalla
scale del potere.
Si nota qualche analogia con l’istituente istituzionale di
oggi, anno 2008 che fa tavoli vari e distretti ancor più variegati
e che contamina fior di persone dedite al volontariato e portatrici
di carichi assistenziali di rilievo tanto da far dire loro
che ci vorrebbe una forma di elezione del volontariato nei
vari tavoli? Abbiamo visto da poco anche i cosiddetti “furbetti
dei quartierini”. Finché tutto andava si faceva a gara per
averli a cena, per elogiarli, per elogiare la loro abilità
finanziaria ed imprenditoriale. Poi un distacco, ma pur sempre
un ruolo mediatico di rilievo da cui si insegna che il denaro
non smette mai di crescere, come le unghie! Così si dà la
stura ad una specie di identificazione con l’aggressore, per
difendere una speranza di sicurezza in una società flessibile,
interinale. Intanto una notizia del giorno, al secolo 6 marzo
2008, a proposito delle cibarie: la persona più ricca d’Italia
non è più l’imprenditore delle televisioni generaliste ma
della cioccolata e delle praline! Fast food vs slow food,
grappe vs cultura, bollicine e trasporti marittimi vs festival
poetici tutto sembra un inno al danaro ed al profitto. Cosa
è la cultura se non una modalità del marketing territoriale?
Cosa è una trincea del Carso goriziano se non la copia mercantile
del campo di Waterloo su cui si poggiano duemilioni di piedi
all’anno? Se non conosci il brodo di fagiano - se sei del
giro devi sapere, e fare, che la sua carne lessa deve essere
buttata - sei uno che proprio non sa vivere. Però… però se
non conosci che oggi la paura è diventata modale cioè un comportamento
tipico di tutti, uno stimolo continuo all’insicurezza ed alla
instabilità di tutto e di tutti e che è per lo più per questa
ragione - oltre che per quanto asserito dall’istituito in
eterno istituente - che si cerca disperatamente di accumulare
qualche sicurezza anche con il pubblico danaro (ieri si straparlava
della politica come casta ed oggi si fa di tutto per essere
messe/i in lista) e, peggio ancora, che si sta fermi, attoniti,
basiti non arrivi nemmeno più a capire perché dell’accanimento
del lavoro per progetti. Altra forma di instabilità… guarda
caso dove la vulnerabilità è elevata, come nei servizi sanitari
e assistenziali che ormai rifuggono dal concetto di standard
anche se i libri dei loro saperi (scissi, come si diceva)
sono al proposito ridondanti.
Allora, nel primo dopo Cristo, come oggi, 2008 anni dopo,
il processo indicato dal modello dominante era/è di fare fortuna
perché il lusso sfrenato delle classi superiori della grande
Roma ed oggi del gran capitale offriva/offre numerose possibilità
od opportunità come si dice oggi a chi aveva/ha una qualche
arte amministrativa e un minimo di intraprendenza ad assecondare
gli interessi dominanti.
Oggi… l’epigramma è “Orgoglio di Pilota”.
Che schifo farsi fare a pezzettini/ per così dilaniar
donne e bambini,/ Io li massacro in modo pio e morale/ obbedendo
dal cielo a un generale.
(Luccio Riccardo)
Un tentativo dimettere in chiaro cosa è la violenza, quella
non nascosta, perché è quella soggettiva, quella che si può
vedere semplicemente per contrasto con un ambiente neutro,
come un mercato, una piazza, una città, un grattacelo, un
ponte, una scuola, un dancing…. E se è già difficile percepire
con chiarezza questa violenza, come possiamo vedere oggi quella
oggettiva, quella del linguaggio, dell’economia, del sistema
sociale, delle istituzioni? E’ così difficile percepire e
ragionare su ciò che si vede per televisione. Così non c’è
dubbio a vedere e percepire la violenza del terrorista che
si fa saltare nel mercato di una città. E’ un po’ più difficile
avere la stessa reazione se l’evento funesto nel mercato è
causato da una bomba o da un missile. Eppure il contrasto
c’è in entrambe le scene. Non parliamo poi della violenza
oggettiva, pressoché invisibile perché senza contrasti apparenti.
Combattiamo abbastanza facilmente - almeno a parole - la violenza
soggettiva che è più percepibile ma mettiamo in moto l’incremento
di quella sistemica con il lancio di nuovi politicamente corretti,
nuove allocuzioni razzistiche.
Troppi petit objets a... e dietro l’angolo dei passaggi all’atto
che non individuano mai dei nemici ma solo cieca rabbia e
panico. Così si lascia tutto come prima. Anche se andiamo
ai «dialoghi» chiamati da chi ha deciso di interrompere la
nostra passività non possiamo esimerci dal riflettere molto,
dallo studiare ancora, dal leggere e scrivere...
NOTE
1] Mi piace ricordare che
il gruppo soggetto è un’invenzione di Jean-Paul Sartre reinterpretata
da Félix Guattari. Indica un gruppo in cui l’istituzionalizzazione
è relativamente fluida e non gerarchica per non inchiodare
o raggelare la propria vita interna in riti e convenzioni.
In questo modo il gruppo-soggetto può disvelare ciò che accade
nella società sotto la cappa delle gerarchie e del conformismo
e comprendere per non dire captare le energie sottostanti,
anche inconsce, che danno forma o possono dare forma alla
soggettività globale. La soggettività non appartiene a nessun
gruppo designato, essa è imprevedibile e fragile ed al tempo
stesso è efficace come la vita stessa. L’interpretazione e
la forza di percezione sono funzioni importanti che esprime
il gruppo-soggetto e che derivano proprio dalla sua carenza
di forza istituzionalizzata. Come si può intuire si farà di
tutto per “formare” (fermare) questi gruppi!!! Ma avremo anche
formazione.
2] Come si può vedere e facilmente
intuire avere una specie di supervisore od un analizzatore
istituzionale non sarebbe male. Non male poi se fosse del
volontariato. Perché? Ma per evitare alcuni effetti come quelli
detti:
- Effetto Al Capone - i vari servizi di studio e ricerche
che parassitano i servizi pubblici che non si sentono adeguati
se non corrono da questi;
Effetto Basaglia - la società attuale tende a creare in continuazione
nuovi marginalizzati come vecchi, le donne sole, gli uomini
anzianotti disoccupati etc…;
Effetto Weber - la società non smetterai di complessificarsi
e così non c’è più un sapere globale attendibile ma un “non
sapere” che rende incomprensibile la società stessa e la sua
evoluzione;
Effetto M?lmann - quando un movimento prende piede e diventa
scopo dell’organizzazione come una nuova sorgente messianica
(sotto certi aspetti l’aziendalismo può rientrare in questa
accezione);
Effetto Lukcas - man mano che una conoscenza od una disciplina
si sviluppa e si formalizza cancella le condizioni originarie
che l’hanno accompagnata alla sua nascita e il suo sviluppo
si pone al di sopra delle contingenze (ideologizzazione);
Effetto Heisenberg - ogni produzione intellettuale si scosta,
si distacca dal suo inventore o produttore e si presenta come
oggettiva. (non è un caso che ho detto che l’analista dovrebbe
essere del mondo del volontariato!);
* Effetto Masoch - ogni persona o gruppo che nega la sua posizione
istituzionale rafforza la sua posizione. Così rende più impossibile
la contestazione al potere oppure trovarne le radici. Una
direzione che afferma, ad esempio (e quanto se ne sente!),
che non ha potere e così via è semplicemente un abile manipolatore.
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