I lemmi della malattia
Pietro Barbetta (a cura di)
M@gm@ vol.6 n.1 Gennaio-Aprile 2008
TESSITURE POLIFONICHE
Gabriella Erba
gabriellaerba@tiscali.it
Pedagogista e Counsellor sistemico
relazionale; Didatta della Scuola di Counselling del Centro
Isadora Duncan; Si è formata in Italia, sud America e Stati
Uniti; Dal 1987 formatrice in ambito socio-educativo svolge
formazioni, seminari, attività di consulenza e supervisione,
nel corso della carriera ha collaborato a progetti di cooperazione
internazionale in sud America e nei Balcani; Membro dell’European
Thematic Network ACUME 2 e del Comitato didattico scientifico
di SICIS; Principali interressi di ricerca negli ultimi anni
sono nell’ambito dell’antropologia medica e della filosofia
della scienza, in particolare del rapporto tra diagnosi e
processi narrativi; Pubblicazioni recenti, Erba G., La malattia
e i suoi nomi, Roma, Meltemi, 2007; Tessiture polifoniche,
in La parola e la Cura, Edizioni Change, Torino, 2008; Benini
P., Erba G., Itinerari di pre-comprensioni tra narrazione
e riflessività, Achab rivista di antropologia dell’Università
degli studi di Milano-Bicocca, numero V, 2005; Barbetta P.
Erba G., Il corpo e i suoi disturbi, uno sguardo antropologico
in Saggi Child Development. & Disabilities Vol. XXXI n. 3/2005.
“…
il fatto di pensare in termini di storie non fa degli esseri
umani qualcosa di isolato e distinto dagli anemoni e dalle
stelle di mare, dalle palme e dalle primule. Al contrario,
se il mondo è connesso, se in ciò che dico ho sostanzialmente
ragione, allora pensare in termini di storie deve essere comune
a tutta la mente, a tutte le menti, siano esse le nostre o
quelle delle foreste di sequoie e degli anemoni di mare.”
(Bateson 1979 p. 28)
L’approccio sistemico non solo è un approccio che assume che
la persona viva all’interno di un più vasto sistema che determina
e da cui è determinato, non solo assume che nel rapporto tra
testo e contesto vi sia un “accoppiamento strutturale”, tanto
quanto tra sistema e ambiente, è anche un approccio che pone
al centro della propria attenzione le storie. Pensare in termini
di storie è ciò che ci accomuna al più vasto sistema cosmico
nel quale siamo inseriti, pensare in termini di storie per
Bateson, è alla base della nostra mente. Non solo pensiamo
in termini di storie ma, ed è sempre Bateson, “le storie fanno
parte del mio stesso essere”. Si potrebbe dire che sono il
nostro stesso essere.
Per cogliere appieno questa differenza propongo due esempi
cinematografici, uno tratto dal film di Mulhollad Drive di
David Lynch, e l’altro dal film Mare dentro di Alejandro Amenabar.
Nel film Mulhollad Drive la protagonista perde completamente
la memoria a causa di un incidente stradale, il suo corpo
è integro ma guardandosi allo specchio non sa più chi sia,
non si riconosce. Essa è estranea a se stessa, è estranea
al proprio corpo quasi come se fosse il corpo di un'altra
persona. Il senso di disorientamento è profondissimo. Cosa
è quel corpo senza sapere chi è quel corpo, a quale storia
corrisponda quel corpo? Anche in Mare dentro abbiamo un evento
traumatico che in questo caso immobilizzerà per sempre il
corpo del protagonista. Tuttavia per quanto difficile sia
vivere l’esperienza di un corpo totalmente immobile, che non
risponde alla nostra volontà, il protagonista non ha dubbi
su chi egli sia, il suo senso di identità non è profondamente
intaccato come invece sperimenta la protagonista di Mullholland
Drive. Entrambe sono situazioni estreme che ci permettono
di vedere il rapporto tra identità biologica e identità narrativa.
Da un lato un corpo, dall’altro una storia. Ma si dà corpo
senza storia, si dà una storia senza corpo? O il rapporto
tra storia e corpo è più articolato e, come dice la Cavarero
(2001), siamo storie incorporate, siamo storie che abitano
un corpo che non è però solo il supporto di una storia, l’hardware
di un software che può essere impiantato altrove? Lo scrittore
anglo-pakistano Hanif Kureishi nel suo racconto Il corpo,
tratto dall’omonimo romanzo, immagina un mondo nel quale sia
possibile reimpiantare il cervello di un vecchio corpo in
un nuovo corpo, un mondo in cui sia possibile inserire un
software ancora efficiente in un nuovo hardware. La storia
presenta un vecchio commediografo al quale viene proposto
di trapiantare il proprio cervello nel corpo-cadavere di un
giovane uomo, nella speranza di spiazzare il tempo, di realizzare
almeno temporaneamente il sogno di una seconda giovinezza
unita alla conoscenza e all’esperienza. Dopo l’euforia iniziale
il protagonista si trova a fare i conti con la storia di quel
corpo, di quell’involucro che non è più semplice contenitore
del suo cervello e della sua mente ma incarna ed evoca una
storia che gli è estranea, e che emerge attraverso il racconto
di coloro che non solo hanno conosciuto quel corpo ma la sua
storia incorporata.
“’Mark, Mark!’ mi chiamavano. ‘Sei proprio tu! Come stai?
Ci sei mancato!’ Mi guardai intorno. Non c’era nessun altro
a cui potessero rivolgersi … la coppia si stava muovendo verso
di me attraverso il traffico, a braccia protese. (…) ‘A volte,
nella mia vita da Vecchio Corpo, specialmente quando invecchiavo
o stavo meditando, sentivo che i limiti della mia mente e
del mio corpo si espandevano. Mi sentivo, quasi misticamente,
parte degli altri, un’escrescenza dell’Uno’ (…) ‘Ora è diverso.
E’ come se avessi un fantasma o un’anima ombra dentro di me.
Posso sentire cose, forse ricordi, dell’uomo che era qui prima.
Forse il corpo fisico ha un’anima. C’è un espressione di Freud
che può spiegarlo: l’’ego corporeo’ lo chiama, almeno mi sembra”
(Kureishi, pp. 61, 62, 64).
Il romanzo attraverso lo spiazzamento identitario del commediiografo
ci rimanda all’impossibilità della separazione del sé biologico
dal sé narrativo. Perché la narrazione emerge dall’esperienza
che il corpo fa nel mondo e del mondo, perché il sé narrativo
emerge sia in quanto pulsione a narrarsi sia come esito di
un processo di continua negoziazione identitaria nella quale
è in gioco il nostro corpo. Quanto detto rinvia al rapporto
tra esperienza e narrazione, al rapporto che intercorre tra
storia come qualcosa che viene raccontata ed esperienza come
qualcosa che viene vissuta. In ambito letterario troviamo
due posizioni, da un lato la vita per come è narrata sarebbe
governata da una coerenza che unifica le trame nelle quali
il tempo è lineare. Le trame coerenti sarebbero produzioni
di narratori autorevoli che sanno come vanno le cose, mentre
la vita vissuta sarebbe caratterizzata dall’incertezza e da
una scarsa chiarezza rispetto agli sviluppi possibili. Per
Mattingly (2000), se si desidera sfidare questa discontinuità
ci sono due possibili strade da intraprendere. La prima presume
che le storie raccontate non siano necessariamente coerenti,
autorevoli e ordinate come le potrebbe scrivere un narratore
esperto, e che a volte la storia è semplicemente presunta.
L’altra posizione ritiene che l’esperienza vissuta non sia
priva di una forma narrativa, e che la narrazione sia un modo
fondamentale di dare senso all’esperienza vissuta. Rifacendosi
a quest’ultimo approccio Mattingly suggerisce il concetto
di narrazioni emergenti e le distingue dalle narrazioni come
routine enactment, dalle narrazioni forti. Le narrazioni emergenti
non si presentano come routine enactment di testi primari
ma sono improvvisate, incarnate, incorporate all’esperienza
stessa. Per l’autrice, esse usualmente sono inventate al momento,
sono drammi improvvisati che nascono nel corso delle attività
quotidiane. D’altro canto i teorici della risposta alla lettura,
ritengono che per costituire una narrazione, la storia deve
essere fatta propria, riconosciuta, legittimata dal lettore
o dal pubblico. Questo processo di appropriazione non implicherebbe
solo una ricezione passiva della storia, ma una vera e propria
ricomposizione, che presuppone un processo di “estrazione
di una configurazione da una successione” (Ricoeur 1983-85).
Il lettore, quindi non è soggetto inerte di ricezione di un
testo che esiste al di fuori di esso, invariato qualsiasi
sia il lettore, ma vero e proprio interprete della narrazione.
Vorrei che ci concentrassimo su alcune parole chiave di quanto
detto sinora.
Trame coerenti
Cecchin, come ci rammenta Barbetta nel suo Figure della relazione
(2007) provava una grande ammirazione per gli stuck systems,
ovvero per i sistemi bloccati, inceppati, perché sono sistemi
impegnati in uno sforzo eroico. Cecchin, ispirandosi a Heinz
Von Foerster riteneva che fosse impossibile fermare il flusso
vivente del divenire umano, perciò gli stuck systems erano
per lui eroici. Da un punto di vista narrativo in qualche
modo gli stuk systems sono sistemi che raccontano sempre una
stessa storia, la trama è sempre la stessa infinitamente ripetuta,
(cfr Cecchin 1992) per questo sono eroici. E’ significativo
che la Cavarero nel suo Tu che mi guardi tu che mi racconti,
prenda le mosse dalla figura di Ulisse, l’eroe per antonomasia.
Chi è un eroe se non colui la cui storia è già stata scritta,
la cui storia non può subire variazioni perché il suo flusso
vivente si è già da tempo interrotto? Egli è agente passivo
di una storia già scritta. L’eroe è personaggio di se stesso.
Eppure nell’Odissea c’è un passaggio che vale sottolineare
ed è quando Ulisse alla corte dei Feaci ascoltando la sua
storia narrata dall’aedo si commuove e piange. E’ un passaggio
interessante per almeno due ragioni. Perché solo in quel momento,
ascoltando la sua storia narrata da un altro Ulisse pare prendere
consapevolezza della sua storia. Ovvero in quel passaggio
tra storia come qualcosa che è vissuta e storia come qualcosa
che è raccontata emerge la coscienza di sé (conosco me attraverso
la storia che l’altro racconta di me, conosco me attraverso
l’altro da me) [1]. Un ulteriore
motivo per cui questo passaggio è interessante è perché Ulisse
esce dal personaggio e diviene persona. Il personaggio Ulisse
esce temporaneamente dalla trama coerente e diviene umano.
Gli stuck systems sono come le trame coerenti, trasformano
la persona in personaggio, costruiscono personaggi e li vincolano
a una trama, per questo per Cecchin sono meravigliosi ed eroici,
perché costruiscono eroi in questo sforzo straordinario di
fermare il divenire del flusso vivente. Cecchin quando definisce
una giovane anoressica una fantastica digiunatrice non solo
dà una connotazione positiva di un comportamento ritenuto
patologico, ma al contempo colloca la donna in un orizzonte
eroico e ironico. Ora se la collocazione eroica mette in luce
la staticità del personaggio quella ironica introduce la possibilità
di svincolarsi dal personaggio, dall’eroe, che - e questa
è un’altra caratteristica della maggioranza degli eroi - mettono
a rischio la loro vita.
Trame porose, trame possibili
Se le trame coerenti rischiano di trasformare la persona in
personaggio, sono chiusura di possibilità, produttrici potenziali
di stuck systems, tuttavia le persone hanno bisogno di una
trama, perché la trama è la struttura che connette, è ciò
che dà coerenza, direzionalità a una narrazione. Riguardo
alle ragioni per le quali le persone chiedono una consulenza
si potrebbe supporre che le persone chiedono consulenza perché
la trama non è più adeguata al desiderio, perché il personaggio
è divenuto troppo rigido e nella sua rigidità riproduce la
rigidità di una narrazione divenuta insoddisfacente, non più
adeguata al divenire umano. Perché il sistema ambiente, il
contesto, è modificato a tal punto che le risposte abituali
del “personaggio” non sono più adeguate. In sintesi si può
supporre che le persone chiedono una consulenza perché vogliono
recuperare la possibilità di costruire nuove storie, per trasformare
il personaggio in persona. Proviamo a immaginare il senso
di alcune tecniche di conduzione sistemica dei colloqui in
questa prospettiva. Quale è l’effetto delle domande circolari,
riflessive, ipotetiche, se non la possibilità di emersione
di una nuova storia. Si tratta di domande che mettono in moto,
che mettono movimento, che invitano a decostruire una trama
divenuta troppo cogente, che introducono spazi di porosità
nella narrazione abituale: “cosa farebbe se…”, “cosa pensa
che pensi suo marito”, “come immagina che… . Queste domande
chiamano a decostruire trame coerenti, introducono porosità,
invitano a comporre nuove trame possibili e plausibili. E
ciò attraverso un processo che non è solo di ripiegamento
del sé sul sé, ovvero non solo attraverso un processo riflessivo,
ma anche attraverso un invito a uscire da sé, un invito a
collocarsi fuori di sé.
L’orditura del contesto
Dicevamo prima che nel rapporto tra esperienza e narrazione,
le narrazioni emergenti non sarebbero routine enactment di
testi primari ma testi improvvisati, incarnati, incorporati
all’esperienza stessa, in qualche modo sono testi inventati
al momento. Ora assumendo che il contesto consulenziale sia
un contesto esperienziale, esso rappresenta uno spazio nel
quale possono emergere nuovi testi, nuovi copioni narrativi.
Non a caso ho usato la definizione contesto consulenziale,
dove la parola contesto già di per sé parla, perché le parole
dicono molto più di quanto non paiono dire nell’apparenza
dell’uso comune. Contesto deriva da un termine latino che
sta a indicare una tessitura, un intreccio. E se in un’opera
letteraria il testo è quanto effettivamente è detto o scritto,
il contesto è il complesso delle idee e delle motivazioni
che ne costituiscono il tessuto, l’aspetto distintivo nel
quale una parola, una frase assumono significati che altrove
non avrebbero. Nell’analogia della tessitura il contesto può
essere paragonato all’ordito, ai fili verticali che fanno
da base e che sono supporto indispensabile della trama.
Se prendiamo in considerazione l’altro corno del composto
“contesto consulenziale” troviamo che consulenza appartiene
alla stessa famiglia linguistica del termine consiglio che
rimanda a consultare ma anche a decidere. Una consulenza senza
contesto sarebbe come un testo senza contesto, una trama senza
ordito, perciò la definizione “contesto consulenziale” diviene
un composto sintagmatico, dove una parola non può fare a meno
dell’altra. La consulenza allora è contesto ovvero una tessitura
relazionale, narrativa, è un intreccio relazionale e narrativo
ma è innanzitutto ciò che sta sotto, è l’ordito che fa da
sfondo e nel ridefinire lo sfondo ridefinisce il significato
dei testi. Quando Cecchin connota l’anoressica “fantastica
digiunatrice” cosa fa? Ai miei occhi è come se improvvisamente
modificasse il contesto, dall’anoressia come problema medico-sanitario
all’anoressia come fenomeno religioso-spirituale, e modificando
il contesto modifica il testo. L’ironia è ciò che modifica
il contesto, che va direttamente alle premesse per relativizzarle,
per introdurre uno spiraglio che permette alla persona di
svincolarsi da un personaggio, l’anoressica, troppo resistente
alle possibilità di cambiamento nella costrittività inaugurata
dal nome della malattia (cfr. Erba 2007).
Storie polifoniche
Gianfranco Cecchin (1987), ricolloca i fondamentali concetti
di neutralità, ipotizzazione e circolarità all’interno di
una cornice più ampia, indicando la curiosità come forma mentis
che apre alla molteplicità, alla polifonia di storie. Mi piacerebbe
a questo punto che il lettore che pazientemente è giunto sin
qui, si prendesse una pausa per ascoltare la Missa Nigra sum
di Palestrina, grande maestro di musica polifonica. Nell’analogia
musicale inaugurata dal termine polifonia è impossibile non
rilevare un’omologia lessicale che percorre il nostro testo,
dal momento che in musicologia texture rinvia a diversi tipi
a diverse qualità di una composizione a partire dalle relazioni
tra le “voci”. La texture musicale può essere monofonica,
omofonica, polifonica, ed eterofonica. Per lo più il nostro
orecchio è abituato ad ascoltare strutture monofoniche o omofoniche
nelle quali, con accompagnamento (le seconde) o no (le prime),
prevale una sola melodia. La polifonia presenta invece linee
melodiche indipendenti una dall’altra sia in termini di ritmo
che di melodia. E’ questa indipendenza delle voci a generare
gli accordi, a essere fonte della complessiva melodia. E’
interessante rilevare che la polifonia si sviluppa sulla dissonanza
e la consonanza e che e l’arte di conseguire una polifonia
è il contrappunto. Riconducendo il concetto di music texture
a quello di stuck system è come se gli stuck systems fossero
composizioni monofoniche e/o omofoniche rigide. Accogliere
l’invito di Cecchin all’ascolto polifonico significa esercitare
il nostro orecchio all’ascolto di linee melodiche sottaciute
dalla dominanza monofonica e omofonica, far cantare multiple
melodie consonanti e dissonanti, esercitare l’arte del contrappunto.
Talvolta può significare far emergere dissonanze in sistemi
vissuti come troppo consonanti, e consonanze in sistemi vissuti
come troppo dissonanti. n sintesi esplorare il potenziale
armonico delle dissonanze nelle consonanze. Resta infine la
texture eterofonica che nella nostra analogia rinvia alla
consulenza in sistemi multiculturali ma allo stesso tempo
al post-modernismo poiché l’eterofonia è sia una caratteristica
della musica non occidentale, in particolare indonesiana,
giapponese, tailandese, sia un elemento distintivo delle avanguardie
musicali dello scorso secolo (è il caso di Debussy, Ravel,
Stravinskij e altri) che introdussero la dissonanza e l’imprevedibilità.
Nondimeno l’eterofonia, per quanto nelle sue specificità,
viene ascritta alla stessa polifonia.
“Poiché non conosciamo ancora quale particolare copione avrà
successo per quella famiglia, non possiamo che interagire
in un modo che forse perturberà il sistema così che esso trovi
da sé (o riscriva) il suo copione” (Cecchin G. 1987 p. 34).
La perturbazione di cui parla Cecchin, ma potremmo anche dire
la dissonanza, l’imprevedibilità, è ciò che mette in movimento
copioni troppo saturi, sovrabbondanti o troppo fedeli. Il
copione è il testo che viene dato agli attori perché recitino
la loro parte in scena, e sul copione non sono presenti le
sole “battute”, ma anche le indicazioni artistiche circa i
gesti, le inflessioni, il modo in cui quella parte va interpretata.
Il copione è il testo scritto che dice chi è il personaggio,
come deve essere questo personaggio. E il personaggio per
definizione è sempre uguale a sé stesso, non cambia mai. La
perturbazione di cui parla Cecchin è allora ciò che permette
alla persona di svincolarsi da un personaggio divenuto ormai
troppo rigido. La perturbazione è ciò che mette in movimento
copioni troppo saturi, sovrabbondanti o troppo fedeli. E’
ciò che sottrae indicazioni su come quella parte va interpretata,
che apre nuove tessiture, suggerisce nuovi “contesti” in cui
quella parte può aprirsi a nuove trame. E’ interessante notare
che la parola copione è un derivato del termine copia, che
è composto da cum "con" ops, opis "ricchezza, abbondanza".
In tal senso una copia è una trascrizione che abbonda di somiglianze,
è riproduzione fedele di un testo già presente, di testo come
routine enactment. Una copia è qualcosa che è sempre uguale
a sé stessa, così come il copione, sempre uguale a sé stesso,
costringe l’attore a ripetersi, in modo sempre uguale a sé
stesso. Tanto più un copione è sovrabbondante e opulento nella
ricchezza di particolari, tanto più diventa cogente. La consulenza
in un ottica narrativa allora diventa luogo della sottrazione,
della povertà, come dice Barbetta nel suo “Figure della relazione”,
richiamando Lacan, la consulenza è luogo della parola vuota.
Nuove storie
Quando in una consulenza sentiamo di non riuscire ad andare
avanti nel nostro lavoro è quando abbiamo la sensazione che
non sono possibili nuove storie, che la storia che genera
fatica e sofferenza è una storia che continua a essere narrata
sempre allo stesso modo, è una trama che si ripete in continuazione.
Sono le storie con “un grosso potenziale anticipatorio, si
sa già all’inizio come andranno a finire” (Checchin 1992,
p. 19). Come quando vediamo un film di cui sin dalle prime
scene capiamo il finale. Sono le storie che trasformano la
persona in personaggio che recita la sua parte in continuazione.
Sono le storie più difficili con cui lavorare perché ci sono
dei master narrative potenti. Come la storia di Anna che racconta:
“vogliono farmi passare per pazza come mia mamma ma io non
sono pazza”. Eppure più volte il timore della diagnosi incombe
come destino già dato che riproduce un copione familiare rigido
dal quale è difficile svincolarsi. E’ una texture monofonica
prima e omofonica ora, che canta la stessa storia. Sono le
storie nelle quali spesso c’è una diagnosi, e nulla come la
diagnosi chiude alla narrazione, perché, come dice Bruner
(1990), nel resoconto scientifico, e una diagnosi può essere
intesa come tale, viene a mancare la funzione negoziatrice
ed ermeneutica del racconto, la possibilità di andare oltre.
Per questo di fronte alla diagnosi, monofonia scientifica
che chiude alla polifonia dell’essere vivente, è utile recuperare
le plurime melodie di vita nella dissonanza e nella consonanza,
aprire alla porosità un copione che pare già dato, per costruire
nuove storie possibili.
NOTE
1] Nel film franco-albanese
Parrulat di Gjergj Xhuvanit, troviamo una scena che richiama
quella di Ulisse di fronte all’aedo, per quanto in un’inversione
della figura eroica. Un vecchio e poverissimo pastore analfabeta
chiede a un giovane insegnate di scrivere una lettera al Comitato
del Partito perché lo aiuti a provvedere alla sistemazione
del tetto della sua povera casa. La lettera parla della sua
condizione di vita e della sua fedeltà al Partito. Quando
l’insegnate leggerà la lettera al pastore questi piangerà
per la prima volta la sua condizione. Solo ascoltando la sua
storia come se fosse la storia di un altro giunge alla consapevolezza
della propria condizione, alla pietà per se stesso.
BIBLIOGRAFIA
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it. 1984, Mente e natura, Milano, Adelphi.
Bruner, J., 1990, Acts of Meaning, Harvard University Press,
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Cavarero, A., 2001, Tu che mi guardi, tu che mi racconti.
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Mattingly, C., Garro, L.C., 2000, Narrative and cultural construction
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1987, Tempo e Racconto, Vol. II. La configurazione nel racconto
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White, M., 1992 La terapia come narrazione: proposte cliniche,
Astrolabio, Roma.
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