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  • I lemmi della malattia
    Pietro Barbetta (a cura di)

    M@gm@ vol.6 n.1 Gennaio-Aprile 2008

    LA CURA DELL’INCURABILITÀ: L'ESPERIENZA DELL'HOSPICE


    Maria Elena Bellini

    mariaelenabellini@tiscali.it
    Psicologa e psicoterapeuta sistemico relazionale, consulente psicologa presso l’Hospice - “Casa di Cura San Giuseppe” di Gorlago (BG).

    “è nei suoi atteggiamenti
    e nelle sue credenze di fronte alla morte
    che l’uomo esprime ciò che la vita ha di più fondamentale”

    (Edgar Morin, L’uomo e la morte)

    Tra i diversi lemmi che il termine “malattia” porta con sé, quello di malattia incurabile è forse tra quelli che suscita più emozioni e più significati di rabbia, dolore, paura. Parlare di incurabilità, significa infatti parlare di quella difficile fase della storia del paziente in cui la medicina “dichiara la sua sconfitta” e si arrende di fronte all’avanzare della malattia stessa. Quella fase in cui nulla sembra più possibile fare.
    In hospice, massima espressione della moderna medicina delle cure palliative, viene riscoperto il significato originario del termine Cura, quello della sollecitudine, rendendo possibile “curare” ciò che è stato dichiarato non più tale. La logica e la neutralità affettiva del curare (nel senso di to cure), cedono il posto all’empatia e alla com-passione del prendersi cura (to care).
    La malattia che nella storia del paziente è stata fino a quel momento l’hostes, il nemico da sconfiggere, diviene così l’hospis, l’ospite da accogliere nel difficile percorso incontro alla morte.

    Breve storia degli hospice (le origini)

    Etimologicamente collegato al latino hospes-hospitis, -ospite-, il termine inglese Hospice, si legge in una sua definizione, è un riconosciuto neologismo a livello internazionale e per questo intraducibile, indicante una struttura sanitaria residenziale per malati terminali, soprattutto affetti da patologie neoplastiche.
    Gli hospice, in particolare, trovano le loro radici negli hospitium, i luoghi dove anticamente venivano accolti forestieri ed amici e che, in età medievale, divennero i centri dell’ospitalità cristiana. Gestiti per la maggior parte dai monaci, offrivano inizialmente vitto ed alloggio temporaneo a pellegrini e viandanti, ma divennero presto ricovero per ammalati privi di risorse e d'assistenza, spesso abbandonati dalla società.
    Attualmente, luogo d'accoglienza e ricovero temporaneo, in hospice il paziente viene accompagnato nelle ultime fasi della sua vita con un appropriato sostegno medico, psicologico e spirituale affinché le viva con dignità nel modo meno traumatico e doloroso possibile.
    Proposto come una sorta di prolungamento e integrazione della propria dimora, include il sostegno psicologico e sociale delle persone che sono particolarmente legate al paziente (partner, familiari, amici), per cui si può parlare dell'Hospice come di un approccio sanitario inclusivo (globale, olistico) che cerca di andare oltre all'aspetto puramente medico della cura, intesa non come finalizzata alla guarigione fisica (spesso non più possibile) ma letteralmente al "prendersi cura" della persona nel suo insieme (Marzano 2004).
    Due iniziative, secondo Marzi e Morlini (Marzi e Morlini, 2005), hanno fornito un contributo fondamentale verso la nascita del concetto moderno di hospice. La prima, una ricerca britannica del “Marie Curie Memorial Foundation” agli inizi degli anni sessanta, dalla quale emergeva la necessità di istituire strutture idonee alla cura e al ricovero di malati terminali, soprattutto anziani spesso abbandonati a se stessi nelle ultime fasi della malattia; la seconda, la figura straordinaria di Cecile Saunders, infermiera e medico inglese che inaugurò a Sydenham, un sobborgo di Londra, nel 1967 quello che può essere considerato il primo hospice: il Saint’s Christhoper Hospice.
    Una struttura “più simile ad una casa che ad un ospedale”, scrive la Saunders stessa, che aveva lo scopo di recuperare gi aspetti umanitari dell’assistenza al morente ma che contemporaneamente voleva porre un’attenzione scientifica al sollievo dei sintomi fisici, emotivi e spirituali del paziente.
    Di fronte all’aumentare delle diagnosi oncologiche agli inizi degli anni cinquanta, la medicina ordinaria, vivendo sempre di più la morte come un fallimento, se da un lato applicava tecniche e tecnologie complesse per giungere alla "guarigione", dall’altro tardava nell’utilizzo delle terapie antalgiche e, in particolare, dell’uso della morfina (Du Boulay, 2004). Di fronte alla necessità di alleviare le sofferenze umane, la Saunders intuisce questa carenza dell’assistenza ospedaliera e recupera il concetto di cura della persona, associandolo agli aspetti più moderni della medicina, soprattutto nell'ambito della terapia del dolore e della medicina palliativa. Riscopre e sostiene l’importanza di avvicinarsi al dolore in modo competente per permettere alla persona, nonostante la diagnosi di terminalità, di vivere serenamente gli ultimi giorni di vita, scoprendo magari un inaspettato prolungamento della vita stessa:
    "Badare ai minimi particolari per offrire una piacevole sensazione di serenità... e fare in modo che il paziente e la sua famiglia si sentano a proprio agio, come a casa propria…", ricorda nel discorso di inaugurazione del Saint’s Christhoper, favorendo la relazione e contrastando il senso di abbandono e solitudine che spesso la terminalità porta con sè.
    La morte torna così ad essere riconosciuta, “addomesticata”, per usare un termine di Ariès. E con essa vengono riconosciuti tutti quei passaggi e quelle scelte che caratterizzano le ultime fasi della vita. Come i rituali e le pratiche che i cavalieri medievali mettevano in pratica quando, riconosciutone i segni, seppur nel dolore andavano incontro alla morte. (Ariès, 1998)

    Gli hospice divengono così da subito l’espressione di un movimento sociale che ha come obiettivo quello di ridare dignità alle ultime fasi della vita e, soprattutto, alla morte stessa.
    Un profondo messaggio di rottura, di discontinuità, in una società, quella contemporanea dove, come sostiene Morin l’idea della morte è un’idea vuota; senza contenuto, poiché l’orrore che genera è l’orrore del vuoto, del non essere. Tanto da rendere il suo contenuto impossibile da pensare e rendere traumatica la coscienza della morte stessa. Come spiega Bauman (1992), a prevalere è l’impulso di trasformare la lotta contro la morte in una incessante serie di battaglie contro le potenziali minacce alla vita. La morte scompare infatti dal vocabolario della medicina, il cui linguaggio si trasforma nel linguaggio della malattia, sempre conoscibile, manipolabile, potenzialmente curabile. “la morte ha perso il suo significato esistenziale e metafisico per essere trattato come tutti gli altri elementi della vita strumentalizzata: come oggetto di pratica, di uno sforzo informato, mirato e dedicato. Come evento specifico, con una causa specifica ed evitabile: un evento che entra nel regno del significativo, solo attraverso il compito di stimolarlo o evitarlo, di farlo accadere o di impedire che accada”. La morte è stata, in altre parole, decostruita e trasformata in oggetti ed eventi riconoscibili, affinché, nella lotta alle sue possibili cause, potesse essere dimenticata e rimossa dalle nostre paure. Poiché lo stesso linguaggio medico, razionale e funzionale alla sopravvivenza è sia un modo per non farsi coinvolgere nel linguaggio della morte, sia un modo per alimentare e conservare la pratica ospedaliera stessa. L’ospedale diventa così l’ultimo avamposto dove continuare la lotta contro l’angoscia esistenziale del pensiero della morte attraverso le preoccupazioni per le malattie, concrete e visibili (Marzano, 2004). Attraverso il suo stesso agire, la pratica medica “allontana in un certo senso il pensiero da quello della morte ” facendo promesse, sostiene sempre Bauman, che non sempre è in grado di mantenere. Il corpo diventa così un oggetto da modificare. La persona diventa paziente, la ricerca una lotta incessante per trascendere qualcosa che non può essere trasceso (Marzi e Morlini, 2004).
    “Le metafore chiave delle descrizioni del cancro sono infatti attinte dal linguaggio bellico”, scrive Susan Sontag nel suo celebre saggio sulle metafore e i nomi delle malattie (Sontag, 1992, pag 68), “ogni medico e ogni malato sanno che le cellule cancerogene invadono il corpo, colonizzano, attaccano uno ad uno gli organi del corpo. “Ed anche le cure”, continua la Sontag, “hanno un che di militaresco”, le radiazioni bombardano, i farmaci eliminano le cellule cancerogene.
    La malattia è l’hostes che deve essere combattuto.
    Un linguaggio questo lontano, estraneo, per coloro la cui malattia non risponde più ai trattamenti specifici volti alla guarigione o al rallentamento della malattia stessa.
    Cecile Saunders e con lei tutto il movimento da lei generato, avevano colto la necessità di offrire al malato terminale, un’assistenza diversa da quella della medicina tecnologicamente avanzata e rappresentata dal modello di cura ospedaliero: la necessità di alleviare il dolore fisico in modo efficace e continuativo, ma anche di soddisfare le esigenze più emotive o spirituali della persona. Alleviare, in altre parole, “dal dolore globale”.
    La morte, da nemico (hostes) diventa ospite (hospis).
    Un passaggio questo che, seppur ad un livello di significati diverso, quello dell’incontro fra i popoli, Danièlou ha definito come uno dei “passi avanti più decisivi” della civiltà. Un azzardato parallelo nella riflessione sulla “presa in carico” del malato.

    L’hospice è il luogo quindi dove viene data Cura a coloro che la medicina tradizionale ha giudicato incurabili. Si differenzia così dall’ospedale e si pone come un luogo dove la Cura acquista un significato diverso: non più la lotta contro la malattia e verso la guarigione, ma il ritorno al suo significato originario, quello di cui Seneca scriveva all’amico Lucilio: quello della sollecitudine. Così come Faust (Goethe, 1927, tr. It. 2003) che, accecato da Cura, ne riscopre il suo volto originario, la sollecitudine, così la medicina, impotente di fronte all’avanzare della malattia, riscopre come fondamentale lo stare con il paziente, per migliorare la qualità della vita dei giorni rimasti.
    Un’idea di salute e un’etica della cura diverse: non più la salute intesa come assenza di malattia, ma la possibilità di vivere al meglio, nonostante la gravità della diagnosi. Non più la cura intesa solo come approccio medico competente verso la guarigione, ma il farsi carico del paziente all’insegna dell’empatia e della compassione.
    La riscoperta, come sostiene Heidegger, del concetto di cura come concetto strutturante e fondante dell’esistenza umana nelle sue due forme fondamentali: dell’avere cura e del prendersi cura delle cose e dei simili (Heidegger, 1927, tr. It. 2005).
    Aspetti questi che nella moderna medicina delle cure palliative trovano la loro massima espressione.

    Origine delle cure palliative

    Il Pallium, il mantello corto, era l’abito usato dai sudditi dell’impero Romano, diverso dall’aristocratica toga, segno di distinzione per coloro che appartenevano alla classe dominante. Pallium e toga, racconta Tertulliano nel De pallio, divennero nei primi anni dopo Cristo, il simbolo dell’appartenenza a due culture contrapposte. Da un lato il mondo ellenistico, pagano di coloro che indossavano la toga. Dall’altro la nascente cultura cristiana diffusasi fra i ceti popolari.
    Il pallium era divenuto così il simbolo di coloro che credevano nella charitas, l’amore per gli uomini e per il prossimo in quanto figli di Dio, distinti da coloro che credevano invece nella pietas, il sentimento della compassione inteso come sentimento esclusivamente umano, laico.
    Quando al medico ippocratico era proibito interferire con il destino ed era suo dovere “fermarsi” di fronte alla morte assecondando la sorte, il pallium, il mantello corto è stato per molti malati il simbolo di assistenza e accudimento, nonostante la gravità delle condizioni ed ha rappresentato nel tempo ciò che, oggi, definiremmo assistenza, cura, empatia, solidarietà. Se per un certo tempo il termine palliativo è finito per assumere il significato di “inutile”, “inefficace” è stato ora recuperato nel suo senso originale per connotare tutti quegli atteggiamenti, quelle forme di cura che hanno lo scopo di accompagnare il malato nell’ultimo tratto della sua vita.

    A partire dall’esperienza del Saint’s Christhoper e sulla spinta del pensiero che da esso ha tratto origine, nasce la moderna medicina delle cure palliative che introduce un nuovo modo di pensare la cura del malato terminale.
    In particolare, l’OMS definisce le cure palliative “la cura totale prestata alla persona affetta da una malattia non più responsiva alle terapie aventi come scopo la guarigione. Il controllo del dolore, degli altri sintomi e delle problematiche psicologiche, sociali e spirituali è di prevalente importanza”. Alla ricerca della miglior qualità di vita possibile (OMS, 1990).
    Ne sono principali finalità per il paziente e i suoi familiari: la continuità di cura in tutte le fasi della malattia; un supporto specialistico e un’intensità della cura modulata sui bisogni del singolo paziente; il rispetto delle scelte del paziente e della sua famiglia. La peculiarità delle cure palliative è quindi quella di porsi in una posizione di “ascolto” per poter adattarsi giorno per giorno alle esigenze del paziente e dei suoi familiari. Ogni cura e trattamento richiedono perciò di essere continuamente riesaminate attraverso l’utilizzo dei mezzi più moderni e delle terapie più avanzate.
    Considerare la morte un evento naturale, affermando così il valore della vita senza il tentativo né di allungarla, né di abbreviarla.
    Introdurre una gestione competente del dolore e degli altri sintomi, alleviare il paziente dalla sofferenza fisica e permettergli di vivere “fino alla fine”, nel modo più attivo e autonomo possibile; accompagnare e sostenere sia emotivamente e psicologicamente che spiritualmente il paziente e i suoi familiari per poter convivere con la diagnosi e arrivare ad accettarla come parte delle propria storia.
    Sono questi gli obiettivi che, a partire dai principi fondamentali racchiusi nella definizione di cure palliative, guidano quotidianamente il lavoro in hospice.

    Dal to cure al to care: il racconto di un’esperienza

    “Accoglienza”, “condivisione”, “serenità che viene costruita insieme”, “tranquillità”, "accompagnamento”, “empatia”. Sono le prime parole che le emozioni suggeriscono agli operatori della “Casa San Giuseppe”, interrogati sui significati che il termine hospice “apre” in loro.
    “Non riesco a pensare a qualcosa di doloroso, di drammatico”, spiega B., un’infermiera da quasi dieci anni a fianco di chi “sta per morire”. “Prevale la sensazione di familiarità, di accoglienza, che giorno per giorno costruiamo insieme ai nostri pazienti e ai loro familiari”. “Ricordo più le sensazioni piacevoli che riusciamo a scoprire seppur nella drammaticità della situazione”. “Sì”, continua M. un medico della struttura, “in fondo, prevale la sensazione di conforto che cerchiamo di trasmettere…”. “Penso all’enorme desiderio di poter dare loro, ai nostri ospiti, tutto quello che desiderano….”, continua A, sua collega.
    La Casa San Giuseppe è un’hospice territoriale inaugurato nel 1999 in un paese della provincia bergamasca. Accoglie i suoi pazienti (la maggior parte con diagnosi oncologica e la cui prospettiva di vita è inferiore ai due mesi), in stanze singole, ciascuna dotata di cucina, angolo conversazione e divani letto che possano ospitare i familiari. Il paziente stesso, se lo desidera, può personalizzare la camera con oggetti portati da casa. L’equipe curante è composta da tre medici, quattro infermiere, sei operatori socio-assistenziali, una psicologa ed un’assistente sociale. Quando è possibile e necessario, anche un fisioterapista è chiamato nella presa in carico degli ospiti. Un sacerdote ed una suora offrono quotidianamente la possibilità di un supporto spirituale. La pratica medica diventa, così, una delle tante attività di attenzione al malato e il tentativo è quello, spiega la Carta dei Servizi, di fornire “una risposta terapeutica integrata alla molteplicità dei bisogni della sfera fisica, psicologico-emozionale, sociale e spirituale del paziente e della sua famiglia”.

    Il tentativo è quello, in altre parole, di rinnovare la pratica medica in termini umanistici nel rispetto di tutti i principi fondamentali della persona dal punto di vista fisico, psichico e spirituale, cercando di “curare” nel lavoro quotidiano chi è stato dichiarato non più tale.
    “Così come possiamo essere persone ntere soltanto guardando in faccia questo aspetto tanto crudele della realtà, l’ineluttabilità della morte, alla stessa stregua possiamo imparare a vivere con pienezza soltanto se viviamo alla luce di questa consapevolezza”, sostiene Searles nel suo saggio sulla schizofrenia (Searles, 1974).
    La consapevolezza della morte deve abitare in hospice.
    Si chiede a coloro che vi operano, medici inclusi, di considerare l’aspetto relazionale, empatico, come parte fondamentale del loro agire. Si chiede a color che vi operano di compiere un percorso inverso rispetto a quello che, secondo Foucault, ha caratterizzato la nascita della clinica e ha portato la persona, il Leib, a trasformarsi in Körper (Barbetta ed Erba, 2005; Erba, 2007), ad astrarre la diagnosi dalla persona, ad assimilare il corpo ad un oggetto da riparare.
    In hospice l’intento è di non negare al malato la dignità di persona e viene chiesto a coloro che vi operano di ribaltare le categorie aristoteliche della medicina tradizionale che considera la malattia l’essenza e la persona l’accidente per ritornare, come direbbe Levinàs a “scorgere” il viso di coloro che la malattia la stanno vivendo. Se per tutto il tempo trascorso dalla diagnosi l’attenzione è stata data alla parte malata, si chiede agli operatori di porre nuovamente l’attenzione alla persona. Di riportare lo sguardo dal corpo medico creato ex novo dalla malattia, alla persona. (Good, 1999).
    In hospice, l’hybris della scienza medica, la cui attenzione è spesso sugli organi potenzialmente guaribili, deve cedere il posto a quella comprensione che possa aiutare il paziente nella ricerca di senso nell’esperienza della malattia e, di conseguenza, di questa ultima fase della vita stessa. Una continua ri-definizione del proprio ruolo di medico, di infermiera, di operatore e dei valori che sono alla base del proprio operare.
    Afferma Galimberti: “il medico ci ha descritti come organismo, ma noi sentiamo che il nostro corpo non coincide con l’organismo, perché questo non sa nulla del mondo che ci attrae e ci delude, non conosce la qualità delle nostre passioni, non abita quei volumi di senso in cui il nostro corpo si esprime vivendo più di un mondo che lo impegna che di un organismo che lo sostiene” (Galimberti, 1992).
    Deve abitare in hospice la consapevolezza che le emozioni e i pensieri possono essere più dolorosi della malattia stessa e viene chiesto agli operatori di interrogarsi su quei volumi di senso che la malattia ha per il paziente per cercare di comprendere quali azioni e quali decisioni compiere nella presa in carico sua e dei suoi familiari.

    Prendersi cura acquista così un significato diverso nella storia della malattia del paziente; un profondo elemento di discontinuità rispetto a quella che è stato fino a quel momento la presa in carico. Un’ottica centrata sulla persona (paziented centred). Non più sulla malattia (disease centred). Dalla logica, dalla scientificità e dalla neutralità affettiva del curare (nel senso di to cure), all’empatia e alla com-passione del prendersi cura (to care) (Tousijin, 2000; Chambliss, 1996).
    Ascolto, sollecitudine, premura diventano così requisiti fondamentali per chi opera in hospice e presuppongono, prima di tutto, la capacità di stare con il malato terminale.
    Riconoscere l’esperienza dell’altro e della differenza del sentire anche in situazioni analoghe; i bisogni individuali affondano le loro radici nel storia individuale di ciascuno nella ricerca di un senso dell’esperienza che si sta vivendo (sensemaking). Ascoltare le storie, per creare uno spazio affinché “l’indicibile possa venire detto”. Scrive in proposito Elisabeth Kübler Ross medico inglese e voce fra le più autorevoli nell’ambito della terminalità a dedicò parte della sua storia professionale e della sua vita: “molti malati…. Aspettano il giro dei medici, forse una radioterapia, l’infermiera che porta le medicine, e i giorni e le notti sembrano monotoni e senza scopo. Poi in questa pesante monotonia viene a scuoterli un visitatore, che vuol sapere di loro come esseri umani, che si interessa delle loro reazioni, delle loro forze, delle loro speranze e frustrazioni. Qualcuno prende veramente una sedia e si siede. Qualcuno ascolta davvero e non scappa via in fretta. Qualcuno parla… con un linguaggio chiaro e semplice delle cose che sono veramente in cima ai loro pensieri,… viene qualcuno a romper la monotonia, la solitudine, l’attesa senza scopo come un’agonia. Un altro aspetto, forse più importante, è la sensazione che le loro comunicazioni possano essere importanti, possano avere un significato per altre persone….” (Kübler Ross, 1994)
    Chiedere al paziente “di potersi avvicinare”, perché, attraverso l’ascolto se ne possano cogliere i bisogni a cui cercare di dare una risposta.
    Il discorso umano deve prevalere su quello medico per far sì che il paziente e il sistema familiare che con lui è stato catapultato nel territorio della malattia (Erba, 2007) e con lui ne deve sopportare il peso (burden of care), possa sentirsi accolto nei propri vissuti e nelle proprie narrazioni della malattia. Spesso di rabbia, di rassegnazione, di arresa di fronte alla morte (Kübler Ross, 1994)

    L’ entrare nei significati altrui e il porre uno sguardo molto più ampio che abbracci e cerchi di capire il senso che la malattia ha per il paziente e i suoi familiari con le premesse e i pregiudizi che l’accompagnano. Accettandone talvolta la scelta di “arrendersi alla morte”.
    Sviluppare una cultura della complessità, abbandonare i propri pregiudizi e le proprie premesse trasformando il paziente da oggetto terapeutico a Soggetto decisionale: il medico (e con lui gli operatori) non è più colui che sa di fronte a colui, il paziente, che ignora (Foucault, 1998), ma diviene parte integrante della storia in una relazione non più lineare ma circolare. Ad incontrarsi sono due diversi saperi (expertise, direbbero Balint ed Engel): quella del medico (e degli operatori), esperto del disease, della tecnica e delle terapia e quello del paziente, esperto dell’illness, dei vissuti e della sofferenza sul cui linguaggio nasce un territorio comune.
    Al centro deve essere posta la cosiddetta “agenda del paziente”, ovvero “ciò che il paziente porta con sé e con la sua malattia” (Moja e Vegni, 2000): i suoi sentimenti, le sue idee e le sue interpretazioni, le aspettative e i desideri, il contesto sociale familiare e lavorativo da cui proviene.
    Ne deriva così, in un processo di valorizzazione reciproca, l’incontro fra saperi diversi verso la co-costruzione fra operatori, paziente e familiari di un percorso di accompagnamento che cerchi di rispondere al meglio ai bisogni e ai desideri del paziente stesso. Un percorso a cui appartengono il dubbio e l’incertezza, ma che vedono nel paziente l’attore principale.
    Nei mesi precedenti la morte, quindi, il tentativo è quello di “far sentire vivi”, di convincere i pazienti che hanno ancora valore come esseri umani e che soprattutto, non sono lasciati soli nell’affrontare questa sofferenza, fisica ed emotiva, spesso al limite della tollerabilità.
    Accogliendo la loro malattia e le sue narrazioni, le loro ansie e le loro paure. Accogliendo le loro storie ed i loro vissuti ma, soprattutto, accogliendo loro stessi. Alla ricerca di un senso non solo nell’esperienza della malattia ma, a volte, di alcuni passaggi della loro stessa vita. “Incontravo Luigi nella sua stanza, tre o quattro volte la settimana. Negli ultimi mesi, le metastasi avevano “invaso” ogni angolo del suo corpo, fino a indebolirlo completamente.
    I nostri dialoghi si sono costruiti pian piano attorno ad una passione comune, quella per la fotografia. Mi ha parlato per ore di lenti, inquadrature, soggetti… felice di trasmettere il suo sapere costruito negli anni. “deve sempre cercare, dottoressa, quei particolari che ai più sembrano insignificanti: sono quelle le foto più belle!”. Luigi, attraverso la fotografia e le immagini, attraverso le descrizioni dei lunghi appostamenti nei prati in attesa di un insetto da filmare, mi parlava della sua storia, della sua vita. Mi parlava di sé. Accogliere i racconti della sua più grande passione, era accogliere Luigi. Sono poi arrivati i giorni dell’aggravamento e con loro la consapevolezza della morte imminente. Una sera, ricevo una telefonata dei colleghi: Luigi sta molto male, ma mi vuole parlare. Lo raggiungo. “Dottoressa, c’è una cosa che non sono mai riuscito a dirle…” e mi racconta di un incidente stradale durante il quale, mentre era al volante di un’autoambulanza, ha investito una persona. “Ho ucciso un uomo”, sono le sue parole. Gli ho stretto la mano: “è stato un incidente. Ne sono sicura…”. Un lungo silenzio. “Grazie.”, mi dice, “Non so fino a quando sarò ancora lucido: ora che lo sono, voglio ringraziarla e ringraziarvi per tutto quello che avete fatto per me. Per come mi avete accolto qui con voi…”.
    Qualche ora dopo, Luigi non c’era più.”


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