I lemmi della malattia
Pietro Barbetta (a cura di)
M@gm@ vol.6 n.1 Gennaio-Aprile 2008
CRISI: TRA SOGGETTIVITÀ E RESILIENZA
Paolo Benini
pbenini@alice.it
Psicologo, Counsellor clinico; Docente a contratto di psicologia sociale presso l’Università degli Studi Ca’ Foscari di Venezia; Didatta nel corso di counselling del Centro Isadora Duncan; Già ricercatore presso l’Università degli Studi di Bergamo e Membro del forum di ricerca "Le matrici culturali della diagnosi" attivo presso il dipartimento di Scienze della Formazione e della Comunicazione della stessa Università; Lavora da diversi anni in campo interculturale.
“la
diagnosi è un oggetto, la crisi è una soggettività”
(Basaglia F. 1979)
Introduzione
In questo saggio vorrei analizzare l’esperienza soggettiva
della crisi generata da particolari stati di malattia. L’interesse
per l’argomento nasce dall’attività svolta presso il Centro
Isadora Duncan di Bergamo, in specifico dalla partecipazione
ad un progetto di counselling realizzato per rispondere ad
una richiesta di alcune famiglie di persone con malattie neuromuscolari
e ad una successiva ricerca sul vissuto della comunicazione
della diagnosi con altre famiglie nella stessa condizione.
Parlare di crisi con riferimento alle malattie neuromuscolari
mette in primo piano l’esperienza della “presenza al mondo”
delle persone interessate, togliendo dalla ribalta l’oggetto
malattia definito dalla diagnosi: l’attenzione si sposta dalla
malattia alle persone. Il concetto di crisi compare in diversi
linguaggi esperti e quotidiani. E’ un concetto che condensa
più significati, anche in relazione ai contesti in cui è utilizzato
e al soggetto cui si riferisce. Riguardo a collettività, società,
stati, realtà internazionali, si parla di crisi economica,
crisi politica, crisi diplomatica, crisi umanitaria, crisi
ambientale, crisi energetica, crisi sanitaria, solo per citare
alcuni dei significati, generalmente convergenti su un’idea
di squilibrio intenso che tende a provocare notevoli cambiamenti.
Nel linguaggio quotidiano l’utilizzo del termine si riferisce
ad un periodo, più o meno lungo, di vita in cui l’avvento
di fatti particolari crea una situazione suscettibile di sviluppi
incerti, una rottura della continuità che si accompagna ad
un’esigenza di superamento e/o gestione. “Essere in crisi”
significa attraversare un “momento difficile”, significa ritrovarsi
in una situazione in cui è urgente fare scelte che cambino
il corso degli eventi. Non a caso la radice etimologica greca
della parola è krino (scegliere, scernere, separare, distinguere,
decidere). Con riferimento a quest’area semantica si crea
spesso l’idea della “positività” della crisi, ma va chiarito
che non è la crisi in sé ad avere un potenziale evolutivo,
bensì la sua possibile elaborazione. Senza questo distinguo
si corre il rischio di attribuire a priori un significato
positivo a fatti dolorosi, come possono essere la perdita
di una persona, una grave malattia, la rottura di una relazione,
uno stato di angoscia generato da una condizione esistenziale
insoddisfacente: le potenzialità evolutive della crisi risiedono
nella necessità di trasformazione che essa impone, non nella
crisi stessa.
Il concetto di crisi in medicina ha un duplice significato.
Da una parte fa riferimento ad una situazione decisiva per
quanto riguarda la malattia,
“un termine di origine greca presente nella medicina ippocratica
per indicare un punto decisivo di cambiamento che si presenta
durante una malattia di cui solitamente risolve il decorso
in senso favorevole o sfavorevole” (Galimberti 1992);
dall’altra all’insorgenza repentina di un fenomeno acuto e
generalmente di corta durata (es. crisi cardiaca, crisi anafilattica,
crisi glicemica).
In psicologia il significato non si discosta sostanzialmente
da quello formulato da Jaspers (1913-1959), che connota la
crisi come cambiamento repentino a tutto campo che trasforma
la persona, con la possibilità sia di nuove soluzioni, sia
di decadimento.
“In ambito psicologico si riferisce ad un momento della
vita caratterizzato dalla rottura dell'equilibrio precedentemente
acquisito e dalla neces¬sità di trasformare gli schemi consueti
di comporta¬mento che si rivelano non più adeguati a far fronte
alla situazione presente. K. Jaspers definisce la crisi come
un punto di passaggio dove tutto subisce un cambiamento subitaneo
dal quale l'individuo esce trasformato, sia dando origine
ad una nuova risolu¬zione, sia andando verso la decadenza.
La storia della vita non segue il corso uniforme del tempo,
struttura il proprio tempo qualitativamente, spinge lo sviluppo
delle esperienze a quell'estremo che rende inevitabile la
decisione” (Galimberti 1992).
In ambito clinico, il significato di crisi si arricchisce
di altre due accezioni. Si parla di “crisi evolutive” con
riferimento ai passaggi cruciali della crescita, come può
essere la trasformazione a tutto campo indotta dallo sviluppo
puberale (vedi Fabbrini e Melucci, 1992) e di “crisi accidentali”,
cioè un’intensa perturbazione nella vita di una persona;
“come una grave malattia, la perdita di una persona cara
o un cambiamento repentino nel lavoro” (Galimberti 1992).
Sia in campo medico, sia in campo psicologico il significato
di crisi fa quindi riferimento, in generale, a situazioni
che producono effetti più o meno gravi e dolorosi, che presuppongono
un’evoluzione dall’esito incerto. Ciò che m’interessa non
è oggettivizzare il concetto di crisi ma, a partire dai significati
sintetizzati, analizzare l’esperienza soggettiva della stessa.
Quali sono i vissuti, le risposte, le utilità delle persona
che vivono la crisi data da una malattia neuromuscolare? Una
condizione che contiene certamente il potenziale “perturbante”
espresso nelle precedenti definizioni ma che, per la sua caratteristica
di progressività, rende permanente e non transitoria l’esperienza
di crisi, connotando le possibili risposte ad essa più in
termini di “attraversamento” che di “soluzione”.
Prima di passare alla fase di analisi, vorrei fare una sintetica
presentazione delle attività da cui ho tratto questo lavoro.
Uno sguardo sulla crisi attraverso il counselling
A settembre 2003, il Centro Isadora Duncan di Bergamo dà avvio
ad un progetto di counselling per famiglie con uno o più membri
colpiti da malattie neuromuscolari, su commissione della sezione
di Bergamo della UILDM (Unione Italiana, Lotta alla Distrofia
Muscolare). L’équipe del Centro interessata al progetto (quattro
counsellor, due supervisori scientifici, una persona responsabile
delle relazioni esterne e dell’organizzazione) ha cominciato
a seguire una decina di famiglie. Il progetto si è inizialmente
basato su una rilevazione fatta dalla UILDM, tramite un questionario
proposto a 111 famiglie, allo scopo di raccogliere informazioni
sulle aspettative e i bisogni più sentiti.
Considerando che il quadro clinico delle malattie neuromuscolari
richiede una serie di trattamenti costanti, la UILDM, negli
anni, ha dato rilevanza all’aspetto sanitario, giungendo ad
un obiettivo estremamente significativo per la vita delle
persone interessate: consentire loro di usufruire dei necessari
servizi sanitari in un ambiente non ospedalizzato. Il contatto
diretto e costante con le persone malate e i familiari ha
reso però sempre più evidente l’urgenza di fare qualche cosa
anche sul piano psicologico. Questa sensibilità ha condotto
la UILDM a porsi l’interrogativo di cosa si potesse implementare,
oltre ad un servizio già consolidato di assistenza sanitaria.
Un primo passo in questa direzione fu appunto il questionario.
A partire da questa rilevazione, la UILDM pensò al progetto
da affidare al Centro Isadora Duncan. In passato erano state
provate esperienze di mutuo aiuto, ma non avevano funzionato,
evidenziando soprattutto la difficoltà a gestire la differenza
dei vissuti in rapporto alle diverse fasi della malattia.
I bisogni, gli interessi, le disponibilità dei familiari di
un bambino in fase iniziale della malattia erano assai diversi
da quelli dei familiari di un ragazzo adolescente, magari
già nelle condizioni di non poter deambulare autonomamente
e quindi costretto a far uso di carrozzina. Differenze di
questo tipo e difficoltà a trattare in gruppo tematiche “forti”
poste da alcuni famigliari, portarono ad accantonare l’idea
dei gruppi di mutuo aiuto. Un altro tentativo fu informare
le famiglie della possibilità di prendere appuntamento con
una figura psicoterapeutica, anche in questo caso i risultati
non furono incoraggianti, poiché l’opportunità offerta non
si tramutò in un’effettiva fruizione del servizio.
Considerando i tentativi precedenti, svolgemmo inizialmente,
una fase di studio sulle modalità di aggancio delle famiglie
e una ricognizione sul punto di vista degli operatori coinvolti,
a proposito dell’intervento e delle metodologie di realizzazione
auspicati. Si trattava di fare un’analisi, da una parte, dei
bisogni e della domanda espressa attraverso il questionario,
dall’altra delle idee relative a quale fosse il servizio appropriato
da offrire e le collaborazione da attuare. Un elemento fondamentale
di analisi fu considerare che le famiglie, attraverso il questionario,
avevano esplicitato una domanda. Nelle risposte, gli interessati
non parlavano di generiche difficoltà psicologiche, ma esprimevano
direttamente la domanda di un supporto psicologico. Non si
trattava quindi di analizzare un bisogno percepito, ma una
richiesta specifica.
Riguardo alla fase di aggancio, facendo leva su un rapporto
di fiducia consolidato, fu la UILDM a proporre alle famiglie
l’opportunità. Gli operatori della UILDM individuarono le
famiglie cui proporre il percorso (tra queste quelle che avevano
esplicitato la richiesta rispondendo al questionario), spiegarono
loro il significato della proposta, chiedendo il consenso
al contatto da parte del Centro. Ottenuto il consenso, la
responsabile delle relazioni esterne aprì il contatto. Furono
necessari diversi colloqui telefonici prima di arrivare ad
un primo appuntamento. Nelle telefonate era disponibile ad
ascoltare dubbi, perplessità, richieste, rassicurando gli
interlocutori riguardo al fatto che tutto ciò che si sarebbe
potuto attuare avrebbe rispettato le loro intenzioni. Tutto
veniva lasciato aperto: la possibilità di provare ed eventualmente
di rinunciare subito, la decisione su quali membri della famiglia
coinvolgere, i tempi d’inizio, la sede degli incontri [1].
Ogni famiglia venne lasciata libera di decidere liberamente
in che modo usufruire della possibilità. Questo lavoro risultò
determinate per l’avvio e la buona riuscita complessiva del
progetto, visto che le famiglie potevano iniziare il percorso
sulla base di un rapporto di fiducia con una persona che non
avrebbe partecipato agli incontri successivi. Questo probabilmente
risultò una forma ulteriore di tutela, una possibilità di
rivolgersi, per qualsiasi motivo, ad una persona informata
sul progetto, ma estranea al contesto di consulenza.
Ad ogni famiglia furono abbinati due counsellor, che avrebbero
condotto insieme gli incontri. Gli abbinamenti furono decisi
in modo che ognuno dei quattro membri dell’équipe potesse
lavorare, almeno su un caso, con tutti gli altri, al fine
di creare maggiori possibilità di scambio nella fase di valutazione
e sviluppo del progetto. La presenza di almeno due operatori
con una famiglia fu decisa anche per rendere possibile la
gestione degli incontri secondo metodologie riflessive, riconducibili
al modello del “reflecting team” ideato da Tom Andersen (1998),
uno psichiatra norvegese che ha sviluppato un interessante
metodo di conduzione di incontri di terapia famigliare, che
mira a far convergere il linguaggio professionale verso il
linguaggio quotidiano, cioè verso un linguaggio che contenga
parole e concetti che tutti possano utilizzare e comprendere.
Mediamente, il tempo tra un incontro e l’altro è stato di
un mese, allo scopo di dare alle famiglie maggiori possibilità
di rileggere e rielaborare in autonomia quanto emergeva durante
le conversazioni.
Nella definizione dei singoli percorsi si è tenuto conto della
prioritaria esigenza di dare voce in capitolo agli interessati
riguardo a ciò che era preferibile fare, secondo principi
di un’etica di tipo negoziale (Engelhardt 1999). L’aggancio
e i primi incontri sono stati utilizzati a questo scopo: per
ascoltare le aspettative delle famiglie e per decidere insieme
l’impostazione e gli intenti del percorso. Fu subito chiaro
che ogni famiglia tematizzava bisogni differenti, che ruotavano
attorno alla condizione di malattia, ma che individuavano
la necessità di sostegno per membri famigliari diversi (persona
malata, coppia di genitori, singolo genitore, fratelli/sorelle).
Su questa base presero avvio i differenti percorsi, alcuni
dei quali si sono conclusi dopo circa un anno e mezzo e altri
continuano tuttora.
Uno sguardo sulla crisi attraverso la ricerca qualitativa
Nel 2005, la UILDM incarica il Centro Isadora Duncan di condurre
una ricerca sul vissuto della comunicazione della diagnosi.
La ricerca si connotava come la parte qualitativa di un disegno
di ricerca più ampio, denominato “La comunicazione come prima
cura”, gestito direttamente dalla UILDM. L’obiettivo era analizzare
i vissuti a proposito della comunicazione della diagnosi di
malattia neuromuscolare. Si trattava di indagare l’importanza
dei fattori psicosociali della diagnosi e la rilevanza, sul
piano etico, dell’impatto che essa può avere sul vissuto delle
persone che ricevono la diagnosi. Dal punto di vista della
ricerca qualitativa, l’analisi dei vissuti ha senso in relazione
alla possibilità di svelare i significati che le persone attribuiscono
alla scoperta dello stato di malattia; l’attenzione non è
sull’aspetto organico della malattia, ma sulla dimensione
personale e culturale degli accadimenti connessi ad essa.
Un’analisi che equivale ad una “traduzione di senso” (Melucci,
1998), la cui finalità è suscitare interesse per ulteriori
approfondimenti di ricerca e per l’implementazione di modelli
più efficaci per quanto riguarda la comunicazione diagnostica,
la presa in carico e la cura della persona malata e dei suoi
famigliari.
Il gruppo incaricato di condurre la ricerca comprendeva: i
counsellor che avevano partecipato al progetto di supporto
alle famiglie e che, per questo motivo, potevano contare su
una “precomprensione” della tematica di ricerca, altri professionisti
dell’area psicologica del Centro e alcuni tirocinanti di un
corso di perfezionamento post-universitario organizzato dall’Università
di Pergamo [2]. Come soggetti
della ricerca furono individuati i membri di alcune famiglie
(diverse da quelle seguite in consulenza), scelti dalla stessa
UILDM, sulla base della disponibilità a collaborare.
Il lavoro di analisi si è basato su tre interviste approfondite.
Le persone intervistate sono state: una coppia di genitori
con due figli adulti a cui la malattia è stata diagnosticata
durante la prima infanzia, una donna e un uomo che ricordano
il momento della diagnosi poiché avvenuto in età adulta [3].
Sono tre racconti differenti. I genitori che vivono la malattia
dei figli, la donna che con l’avvento della malattia vede
la sua vita come ripartire da zero e l’uomo che, ricevendo
la diagnosi, trova semplicemente un nome ad una condizione
con cui aveva già lungamente familiarizzato.
Già in fase di studio, Il tema d’interesse è apparso molto
complesso, con rilevanza da diverse prospettive. Il fuoco
d’interesse era su chi aveva ricevuto la diagnosi, ma era
facile riconoscere la significatività anche dei vissuti dei
medici che devono affrontare il momento della consegna della
diagnosi, come pure riconoscere che la comunicazione della
diagnosi comporta una dimensione etica, che ha a che fare,
sia con l’idea di ciò che è “desiderabile” (etico), sia con
un sistema di codici deontologici che definiscono la “micropolitica”
del suo attuarsi. Era inoltre chiaro che andava considerata
una dimensione più ampia, riferita alla genealogia storico-culturale
delle pratiche di significazione e cura del “corpo malato”
e riferita alla dinamica tra costruzioni culturali collettive
e processi individuali di significazione. Un primo importante
risultato di quest’attenzione complessa è l’approfondita riflessione
sul tema della malattia e della diagnosi proposta da Gabriella
Erba (2007). Lei e Maria Teresa Heredia, con competenza e
passione, hanno condiviso con me entrambi i progetti.
Crisi e resilienza
I percorsi di counselling e la ricerca sono state esperienze
professionali e umane molto interessanti, che stimolano alcune
riflessioni a proposito della crisi creata dalla malattia
e del modo in cui le persone possono costruire pratiche di
resilienza anche appoggiandosi a percorsi di supporto. In
ambito psicologico, il termine resilienza denota il processo
di ricostruzione positiva della vita, nonostante esperienze
critiche o traumatiche, che potenzialmente possono condurre
a esiti negativi (Cyrulnik B. 2005, Ferraris A. O., 2003).
Corrisponde alla capacità umana di resistere e reagire positivamente
e in modo dinamico a situazioni difficili che mettono a repentaglio
l’equilibrio, il benessere e la salute psico-fisica [4].
Il termine resilienza è utilizzato anche in fisica e denomina
la proprietà di un materiale di rispondere ad un forza senza
raggiungere il punto di rottura delle sue qualità statiche
e dinamiche; in altre parole misura la capacità di un corpo
di uscire integro dall’azione di una forza.
Gli stati di malattia progressiva hanno una notevole ripercussione
sulla vita delle persone, portano con sé cambiamenti significativi
nel quotidiano e nel vissuto, pongono urgenze forti, in una
situazione di attesa senza il desiderio dell’accesso a ciò
che si attende. Utilizzando un concetto introdotto da Marcel
Mauss in ambito antropologico, lo stato di malattia progressiva
appare un “fatto sociale totale”, un fatto cioè che riguarda
pressoché tutti gli aspetti del vivere. Un fatto che riguarda
tutte le dimensioni di vita della persona malata, ma che tocca
significativamente anche l’ambiente circostante. I cambiamenti
richiedono scelte, distingui separazioni e attraversare questo
è l’esperienza della crisi. I significativi cambiamenti voluti
o imposti dalla malattia, che partono dalla comunicazione
della diagnosi e continuano per tutto l’arco della vita, costruiscono
una dimensione di crisi soggettiva che, considerata nella
rete di relazioni famigliari, acquista una dimensione ecologica
e, nel caso di una malattia progressiva, una dimensione permanente.
L’attraversamento della malattia equivale ad una crisi nel
senso di una condizione che richiede innumerevoli scelte innescate
da una traumatica “non scelta”. Pur essendo un avvenimento
frequente nella vita delle persone, la malattia giunge come
fatto traumatico perché scardina la dimensione del controllo,
delle aspettative, della responsabilità e della prevedibilità.
Imbrigliati in questa “non scelta” si aprono i margini della
necessità e della facoltà di decidere. Una crisi ineludibile
vista la sua radice, il cui passaggio è imposto. Connotare
come positivo l’attraversamento di una malattia temo sia ingenuo
e forse considera poco la portata della sofferenza, altra
cosa è pensare che facendo i conti con una situazione difficile
le persone hanno a che fare con gli snodi significativi della
vita: l’accettazione del limite biologico, il senso delle
relazioni, l’abbandono del senso di onnipotenza, l’idea di
futuro, le identità possibili. Non è però un problem solving
quello con cui fanno i conti le persone e le famiglie che
vivono stati di malattia progressiva, sembra più una continua
necessità di scegliere e una continua esperienza di quanto
sia difficile farlo. La trasformazione imposta da uno stato
di malattia progressiva sono innumerevoli e comportano uno
stato di crisi a più dimensioni.
Vivere la malattia è “crisi emotiva”, vale a dire la necessità
di investire energie emozionali sulla situazione. Preoccupazione,
attesa, voglia di reagire, tristezza, senso d’impotenza, rabbia
sono emozioni che accompagnano la scoperta e l’attraversamento
della malattia. Il fatto che buona parte delle energie si
convogliano sulla situazione, comporta un parallelo disinvestimento
da altre esperienze fatte o immaginate. “Perché proprio a
me!” Così penso si possano tradurre una serie d’interrogativi
che le persone interessate si pongono, domande che riguardano
il senso di “giustizia” che, con l’avvento della malattia,
appare chiaramente nella sua natura: una costruzione sociale,
estranea al caso e alla biologia.
Vivere la malattia è “crisi dell’immaginario”. L’idea di “futuro”
è molto significativa nel vissuto delle persone interessate
ed è al centro di questa crisi, nel senso che l’immaginario
di ciò che si attende subisce un ribaltamento riguardo alla
linea del tempo previsto e all’estensione dello spazio possibile
di esperienza. Non è agevole immaginarsi un futuro facendo
i conti con una malattia neuromuscolare. E’ ovvio che, riguardo
a questo aspetto, la differenza individuale ha un peso decisivo,
resta per tutti la necessità di discernere, tra le possibili,
le immaginazioni che sono utili per reagire e convivere con
la malattia.
Vivere una malattia neuromuscolare non solo induce trasformazioni
nell’idea di futuro possibile, ma introduce un elemento che
ha un valore ambivalente: la previsione della malattia, cioè
l’attesa di eventi previsti. Dai test genetici alla descrizione
nota del decorso, le persone interessate sono portate ad immaginare
un cambiamento del loro stato di salute prima ancora che il
corpo avverta i sintomi della malattia o delle sue evoluzioni.
Attendere un cambiamento dello stato di salute è un vissuto
carico emotivamente poiché non c’è immaginazione di possibilità
aperte ma attesa di eventi conosciuti e poco desiderabili.
La previsione senza sintomi ha indubbiamente un valore informativo
che consente di pensare in anticipo a tutte le azioni necessarie
ma, nello stesso tempo, costringe le persone in un discorso
“normalizzato” sulla loro vita, che manda in dissolvenza l’idea
di itinerario originale; questo ha sicuramente un forte impatto
sul piano psicologico, famigliare e sociale. Va infine sottolineata
la rilevanza etica della previsione, soprattutto in fase di
diagnosi basata su test genetici.
Altro aspetto dell’immaginario che vorrei sottolineare riguarda
il corpo. A scapito di una secolare tradizione, da Cartesio
in poi, che costruisce l’idea di corpo come oggetto posseduto,
bisogna riconoscere che noi “non abbiamo un corpo”, ma “siamo
un corpo”. Per tutto il percorso di vita il corpo è al centro
del campo di esperienza. Nell’immaginario culturale della
“crescita” c’è un corpo da scoprire nell’infanzia, un corpo
che matura nell’adolescenza, un corpo che continua ad integrarsi
e infine decade. Le malattie neuromuscolari costruiscono percorsi
diversi e immaginari diversi, che sono spesso imbrigliati
da un discorso centrato sul “deficit” che caratterizza la
nostra cultura e i Servizi.
Vivere la malattia è “crisi sociale”, cioè un restringimento
degli spazi di relazione e di autonomia, che richiede un continuo
cambiamento di ritmi e attività. Una serie continua di decisioni
necessarie per compensare i limiti dell’ambiente (vedi ostacoli
sociali e barriere architettoniche) e per coordinarsi con
il progredire della malattia. Operare alcune scelte non è
facile, come per esempio decidere l’utilizzo della carrozzina,
che permette un migliore spostamento ma veicola, come tutti
gli ausili che sopperiscono significativamente ad una mancanza,
vissuti relativi all’identità e all’immagine sociale.
Vivere la malattia è “crisi delle relazioni” famigliari e
sociali. La malattia è un elemento di peso nell’economia delle
relazioni famigliari; ci possono essere forze centripete che
tendono a collocarla al centro della rete di relazioni e forze
centrifughe che creano processi di allontanamento da essa.
La situazione dei fratelli, di cui uno malato, è particolare;
la crisi in questo caso corrisponde alla difficoltà di coniugare
la voglia di relazione e la voglia di esperienze, di trovare
modi per vivere la relazione fraterna e, nello stesso tempo,
differenziare i percorsi.
Riguardo alla crisi delle relazioni allargate, voglio far
riferimento al racconto dei genitori intervistati nella ricerca.
Una loro sentita recriminazione è che i giovani compagni della
scuola media dei figli non hanno continuato la relazione con
quest’ultimi, privandosi della possibilità di fare scoperte
utili al loro percorso di crescita. In altre parole ai genitori
dispiace che i compagni si siano negati la possibilità di
scoprire la resilienza dei loro figli, le loro consapevolezze,
l’ironia che hanno sempre giocato per sorreggersi a vicenda,
il coraggio di non avere paura e la riconoscenza verso le
persone che si sono dedicate a loro. Nello stesso tempo, i
genitori avrebbero desiderato per i loro figli l’opportunità
di beneficiare della socializzazione con i pari, per costruire
resilienze ancora più forti. La crisi delle relazioni allargate
chiama in causa l’ambiente sociale: è “crisi di sistema”,
che ha un riflesso particolarmente forte nella vita delle
persone obbligate alla “cittadinanza onerosa” (Sontag S.,
1991) imposta dalla malattia.
Resilienza e counselling
Nel progetto di counselling e di ricerca, gli operatori del
Centro hanno avuto modo di scoprire e sperimentare percorsi
di supporto alla costruzione della capacità di riorganizzare
positivamente la vita a partire e nonostante la malattia.
Una capacità di resilienza che non riguarda solo il singolo,
ma anche le famiglie, le comunità e, non ultimo, i counsellor
stessi. Nei colloqui e nelle interviste emerge chiaramente
l’utilità di poter raccontare la propria “storia”. Una narrazione
che può riguardare tutto il percorso, oppure un frammento,
un vissuto specifico, magari difficile da mettere a fuoco
e da legittimarsi. La possibilità di raccontarsi costituisce
un primo importante elemento di resilienza. Raccontiamo e
ascoltiamo molte storie. La nostra stessa identità, sostiene
Ricoeur (1990), ha una “struttura narrativa”. Equivale ad
una storia di noi stessi che ricostruiamo continuamente e
a cui cerchiamo di rimanere fedeli. Il raccontare implica
una dimensione più propriamente comunicativa (nel senso di
un qualcosa che si racconta ad altri) e una dimensione che
ha a che fare con la costruzione dell’identità. Attraverso
la narrazione di storie personali, si racconta agli altri
ma si racconta anche a se stessi, nel senso che la narrazioni
impegnano a ricostruire il senso e il ruolo come attori dell’esperienza.
(Melucci A., 2001). Spesso le condizioni di malattia spingono
le persone a rinchiudere verso l’interno i vissuti, per tutela
ma anche per una sorta di pudore e, in alcuni casi, di senso
di colpa. La possibilità di raccontare in un contesto protetto
dà accesso a questo mondo interiore, crea le condizioni di
rivisitare emozioni e pensieri e quindi di rielaborazione
del vissuto.
La conversazione di consulenza, oltre a consentire alla persona
di costruire un dialogo con se stessa attraverso il dialogo
con gli altri, racchiude in sé un’altra potenzialità, poco
conosciuta, ma forse decisiva riguardo ad alcuni temi cruciali:
produce qualcosa di nuovo, di irriducibile alla semplice somma
delle conoscenze possedute dagli attori in gioco.
"La conversazione costruisce, nel suo farsi, nel
suo divenire, una conoscenza che, prima della conversazione,
era sconosciuta a ognuno dei partecipanti al dialogo. Una
conoscenza conversazionale. […] Spesso ci capita di pensare
di avere già capito tutto di un caso, ci capita quindi di
non entrare più in conversazione. Siamo lì, certo, stiamo
parlando, ma la nostra mente è già sicura, ha già capito tutto,
ha già formulato l’ipotesi giusta. Stiamo patologizzando,
cioè normalizzando.
Viceversa, ogni conversazione è immersa in un orizzonte pluridiscorsivo,
si vuol sempre dire qualcosa, ma anche qualcos’altro. Come
ha osservato Bachtin, la persona, come il romanzo, è per definizione
polifonica. Ognuno di noi, quando entra in conversazione,
dice sempre una molteplicità di cose, è costantemente polisemico,
sostiene sempre qualcosa nelle righe, ma qualcos’altro in
interlinea.
Da dove viene questo tipo di conoscenza per lo più misconosciuta
nella modernità? Viene dall’antichità, dal rapporto tra l’ordine
e il disordine […].
La fatica a mantenere l’ordine è, in primo luogo, una fatica
personale, necessita di tecnologie del sé. Come aveva osservato
Foucault, gran parte della filosofia antica può essere letta
come una conversazione del maestro con l’allievo in relazione
alla cultura del sé.
La cultura del sé prevede due aspetti tra loro interconnessi:
l’aspetto del “prenditi cura di te” e quello del “conosci
te stesso” (Barbetta, 2007).
Nella conversazione si aprono quindi nuove possibilità di
conoscenza e di presa in carico del proprio benessere. L’ascolto
ha un ruolo determinate in questo processo, un ascolto attivo,
curioso che trova un’ampia connotazione nel contesto della
terapia famigliare non direttiva (vd McNamee S, Gergen K.
1998). La capacità di ascolto, unità alla capacità di resistere
alla tentazione di entrare in possesso delle “chiavi di volta”,
sono elementi di resilienza del counsellor.
La malattia non riguarda esclusivamente la persona colpita
ma anche un contesto più ampio, famigliare soprattutto. In
quest’ultimo, l’idea di far emergere i vissuti connessi alla
malattia, per favorire un’elaborazione che serva alla “cura
di sé”, significa favorire lo scambio tra i componenti, i
cui vissuti sono spesso divergenti e custoditi, forse perché
la loro messa in campo è percepita come una potenziale minaccia
alla coesione.
Non è facile condividere la disillusione creata dal cambiamento
di aspettativa riguardo alla vita dei figli, o le paure generate
dall’immaginario della progressione della malattia. Si crea
una sorta di stallo in cui le attività necessarie per contrastare
l’evoluzione della malattia e l’implementazione dei necessari
cambiamenti di spazi, luoghi e strutture diventa un imperativo
che mette in secondo piano il vissuto. Ma il vissuto ritorna
in termini di fatica personale e relazionale. La condivisione
dei vissuti pone una questione etica importante: è necessario
attendere che la loro messa in rete abbia un carattere di
intenzionalità, che le persone ne avvertano l’utilità e decidano
di farlo.
La capacità di attesa, unita all’accettazione di eventuali
rifiuti o fallimenti, sono altri elementi di resilienza del
counsellor.
Le malattie neuromuscolari hanno uno sviluppo che il discorso
medico descrive, trasmettendo agli interessati un’idea “normalizzata”
del futuro. Dal punto di vista sanitario le fasi e i trattamenti
che via via si rendono necessari sono codificati: un discorso
che introduce un immaginario di prevedibilità. Se questo,
da una parte, aiuta nel senso che informa in anticipo, dall’altra
costringe le persone all’interno di una storia “già scritta”.
Può succedere così che le persone cerchino di contrastare
le previsioni attraverso un ricorso massiccio alle pratiche
riabilitative, oppure resistano alle previsioni ritardando
l’introduzione degli aggiustamenti necessari. In questo caso,
il couselling può essere utile a ricostruire un immaginario
che valorizzi le differenze individuali, non tanto riguardo
al decorso della malattia (che pure ci sono), ma soprattutto
in relazione al modo in cui si può rispondere ad esso, decidendo
insieme, valutando i pro e i contro delle varie possibilità.
Qui si colloca un ulteriore elemento di resilienza del counsellor:
legittimare e valorizzare la differenza.
Vivere una malattia neuromuscolare come diretto interessato
o come famigliare, penso possano essere equiparato a vivere
un “cambiamento catastrofico”, nel senso attribuito da Bion
(1981) a quei processi di cambiamento che obbligano ad avvicinarsi
ad una “verità” non proprio desiderabile, ma carica di prese
di coscienza profonde. Un percorso che porta ad attribuire
senso, ma che richiede anche di sottrarlo quel tanto che basta
per trovarne uno vivibile. L’idea di resilienza indica la
possibilità che l’impatto con il “cambiamento catastrofico”
generato dalla malattia, offra alle persone delle possibilità.
Evoca l’idea che, attraversando una condizione difficile,
il senso e il gusto della vita non cambia necessariamente
solo in “meno”. Il discorso clinico si concentra facilmente
sulle conseguenze negative di situazioni difficili, l’idea
del counselling come pratica di costruzione della resilienza
suggerisce invece di rivolgere lo sguardo verso la possibilità
che le persone siano in grado, non solo di contrastare gli
effetti negativi della crisi, ma anche di far leva su di essa
per costruire: senso su temi chiave dell’esistenza, capacità
di reazione, pratiche creative, difese efficaci dell’integrità
individuale e famigliare e controllo sulla propria vita.
NOTE
1] Per due famiglie si rese
necessario offrire il servizio a domicilio. fuori quindi dal
consueto setting di consulenza.
2] La denominazione del corso
è “Le radici culturali della diagnosi e dell’intervento socio
sanitario” organizzato sulla base del lavoro pluriennale del
forum di ricerca con la stessa denominazione attivo da diversi
anni presso l’Università di Bergamo, promosso e coordinato
da Pietro Barbetta.
3] Il sottoscritto ha partecipato
all’intervista della coppia di genitori. Un approfondimento
specifico sui vissuti dei genitori di persone affette da malattie
neuromuscolari è previsto in un futuro lavoro.
4] È un ambito di studio
che ha una delle sue radici nella narrazione dell’esperienza
tragica dei campi di concentramento (Levi P. 1958 - Šalamov
V. T. 1973 - Amery 1979).
BIBLIOGRAFIA
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Magris, Bollati Boringhieri, Torino 1987.
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storie, discorsi, Carocci.
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Šalamov, V. T., (1973) I racconti di Kolyma, Sellerio, (1992).
Sontag S. (1978) Malattia come metafora, Einaudi (1992).
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