Immagine & Società
Fabio La Rocca (a cura di)
M@gm@ vol.6 n.2 Maggio-Agosto 2008
IL LINGUAGGIO,
L’IMMAGINE ED IL FUTURO DELL’UMANO
(Traduzione Paolo Coluccia)
Rodolfo Eduardo Scachetti
srodolfo@uol.com.br
Ricercatore all’Università Estadual di Campinas, Brasile (UNICAMP); Dopo una laurea sui blocchi di percezione che caratterizzano le società contemporanee, attualmente ha in corso una ricerca di dottorato sulla relazione tra le tecnologie di superamento dell’umano ed i cambiamenti linguistici.
Alcune
questioni di base: il cambiamento post-umanista o trans-umanista
È sempre più forte la discussione su ciò che si può chiamare,
anche prima di una ricerca più vasta, l’(auto)superamento
dell’umano. È difficile oggi non prestare attenzione alla
valanga di produzioni che attraversano i vari settori, dall’arte
e gli studi umanistici alle scienze, sottolineando la probabile
condizione-limite dell’essere umano. Tuttavia, prima di porre
delle domande a queste produzioni, occorre ritrovare alcune
linee guida della storia della modernità, che sono molto importanti
per la discussione-chiave di questo articolo.
Il filosofo tedesco Peter Sloterdijk ci aiuta a ritrovare
una delle immagini centrali del progetto moderno: quella dell’umanesimo
dei lumi o dell’illuminismo. Ciò che caratterizza questo pensiero
umanista sarebbe la formazione di una società letteraria.
Questa società, delineata più fortemente dopo la rivoluzione
francese, è stata responsabile, secondo Sloterdijk, per i
contorni delle norme della società politica, della base della
formazione degli Stati nazionali borghesi: “Le nazioni borghesi
sarebbero così esse stesse, fino ad un certo grado, prodotti
letterari e postali – le storie di un’amicizia fatidica con
compatrioti lontani, e con lettori, legati dall’empatia, d’autori
comuni che suscitano tra loro un entusiasmo incondizionato”.
(P. Sloterdijk, 2000, p. 12). Oltre a questa relazione con
le lettere, la seconda immagine determinante di questo umanesimo
o di questo progetto moderno sarebbe una posizione sull’essere
umano legata all’eredità metafisica. Sulla scia di René Descartes,
l’uomo moderno era visto come un animale razionale, una proposizione
che, secondo Sloterdijk, “aggiunge regolarmente un fattore
spirituale o transcendente” a “una prospettiva zoologica o
biologica” (P. Sloterdijk, ivi p. 23).
Nel XX secolo, la critica alle filosofie metafisiche o transcendentali
ha preso corpo ed ha costituito una condizione importante
per il fallimento dell’eredità umanista tributaria di età
dei lumi e delle lettere. Un altro filosofo tedesco, Theodor
W. Adorno, non sempre è riuscito ad allontanarsi completamente
da una specie di “magia” declinata dall’uomo delle lettere,
anche se era dinanzi alle oscenità delle guerre che si depositavano
sul progetto moderno. Invece, Maurice Merleau-Ponty ha trasformato
la critica alla ragione transcendentale in leitmotiv delle
sue opere. Sloterdijk, a sua volta, attribuisce al filosofo
Martin Heidegger l’inaugurazione, negli anni 40, di uno “spazio
di pensiero trans-umanista o post-umanista nel quale da allora
è evoluta una parte considerevole della riflessione filosofica
sull’essere umano”. (P. Sloterdijk, ivi, p. 21).
Sloterdijk considera che Heidegger aveva scritto la sua opera
Über den Humanismus (Lettera sull’Umanesimo) cosciente degli
spostamenti che questo concetto ha sofferto. Così, Heidegger
prova a porre, secondo Sloterdijk, la vera questione sull’essenza
dell’uomo considerando il linguaggio, cioè, il collegamento
possibile tra l’uomo e la sua essenza, l’Essere: “Il linguaggio
è piuttosto (...) la casa dell’Essere, dove l’uomo, abitandovi,
e-siste, nella misura in cui, conservandola, appartiene alla
verità dell’Essere”. (M. Heidegger 1964, p. 24, citato in
P. Sloterdijk, ivi, p. 25). La filosofia di Heidegger propone
dunque un’ontologia esistenziale valida soltanto per l’umano,
il guardiano del linguaggio. Poiché sostiene che non c’è niente
in comune tra l’uomo e gli animali, Heidegger si oppone alla
tradizione cartesiana, ed ad un tempo aumenta la spaccatura
nel pensiero umanista, aperta dagli eventi storici e dalle
diverse speculazioni filosofiche.
Si esplora il linguaggio alla ricerca di piste sull’umano
Come Heidegger, altri filosofi hanno proposto nel XX secolo
una riflessione sul linguaggio. Spesso, il problema dell’origine
del linguaggio umano attirava l’attenzione degli specialisti,
come ci mostra l’opera panoramica “La metafora vivente” del
filosofo Paul Ricoeur. Quest’opera parte dalla visione classica
di Aristotele secondo la quale alla metafora è stato riservato
un posto decorativo nel discorso, cioè, Aristotele considerava
possibile la sostituzione delle metafore con termini letterali
senza alcuna mancanza di contenuto. Tuttavia, il XVIII ed
il XIX secolo ci presentano due filosofi che saranno responsabili
delle basi di un’ipotesi che si suole chiamare “ipotesi della
metaforicità originale del linguaggio umano”. Giambattista
Vico e Friedrich Nietzsche si opponevano alla visione classica
- ed occorre dire, del resto, che ancora si presenta oggi
in molti settori, come si è visto nell’affare Sokal alcuni
anni fa -, opposizione che altri autori del XX secolo approfondiranno.
Ivor A. Richards e Max Black sono esempi ai quali Ricoeur
presta molta attenzione. Negli ultimi anni questo campo continua
a essere sfruttato da ricercatori come il linguista George
Lakoff e lo scrittore José Gil, entrambi interessati alla
relazione tra il corpo, l’arte e il linguaggio.
L’attenzione a questa triade è già visibile nelle opere di
Vico e di Nietzsche. Come sottolinea Alfredo Bosi su ciò che
Vico chiama l’era eroica (o la conoscenza poetica dell’umanità,
un tipo di epoca nella quale il linguaggio era analogico e
molto poco legato ad una rete di convenzioni), “è stata, è
e sarà sempre interessata da relazioni strette con il naturale
ed il corporale” (A. Bosi, 2000, p. 234). Nietzsche, a sua
volta, ci dice, in un passaggio che è diventato famoso, che
“la ‘cosa in sé’ (sarebbe precisamente la verità pura senza
conseguenze), anche per colui che crea la lingua, è completamente
impercettibile e non vale gli sforzi che esigerebbe. Designa
soltanto le relazioni delle cose con gli uomini e si aiuta
per la loro espressione delle metafore più audaci. Trasporre
subito uno stimolo nervoso in un’immagine! Prima metafora.
L’immagine nuovamente trasformata in un suono articolato!
Seconda metafora (...) non è in ogni caso logicamente che
procede la nascita del linguaggio...” (Nietzsche 1969 p. 121).
Legate al corpo, per Vico; audaci e libere da ogni imitazione,
per Nietzsche. Le metafore e, al di là di esse, la comprensione
e l’accettazione dell’ipotesi della metaforicità originale
del linguaggio umano potrebbero, ad un primo sguardo, offrire
una genesi chiara al problema della formazione del linguaggio
umano. Questa base linguistica solida ci permetterebbe dunque
di proclamare la specificità e, di conseguenza, la supremazia
dell’uomo alla Great Chain of Beings (Grande Catena degli
Esseri). Nietzsche ci provoca e ci conduce su questo cammino
per sviluppare il tema della relazione tra linguaggio e verità:
“Tutto ciò che distingue l’uomo dall’animale dipende da questa
capacità di fare volatilizzare le metafore intuitive in uno
schema, dunque di sciogliere un’immagine in un concetto”.
(Nietzche, ivi, p. 124). Subito dopo Nietzsche sottolinea
nuovamente la direzione metafora-concetto come fondamento
dell’umano nello stesso tempo in cui discute l’inverso, cioè,
il movimento concetto-metafora: “Questo istinto che spinge
a formare delle metafore, questo istinto fondamentale dell’uomo
di cui non si può fare astrazione un solo momento, poiché
si farebbe allora astrazione dell’uomo stesso (...). (...)
con un piacere creatore, getta le metafore alla rinfusa e
muove i confini delle astrazioni (...)”. (ivi pp. 129-131).
Se decidiamo di collegare i due piccoli diagrammi, metafora-concetto
e concetto-metafora, potremmo comprendere la genesi e lo sviluppo
del linguaggio umano e potremmo garantire ciò che Vico considerava
inevitabile, cioè, un rinnovo costante del linguaggio metaforico
o analogico? Potremmo dunque garantire la singolarità dell’uomo
a partire da una base linguistica?
I concatenamenti e il linguaggio
Negli anni ‘80, tutta questa tradizione che andava contro
la visione di Aristotele e che pensava la metafora a partire
dalla questione dell’origine del linguaggio umano - compresa
dunque la discussione sulla natura umana - inizia ad essere
indagata dal filosofo Gilles Deleuze. Senza porre il difficile
problema dell’origine del linguaggio, ma la funzione-linguaggio,
Deleuze scrive: “Se il linguaggio sembra sempre supporre il
linguaggio, se non si può fissare un punto di partenza non
linguistico, è perché il linguaggio non si stabilisce tra
qualcosa di visto (o di sentito) e qualcosa di detto, ma va
sempre da una dire ad un dire” (G. Deleuze, 1980, p. 97).
Ci si rende conto che l’affermazione di Deleuze è contraria
a quella di Nietzsche sull’origine della parola, perché per
il primo non c’è un a priori immaginifico. Se tutto il linguaggio
ha in sé il linguaggio stesso, l’attenzione non deve essere
posta sulla metafora o su tropo, ma inevitabilmente sul discorso
indiretto come “primo” linguaggio. (G. Deleuze, ibidem). Dunque
l’enunciazione, l’unità fondamentale del linguaggio, è sempre
un discorso indiretto per Deleuze e, al di là di ciò, una
parola d’ordine, perché legata a concatenamenti sociali: “È
il concatenamento (...) che spiega tutte le voci presenti
in una voce, le lingue in una lingua, le parole d’ordine in
una parola” (ivi, p. 101). E come si può pensare la relazione
tra il corpo e il linguaggio in questo passo di Deleuze? Per
il filosofo, il corpo e il linguaggio, o, precisamente, “il
regime di corpo ed il regime di segni in un concatenamento”
si distinguono e “rinviano ancora al loro presupposto reciproco”
(ivi, p. 136). I segni sono espressioni, trasformazioni immateriali
che sono legate agli stessi corpi, ma senza rappresentarli,
anche se questi segni sono senza dubbio enunciati linguistici.
Si può ben scorgere la relazione tra il regime dei corpi ed
il regime di queste trasformazioni immateriali attraverso
l’esempio di Deleuze: “In un dirottamento aereo, la minaccia
del terrorista che brandisce un revolver è ovviamente un’azione;
(...) ma la trasformazione dei passeggeri in ostaggi, e del
corpo-aereo in corpo-prigione, è una trasformazione immateriale
istantanea, un atto mediatico nel senso in cui gli inglesi
parlano di speech-act” [1]
(ivi, p. 103).
Apparentemente, soltanto metamorfosi linguistiche separano
i “passeggeri” e gli “ostaggi”; ma per Deleuze, non ci sono
divisioni tra elementi linguistici e non linguistici, anche
se non presentano corrispondenza. Poiché la linguistica pura
non ha senso per il filosofo, sono i corpi stessi che soffrono
la trasformazione. Oltre all’esempio dell’aereo come corpo-prigione
e dei passeggeri come ostaggi, c’è la questione della continuazione
delle metamorfosi, compreso il contenuto, per fuorviare la
morte. Come dice Deleuze: “(...) i corpi, presi nel movimento
della metamorfosi del loro contenuto, o nell’esaurimento che
fa loro raggiungere o superare il limite delle loro figure”
(ivi, p. 123). Questa metamorfosi (pensata da Canetti nella
sua opera “Massa e Potenza”) è come l’equivalente alla lotta
contro le parole d’ordine nelle parole, sempre una piccola
sentenza di morte.
Auto-superamento dell’umano: come porre questa questione
senza dimenticare il linguaggio
Si è detto all’inizio di questo articolo che c’è oggi una
grande produzione sul superamento dell’umano; direttamente
o indirettamente, questa produzione si dirige alle proiezioni
di ciò che chiamiamo le tecnoscienze. Si crede che dinanzi
a queste riflessioni multiple occorra proporre un approfondimento
degli studi sulla metafora e sulla metamorfosi, determinando
come gli specialisti pensano l’associazione tra le diverse
trasformazioni (frutto dell’azione tecnologica) alle quali
l’uomo è sottoposto ed i probabili cambiamenti linguistici
dell’umano in formazione.
Il sociologo portoghese Hermínio Martins ci dice che la tecnologia
dell’informazione è oggi il principale campo per il conseguimento
di metafore. Si utilizzano queste metafore in tutti i settori,
compresi quelli più ordinari. Se si recupera il diagramma
metafora-concetto, occorre ancora seguire Martins quando dice
che questo procedimento metaforico informa la formazione delle
nostre categorie del pensiero (H. Martins, 2005, p. 66). Allo
stesso tempo in cui ci si accorge che Martins è ancora legato
al modello della metaforicità del linguaggio umano, si è anche
dinanzi ad una riflessione molto radicale sul linguaggio.
Il sociologo discute la possibilità della realizzazione di
un upload [2] di contenuto
mentale alle macchine/elaboratori. Cos’è che si può immaginare
di più? Forse la proliferazione delle metafore al di fuori
degli organismi fisiologici, cioè, la gestazione di metafore
senza corpo; forse la formazione di una “technocognition”
senza parallelo con il nostro stile cognitivo attuale e l’intelligenza
artificiale, ipotesi che attira di più l’attenzione di Martins.
Egli crede che lo scopo delle tecnoscienze sia precisamente
quello di superare completamente l’intelligenza umana. Questo
scenario potrebbe condurre all’automazione linguistica totale
del corpo - il corpo senza metafore - o, in una variazione
ancora più dura, alla sua obsolescenza totale. Nello stesso
tempo in cui occorre prendere in considerazione questa immagine
d’obsolescenza del corpo come una proiezione tecnoscientifica
molto violenta, Martins ci mostra come lo scenario attuale
manipola il corpo: “Collettivamente, sì, si può dire metaforicamente
che si vive in un’epoca ‘cyborgificata’ perché (...) attraverso
la modificazione alloplastica del mondo esterno, la moltiplicazione
delle interfacce sofisticate (...) le trasforma in un mondo
cyborgico, (...) con una proiezione ogni volta più importante
delle tecnologie genetiche, virtuali e neuroscientifiche sul
corpo e sulla struttura mentale, soma e germen-plasma, l’intelletto
e gli affetti, il senso e il pensiero, per la modificazione
‘autoplastica’ dell’uomo per sé stesso, non attraverso la
magia e ‘le tecniche del corpo’ [Mauss] classiche, ma attraverso
metamorfosi informate da sofisticate tecnologie” (Martins,
2003, p. 64).
Sembra che queste metamorfosi tecnologiche del corpo e del
senso, già in azione, siano l’esatto contrario delle metamorfosi
che Canetti e Deleuze consideravano come forme di lotta contro
le parole d’ordine. In questa prospettiva, l’umano potrebbe
orientarsi in modo irreversibile alla tecnologia, il virtuale
come parola d’ordine assoluta o, più precisamente, l’immagine
finale, perché i nuovi modelli cognitivi privilegiano l’immagine
rispetto alle parole. Ma: e se il collegamento tra la macchina
e l’umano ci dà nuove prospettive cognitive in futuro, senza
dominazione e, al contrario, con interfacce uomo-macchina
senza parallelo? Cos’è che si farà con le immagini? Come ci
si relazionerà con ed attraverso le immagini? L’immagine sarà
realmente il nuovo fondamento della nostra capacità cognitiva,
in una specie di ritorno ad un’epoca mitica, ma ora piena
di tecnologia per la circolazione delle immagini?
Le immagini finali
Certamente è assai difficile dare risposte a questa molteplicità
di domande dirette al futuro dell’umano. Dopo la nostra analisi
molto generale di alcune posizioni filosofiche sul linguaggio,
la sua origine, la sua importanza per la specificità dell’umano
ecc., si è arrivati realmente al tema del superamento tecnoscientifico
dell’umano. Si è visto che per Martins il desiderio della
tecnoscienza è quello di superare l’umano, la sua capacità
cognitiva, la sua intelligenza ed il suo corpo, incapace di
garantire l’eternità. Ma per superare l’umano, occorre dominare
il linguaggio, l’unica via d’accesso alla realtà una volta
che anche i sensi sono legati all’esperienza linguistica.
È in definitiva vero che oggi la nostra capacità linguistica
sta cambiando, perché nel mondo delle interfacce tecnologiche,
l’utilizzo massiccio delle immagini e la digitalizzazione
generale ci costringono tutto il tempo a fare parte del suo
modello cognitivo. Probabilmente si utilizzeranno sempre più
le immagini nelle nostre società del futuro, perché l’immagine
è certamente il segno distintivo delle nuove società tecnologiche,
più adeguate all’uomo post-umano che inizia ad essere realtà.
Un uomo diverso, forse debolmente costituito dal linguaggio
scritto e dalle parole, ma ancora nell’inquietudine dei poeti:
Tutta la parola
MOSÉ, V., Toda palavra, p. 17
(Estratto liberamente adattato proveniente dal poema “Toda
palavra” di Vivianne Mosé)
"cerco una parola per salvarmi
può essere una parola verbo",
una parola di vigilia, una parola casta.
Può essere una parola dura, senza carezza.
O parola muta,
(...) penso alla stanchezza che avevo,
con l’eccesso delle frasi brutali nei miei orecchi.
Oggi cerco una parola scritta,
non può essere cantata.
Ho bisogno di una parola lettera
(...)”
NOTE
1] Letteralmente: atto linguistico
(NdT).
2] Letteralmente: sovraccaricamento
(NdT).
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