I lemmi della malattia
Pietro Barbetta (a cura di)
M@gm@ vol.6 n.1 Gennaio-Aprile 2008
PERCHÉ I LEMMI DELLA MALATTIA
Pietro Barbetta
barbetta@mediacom.it
Direttore della Scuola di Counselling del Centro Isadora
Duncan (www.viamuratori.it); Professore di Psicologia Dinamica presso
l’Università di Bergamo; Didatta di Psicoterapia presso il Centro Milanese di
Terapia della Famiglia, Centro Siciliano di Terapia della Famiglia, European
Institute of Systemic Therapies (Milano), Curso Intensivo de Terapia Familiar
(Santiago di Compostella); Svolge attività di formazione, consulenza e
supervisione clinica in Italia e all’estero (Argentina, Brasile, USA, Inghilterra,
Francia, Spagna, Svizzera); È autore di numerosi saggi apparsi in lingua
italiana, inglese, spagnola e portoghese.
Introduzione
Nell’agosto 2007, quando mi fu proposto di curare un numero
della rivista Magma sulla malattia, pensai ai lemmi. A quell’epoca
scrissi una breve call for paper che riporto qui sotto.
L’idea di proporre un numero monografico sui lemmi della malattia
risponde a una diffusa esigenza di gettare uno sguardo antropologico
sulle pratiche cliniche. Bioetica, antropologia medica, counselling
sanitario, e altre pratiche e riflessioni intorno alla molteplicità
delle relazioni medico-paziente sono alla ribalta nel mondo
accademico. Purtroppo sovente queste riflessioni rimangono
generiche e astratte. Ci si chiede in che modo siano redatte
le carte dei servizi ospedalieri, più interessate a definire
i doveri, che non i diritti, del paziente, a che cosa servano
le commissioni bioetiche, oltre che a discettare in astratto
sulla liceità di avviare protocolli sperimentali di ricerca,
quanto le nuove tecnologie sempre più avanzate vengano applicate
nel rispetto della dignità, al di là delle discussioni ideologiche.
Presso il Centro Isadora Duncan, un gruppo di operatori ha
svolto una ricerca qualitativa relativa ai risvolti emotivi
e morali conseguenti alla comunicazione della diagnosi di
malattia neurologica congenita, finanziata dall’Unione Italiana
per la Lotta alla Distrofia Muscolare. La ricerca è avvenuta
dopo un’esperienza di counselling con un gruppo di famiglie
con pazienti affetti da queste patologie. Tale ricerca ha
già prodotto una prima pubblicazione di Gabriella Erba, La
malattia e i suoi nomi, Roma, Meltemi, 2007. Sono molte le
questioni importanti dal punto di vista del paziente e dei
suoi familiari. Per esempio emerge che la malattia è inaccettabile.
Si può viverla, ma non accettarla. Come la doppia cittadinanza
di cui parla Susan Sontag. Inoltre emerge che oggi le tecnologie
di analisi genetica permettono di fare una diagnosi prima
che si manifestino i sintomi, tuttavia molti pazienti e familiari
si domandano: “Se questa è una possibilità, come mai negli
ospedali viene, in qualche modo, imposta?”
La mia proposta è di raccogliere, in questo numero di magma,
contributi in merito a ricerche sul campo del medesimo tipo,
oppure a riflessioni che investano le pratiche sanitarie nel
concreto della conversazione con il paziente.
Ciò che sembra emergere dall’osservazione diretta e indiretta
del fenomeno è che la relazione clinica sta cambiando, ma
non in virtù di una maggiore sensibilità del personale sanitario,
che si tiene, o viene tenuto, ancora assai lontano dal bisogno
di una formazione al counselling (i corsi di specializzazione
tecnica sono sistematicamente privilegiati), bensì come effetto
di una tecnologizzazione del rapporto che sovente provoca
una distanza assoluta dei corpi. Il corpo del paziente inserito
in un impianto di tomografia assiale computerizzata e quello
del tecnico che analizza i contrasti a una distanza assoluta,
senza neppure la co-presenza dei due corpi nella medesima
stanza; la necessità ossessiva da parte delle istituzioni
sanitarie di rilevare segni di patologia senza la manifestazione
dei sintomi (per esempio la raccolta territoriale delle feci
di tutti gli ultracinquantenni per detectare il cancro prima
che si manifesti sintomaticamente).
Ogni progresso sanitario viene commisurato all’obiettivo di
farci vivere 400 anni, non di farci vivere una vita buona,
o almeno degna di essere vissuta. Perciò le cliniche universitarie,
dove la tecnologia è massimamente sviluppata, sono anche,
mediamente, quelle dove i pazienti vengono trattati di più
come oggetti di osservazione. In cambio, in nome della protezione
della privacy, si appone una sigla sulla cartella clinica,
senza rendersi conto che, quando entriamo in ospedale, ci
tolgono persino il nome. Certo! Ma lo fanno per proteggere
i dati sensibili. Quando ci avranno cucito sul pigiama una
lettera colorata con l’iniziale della nostra diagnosi avremo
completato il quadro bioetico.
Una provocazione forte, soprattutto nella seconda parte della
proposta. In effetti tale chiamata suscitò soltanto due brevi
commenti che, per completezza, riporto.
Primo commento:
L’accettabilità di una malattia non è, a mio avviso, un problema
individuale ma una responsabilità collettiva che la società
deve assumersi. Vivere con una malattia, qualunque essa sia,
visibile o invisibile, deve essere una forma di vita possibile.
Purtroppo ancora oggi, la malattia è considerata un’anomalia.
E’ il quadro concettuale della nostra idea di ciò che è il
sé che deve essere rivisto.
Come inglobare la malattia nelle nostre vite? Come allargare
i confini del nostro concetto di persona?
La mia è una riflessione personale che nasce da un’esperienza
familiare. Scoprire che chi ami dovrà fare i conti per il
resto della sua vita con una malattia come la sclerosi multipla,
benché nella sua forma meno invalidante, significa scoprire
che la parola sclerosi fa più paura della stessa malattia.
E’ questa la paura che molti malati di SM devono vincere.
Anche la persona che conosco adesso sta con l’aiuto di una
psicologa percorrendo la lunga strada dell’accettabilità.
Si può davvero solo viverla? O si può anche accettarla?
Secondo commento:
La distanza dal corpo del paziente è segnale di una percezione
dello stesso come portatore di una malattia, e non come persona.
E’ la classica e modernissima spersonalizzazione, il ridurre
l’umano a mero numero, massa insignificante da analizzare.
Non solo il piano della comunicazione, ma il piano stesso
della cura, della riabilitazione per certe materie (quello
di cui mi occupo per esempio, la malattia mentale) potrebbe
trovare nuove frontiere, inserendo il concetto di persona,
di universi simbolici nei quali interagire, dei quali occuparsi.
I due commentatori, entrambi coinvolti – l’uno personalmente,
l’altro professionalmente, con il fenomeno della medicina,
sembrano sottolineare che questo fenomeno non è, in primo
luogo, un fenomeno interpersonale, bensì un fenomeno sociale.
Che la relazione interpersonale - medico-paziente, paziente-familiari,
infermiere-paziente, infermiere-medico, ecc. – ogni relazione
interpersonale, avviene in un contesto.
Durante la preparazione di questo volume, ho partecipato come
osservatore ai lavori di un convegno molto interessante sulla
relazione medico-paziente e ho ascoltato un illustre accademico
di medicina sostenere che i medici devono imparare a comunicare
con i pazienti e che, a questo scopo, la sua università ha
ingaggiato un noto attore per insegnare agli studenti le tecniche
dell’Actor Studio di New York, in modo da poter comunicare
meglio la diagnosi.
Un infermiere seduto in fondo all’aula, non nascondendo una
certa insofferenza, si alza e fa presente all’illustre accademico
che il problema non è il rapporto medico-paziente, che quel
rapporto non avviene nel vuoto, ma dentro le corsie d’ospedale,
dove, per esempio, gli infermieri vengono quotidianamente
trattati con esecutori privi di una professionalità propria,
dove le équipe di lavoro, più che équipe di lavoro, sembrano
piccole strutture di potere gerarchizzate. Forse l’infermiere
non ha detto tutte queste cose, forse molte delle cose gliele
ho fatte dire io adesso, ma sono convinto che questo, quello
dell’infermiere, sia il modo giusto di affrontare le questioni
di bioetica. La prima bioetica passa per il rispetto della
dignità, della professionalità e della competenza degli operatori,
passa per la valorizzazione delle loro buone intenzioni, anche
se può capitare di commettere errori. Il resto, la buona impostazione
posturale e vocale del medico che comunica la diagnosi, è
narcisismo.
Non che esperienze teatrali siano inutili, tutt’altro, io
stesso in questo testo ho scritto un breve saggio sul corpo
nel teatro, in collaborazione con l’attrice e counsellor teatrale
Agnese Bocchi, inoltre, in questo numero, abbiamo ospitato
un contributo di Elena Uber, ginecologa, terapeuta e attrice
che si occupa dei disturbi alimentari attraverso l’intervento
teatrale. Ma il teatro della sanità non è certo quello testuale
e professionale dell’Actor Studio, semmai quello del Living
Theatre. Insomma, come direbbe Gilles Deleuze, “c’est beaucoup
plus compliqué”.
E’ paradossale che questa consapevolezza sistemica del quadro
complessivo del discorso medico in epoca contemporanea sia
sempre più presente tra la popolazione, tra gli operatori
di base, tra coloro che si occupano di scienze umane e sociali
e sia invece così poco recepita o recepita in maniera così
distorta tra la classe medica dominante, quella, in altri
termini, che sta in cattedra. Salvo alcune eccezioni. Questo
ha come effetto sistemico la sottovalutazione, da parte degli
studenti di medicina, di corsi sulla comunicazione in medicina,
da parte dei medici di base, del counselling medico, da parte
degli ospedali, dell’importanza degli interventi di mediazione
culturale, di counselling e la difficoltà di farsi strada
da parte dei dipartimenti di psicologia.
Recentemente mi sono stati raccontati un’infinità di episodi
di questo tipo: un gruppo di medici, infermieri o terapisti
della riabilitazione del medesimo servizio partecipa a una
formazione sulla comunicazione, sulla relazione col paziente,
sui rapporti con la famiglia del paziente, sugli aspetti bioetici
connessi alla comunicazione della diagnosi e alla gestione
della malattia, sul senso culturale della diagnosi e le questioni
etnico-culturali connesse all’insorgenza dei sintomi. Non
importa quale di questi argomenti. In molti casi questo tipo
di lavoro, che generalmente consiste in un insieme di considerazioni
teoriche legate a uno o più approcci al problema e alla discussione
della gestione di casi clinici specifici, necessita un intervento
permanente e ha una buona efficacia sulle condotte e le competenze
relazionali degli operatori che se ne avvalgono.
E’ raro tuttavia che un primario se ne accorga e dia a questo
lavoro un valore adeguato, sembrano molto più interessanti,
per costoro, le commediole televisive americane, più o meno
ben fatte. Si illudono di essere come il Doctor House, o di
essere nel regno di ER, e non vedono invece che i loro reparti
somigliano molto, ma molto di più alle puntate di The Kingdom
di Lars von Trier.
Alcuni studiosi di questo fenomeno hanno osservato che in
circostanze dolorose e difficili da sopportare si mettono
in atto meccanismi di difesa. Questo riguarda sia i pazienti,
che i loro famigliari, sia gli operatori sanitari. In questo
caso, la decisione di insegnare ai medici le tecniche dell’Actor
Studio mi pare un’intellettualizzazione, la trasformazione
di un problema - di un conflitto, un dolore, che inevitabilmente
riguarda anche il medico, l’infermiere, l’operatore sanitario
che ha il compito di occuparsene – in un insieme di tecniche
teatrali universalistiche e fuori contesto. Detta in maniera
più schietta: un imbroglio, sebbene inconsapevole.
La questione della malattia è costitutivamente ambigua. Richiede
memoria e oblio, narrazione e frammentazione, mente e corpo,
scienza e arte. Ecco perché in questo numero abbiamo accolto
contributi sulla memoria e sulla narrazione (Bert, Erba),
contributi sulla frammentazione e sul teatro (il mio con Bocchi,
Uber), contributi sulla crisi (Benini) e altri sulla speranza
(Bellini), studi di taglio etnografico (Gattola e Taratufolo)
e altri che enfatizzano la dimensione emotiva (Parnisari).
Il numero tematico si apre con il contributo di Giorgio Bert.
Un autore che, in questo ambito, ci lavora da sempre. Un pioniere
e un fondatore, direi un maestro della relazione in ambito
medico e sanitario e del counselling medico. Bert aveva condiviso
con Maccacaro l’esperienza di innovare la medicina in Italia,
in un’epoca in cui i poteri accademici e sanitari erano forti
e potevano farti pagare caro il discorso critico da loro iniziato.
Bert è uno dei fondatori, insieme a Slivana Quadrino, del
counselling e in particolare del counselling sistemico, che
ha preso piede in Italia a partire dall’Istituto Change di
Torino. Ricordiamo il suo Il medico immaginario e il malato
per forza, del 1977, comparso per la collana “Medicina e potere”
diretta da Giulio Maccacaro e, trent’anni dopo, il suo Medicina
narrativa. Storie e parole nella relazione di cura. Un percorso
storico di coerenza e di evoluzione, dove però, fin dal principio,
la dimensione immaginativa, presente nella narrazione, viene
costantemente messa in evidenza e considerata essenziale.
Il lemma intorno al quale Bert sviluppa il suo esercizio di
scrittura è quello della memoria e delle concatenazioni con
il percorso narrativo. C’è una malattia, ma ce ne sono due,
quella della medicina e quella dei vissuti del paziente e
delle persone che gli sono vicine.
Segue il testo di Gabriella Erba, autrice di un libro, La
malattia e i suoi nomi, che trae spunto da una ricerca che
abbiamo svolto presso il Centro Isadora Duncan, per conto
dell’Unione Italiana per la Lotta alla Distrofia Muscolare
(UILDM), intorno ai vissuti dei pazienti e dei loro familiari
in relazione alla comunicazione della diagnosi. Il lemma che
sviluppa l’autrice è narrazione. Perciò il suo contributo
si collega in maniera stringente al saggio di Bert. Erba ci
parla della polifonia e della tessitura polifonica di ogni
narrativa, ci indica i contrappunti di questa texture, e analizza,
riprendendo alcune considerazioni di Gianfranco Cecchin, le
meraviglie e i rischi di una storia paradossale, quella dei
sistemi bloccati, impegnati a ripetere, in maniera coatta,
sempre la medesima narrazione.
Il testo di Roberta Parnisari affronta il tema della commozione,
richiamandosi a due grandi autori: Camus e Dostoevski. Si
tratta di un turbamento provocato da molti elementi: la tenerezza,
la pietà, il dolore e il piacere, ma anche da un senso di
rivolta (chi non ricorda L’homme revolté di Camus?). Il suo
contributo fa riferimento soprattutto alle condizioni relative
ai servizi di psichiatria, ma può essere definitivamente allargato
alla condizione dell’esistenza umana.
Paolo Benini sviluppa il lemma crisi, connettendolo al tema,
a lui caro, della resilienza. Anche Benini, come Erba, ha
fatto parte del gruppo di ricerca che, presso il Centro Isadora
Duncan, ha lavorato intorno alla comunicazione della diagnosi
in relazione alle malattie neuromuscolari progressive. Questa
esperienza, insieme ad altre esperienze differenti, gli hanno
permesso di svolgere un’attività di counselling psicologico,
egli è psicologo e counsellor, intorno alle condizioni di
crisi, quando cioè si assiste a un fallimento e insorge la
necessità, in condizioni quasi impossibili, di trovare nuove
speranze e di aprire nuove strade.
Gattola e Taratufolo sviluppano, in chiave etnografica, il
lemma della sintomatologia, lemma eminentemente culturale.
Ciò li porta a confrontarsi con la pluralità lemmatica che
caratterizza sia lo sviluppo della nomenclatura medica occidentale,
che il suo utilizzo in culture in cui il discorso sul corpo
si è sviluppato in modo differente. Forse per questa ragione
le ricerche antropologiche che ci indicano una polifonia,
una variazione, sono importanti per chi deve decostruire il
discorso medico intorno alla crisi.
Maria Elena Bellini psicoterapeuta, ha una notevole esperienza
di lavoro in un Hospice, ci racconta della storia della nascita
di questi istituti e della loro importanza nel lavoro intorno
alla malattia terminale, lo fa a partire da una situazione
specifica, ma sviluppa il lemma hospice, o meglio, alle sue
origini, hospis, così come il lemma, a questo collegato di
cure palliative. Trovo i suoi riferimenti storico-sociali
in relazione al cambiamento della visione della morte (Aries),
e alla nascita della clinica (Foucault) decisamente significativi
per lo sviluppo di una riflessione su questo tema.
I due contributi in chiusura rivolgono uno sguardo al teatro,
tuttavia in direzione decisamente diversa dall’idea di insegnare
al medico le tecniche di Stanislavski.
Elena Uber è un medico, specializzato in ginecologia, che
da tempo svolge attività di teatro e lavora in un servizio
per le dipendenze occupandosi di dipendenze alimentari. Ha
fatto anche un training di psicoterapia e ha sviluppato l’esperienza
della messa in scena teatrale come strumento per la cura di
sé. Mi è capitato, durante un convegno, di osservare un video
relativo a questa esperienza e, devo dire, mi ha emozionato
profondamente. Per lei è di decisiva importanza l’argomento
del gender. Il suo lemma scena mi appare illuminante per cogliere
il senso sistemico della relazione terapeutica.
Il contributo che ho scritto in collaborazione con Agnese
Bocchi si intitola eterotopie e si sviluppa nella direzione
di un pensiero sul corpo che, a partire dalle esperienze teatrali
di autori come Artaud e Kantor, e dalle considerazioni filosofiche
e letterarie di Bataille e Deleuze, pensa a un corpo non medicalizzato,
pensa a un discorso altro sul corpo, un discorso in cui le
funzioni degli organi vengono decostruite per ritrovare i
frammenti di una degenerazione produttiva.
Nel complesso, questo insieme di contributi non esaurisce
affatto lo sforzo di un lavoro sul discorso in medicina che,
oltre ai medici e ai tecnici ospedalieri, coinvolga anche
i filosofi, gli attori e i registi, gli scrittori e gli artisti.
Come non pensare che i contributi più rilevanti in questa
direzione - a parte gli autori menzionati in questi saggi,
come Bateson, Deleuze, Foucault, Camus, Artaud, Lynch, Kundera
e Dostoevski – si trovano nelle opere di Francis Bacon, nella
danza di Isadora Duncan e Pina Bausch, nel cinema di Buñuel,
e, per ritornare alle origini, nella follia di Don Quijote
o nell’ingordigia di Gragantua e Pantagruele?
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