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  • Les lemmes de la maladie
    Pietro Barbetta (sous la direction de)
    M@gm@ vol.6 n.1 Janvier-Avril 2008

    RICAVARE UN’OPERA VIVA DA UNA SOFFITTA: SCRITTURA E TEATRO IN BALIA DI UNA CURA



    Elena Uber

    elenauber@libero.it
    Medico, Servizio Dipendenze Patologiche, Val d’Arda Piacenza.

    “Se potessi dire che cosa significa non avrei bisogno di danzarlo”
    Isadora Duncan
    (Bateson, 1976)

    Gregory Bateson, nel riferire questa affermazione della grande ballerina, sostiene che l’uso delle parole rende ragione solo di messaggi consci e volontari ma che è una sciocca idea pensare che sarebbe bene esser consci di tutto ciò’ di cui siamo inconsci (Bateson, 1976, p.175). L’ipotesi che affronto, raccontando una esperienza di scrittura e teatro condotta con un gruppo di pazienti in cura per disturbi alimentari presso il Servizio Dipendenze Patologiche della provincia di Piacenza dove lavoro come medico, è che utilizzare in contesti terapeutici esperienze espressive non fondate sul linguaggio verbale intercetta aspetti delle vicende individuali che la parola non raggiunge e ne consente talvolta una elaborazione misteriosa salvandole da una sedimentazione che può renderle materia immodificabile. Che dunque tali esperienze espressive svolgono una reale e imprevedibile azione terapeutica, non sostituibile ma anzi integrabile con le più tradizionali tecniche psicoterapeutiche.

    Sono consapevole peraltro del paradosso di utilizzare il linguaggio proprio per parlare d’una esperienza che ha voluto porsi oltre esso. Si vorrebbe infatti raccontare qualcosa che nella vicenda individuale e nei suoi nessi con altre storie è preziosamente indicibile, un mistero che si cela tenace dietro ogni comprensione, una sorta di esistenza segreta fatta di immagini, fantasie, emozioni e sentimenti senza nome che spesso ma non completamente trova il solo modo di esprimersi in quelle forme varie che l’essere umano ha compreso sotto il nome di “arte”.

    Di fronte alle biografie di molti artisti, più ingaggiati nel corso della loro esistenza dall’istanza insopprimibile di dar forma a questa “vita parallela” che dall’ occuparsi delle questioni apparentemente essenziali per la sopravvivenza, sorgono in genere due tipi di domande: la prima è quanto e come questa produzione creativa sia in relazione con lo stato di sofferenza di queste persone, se cioè la sofferenza fisica o interiore sia una sorta di sorgente della creatività e insieme un luogo di elaborazione di quest’ultima. Questa domanda probabilmente nasce dal pregiudizio che ci sia connessione tra stato di disagio e creatività, che cioè il primo rappresenti una sorta di fertile terreno per la seconda.

    Il secondo interrogativo riguarda la creatività come attitudine presente o meno in ogni essere umano e le sue connessioni con altri bisogni, materiali e spirituali. Quest’altro dubbio scaturisce dal pregiudizio che l’atto creativo sia un bisogno fondamentale dell’uomo e che possa assolvere il compito invero un poco oscuro di condurlo ad un livello di conoscenza “altro” da quello normalmente inteso. Anche lo stato di disagio o la sofferenza che inducono una richiesta di terapia possono dunque rappresentare un “stato favorevole” per la messa in campo di risorse creative che altrimenti rimarrebbero inesplorate? E possono queste risorse aprire ad un livello di conoscenza dove “il concetto di io non fungerà più da argomento cruciale nella segmentazione dell’esperienza…”? (Bateson, 1976, p.351-353)

    È questa l’idea attorno alla quale sviluppo questa riflessione, un tentativo di connettere a posteriori atto creativo e senso terapeutico; non escludo peraltro un’altra ipotesi, cioè che il significato ultimo della creatività nell’esperienza umana stia nel semplice fatto che la vita, pensata come “un gioco di regole rigide e senza la consolazione del cambiamento e dell’umorismo” (Bateson, 1976, p.235) sarebbe assai meno interessante.

    La scrittura: il piacere di co-creare

    Quando nella primavera del 2005 ho rivolto ad un piccolo gruppo di mie pazienti in cura da molti anni per differenti disturbi alimentari la proposta di un laboratorio di scrittura creativa, avvertivo prima di tutto il bisogno di aggiungere al rapporto terapeutico lungo e consolidato con ciascuna di loro uno spazio di incontro differente da quello tradizionale e inoltre desideravo condividere una cosa che a me produce grande piacere, scrivere per l’appunto.

    Avevo l’impressione d’un limite invalicabile in cui la terapia si muoveva: pur riconoscendo l’importanza e addirittura la necessità del carattere ristrutturante di relazioni terapeutiche di lunga durata soprattutto in persone con gravi traumi infantili e aspetti dissociativi, (come già Alexander - 1946 - e in tempi già recenti Fonagy - 2004 - hanno sottolineato), dove il paziente fa esperienza d’una “base sicura” dentro una relazione fatta di presenza e perseveranza d’un terapeuta che ne vicaria la carente funzione riflessiva facendo su di lui pensieri, fantasie, ipotesi e comunicandoglieli, non mi liberavo dall’impressione di indulgere spesso nelle sedute terapeutiche a quelle che Bateson definisce le “esplicazioni dormitive”, spiegazioni degli eventi che spesso nulla aggiungono e nulla tolgono a quanto detto fino a quel momento.

    Inoltre, aspetti caratteristici della terapia con persone fortemente traumatizzate come la mancanza di linearità nella narrazione, le incongruenze, i travisamenti di cose già raccontate in modo diverso, i deragliamenti emotivi che sullo stesso episodio possono essere di segno completamente opposto, mi precludevano ogni pretesa di neutralità, mi impedivano una ricostruzione “oggettiva” degli eventi e mi davano l’impressione vivida d’aver di fronte qualcuno non completamente compreso in ciò che potevo osservare.

    Bene ricorda Pakman (2006) che il nucleo centrale delle esperienze traumatiche è quello di non essere assimilabili da chi le vive dentro una qualsiasi categoria nota e condivisa. Credo che proprio la difficoltà di svincolarsi nella conversazione terapeutica dalle strettoie categoriali che il linguaggio tante volte impone abbia fatto maturare il desiderio, quasi l’urgenza, di affiancare alla terapia un tipo di spazio “conversazionale” differente, che come dice Von Foerster “ampliasse occasioni” (Von Foerster, 1987, p.36), co-creasse significati nuovi.

    Così un sabato mattina ci siamo sedute per terra in una stanza isolata e silenziosa del Servizio dove lavoro e siamo partite per l’esplorazione fantastica d’una soffitta. Era questo l’unico spunto iniziale che avevo scelto di fornire. Ciascuna ha immaginato la sua, l’ha vista, descritta e raccontata alle altre. Nell’incontro successivo ognuna di noi ha fatto arrivare alla porta di questo luogo un personaggio che io ho poi connotato e restituito loro con un tratto “archetipico”. Sono arrivati un Seduttore, una Madre Perfetta, una Donna in Nero, una Donna con una borsa dei Desideri, una Sorella Diversa. Quando ho ripresentato questi personaggi al gruppo, chiamandoli con questi epiteti impersonali e scrivendoli con le iniziali maiuscole, ho intuitivamente sottolineato che anche se ciascuna di noi aveva scaturito il personaggio dalla sua vicenda individuale, essi traevano la loro origine in un’immagine collettiva e derivavano appunto da un fondo impersonale che ha a che fare col concetto di archetipo di Jung. Egli definisce l’archetipo come una modalità di funzionamento, uno schema di comportamento paragonabile al comportamento innato che presentano gli animali.

    L’archetipo non costituisce di per sé un’immagine psichica né buona né cattiva ma un modello sedimentato nella psiche collettiva lungo l’evoluzione della specie umana, legato ad aspetti biologici ma anche a risposte comportamentali alle sollecitazioni ambientali. Ci parlano degli archetipi i sogni, il mito, i riti di molte popolazioni primitive; ciascuno, pur contenendo nell’inconscio individuale innumerevoli modelli archetipici, è dominato da alcuni di essi per motivi alquanto oscuri, a volte legati a copioni transgenerazionali. Accettando l’ipotesi che ciascuna di noi avesse presentato alla porta della Soffitta una immagine archetipica dominante in quel momento della vita nel suo inconscio e proponendo di continuare da quel momento la scrittura in modo circolare, abbiamo assecondato l’ipotesi che tutti i personaggi ci riguardassero anche collettivamente, fossero appunto archetipi collettivi.

    Far muovere questi personaggi lungo una vicenda fantastica che andava scaturendo non solo dall’immaginazione individuale ma da quella di gruppo è stata un’inconsapevole sfida alla potenza e in un certo senso al determinismo di queste figure inconsce; per esempio il Seduttore di Cristina, bello e impossibile, coi lunghi capelli ricci e i jeans attillati che lasciano fantasticare il meglio, sotto la penna delle altre non è nemmeno in grado di dirimere un banale litigio… La Madre Perfetta di Caterina, che vuole i bambini ordinati e puliti, diventa una pasticciona tremenda che fa cadere tutto e sporca in giro… La Donna in Nero di Paola, che s’aggira avvolta in un’aura misteriosa e saggia per l’ambiente, alla fine non combinerà granché… Ridimensionati quindi nella loro importanza e onnipotenza grazie all’elaborazione circolare, i personaggi si accingono a preparare un banchetto e ad affrontare una riunione di condominio, al cui Ordine Del Giorno finiscono le questioni più astruse : l’ordine, il sogno e la finzione, il desiderio, L’Urlo, gli occhiali della protagonista, A.

    Gli appuntamenti di scrittura sono stati complessivamente otto e sebbene inizialmente mi fossi riproposta di condurre questo laboratorio non partecipandovi attivamente, già dal secondo incontro non son riuscita a mantener fede a questo proposito e hanno prevalso il desiderio e l’urgenza di scrivere anch’io. Pur avendo ciò comportato un po’ di confusione nella gestione dei tempi e dei modi del laboratorio, s’è decretato inequivocabilmente la mia appartenenza a quel contesto secondo la premessa fondante della cibernetica di 2° ordine che intende la circolarità non soltanto come descrizione circolare d’una situazione ma quale appartenenza ad essa. Ho scelto dunque, come afferma Caruso (2002), di far influenzare le mie visioni dalla posizione occupata dentro quel sistema e che quelle andassero poi a influenzare quella stessa posizione.

    Il teatro: corpi di scena

    Il laboratorio di scrittura della Soffitta dura dall’autunno 2005 alla primavera 2006. In quell’anno l’Unità Operativa in cui lavoro, appartenendo diversi suoi operatori alla Società Italiana per lo Studio dei Comportamenti Alimentari (S.I.S.D.C.A.), assume l’impegno di organizzare a Piacenza uno dei convegni nazionali annuali della Società stessa. Sulla scorta d’un consolidato piacere della mia équipe di valorizzare le risorse espressive dei suoi membri, progetto d’allestire con la collaborazione di un gruppo teatrale piacentino uno spettacolo a partire dal testo prodotto con il gruppo. Quest’ultimo viene rielaborato e ne viene ricavata una drammaturgia dove la soffitta diviene la stiva d’una nave nella quale A., la protagonista, compirà il suo viaggio “verso il mondo che l’aspetta là fuori”. Là dentro vuole imbandire un banchetto, una festa “di laurea” della sua identità; ma in questo luogo “sotto”, nascosto e ufficialmente inagibile, unico spazio però disponibile per lei sulla nave, c’è disordine, sporco… Mentre con l’aiuto d’una squadra di pulitori cerca di rimettere ordine in quella confusione e di agghindarsi per la festa suddetta le sovviene di non aver invitati. I pulitori si rendono immediatamente disponibili resuscitando i personaggi della soffitta: così sul palco, davanti allo specchio dove A. si prepara, prendono vita, abito, azione, il Seduttore, le Sorelle Diverse, la Donna con la Borsa dei Desideri, la Madre Ossessiva, la Fragile Fanciulla.

    Con loro sul palco, gli oggetti, tanti, quelli che ciascuna/o ha scelto di portar lì dalla sua storia. Una lettera del nonno partito per la guerra, una vecchia bicicletta, quella che si sperava di trovare fuori dalla scuola, uno specchio nel quale da bambina si cercava l’immagine desiderata dalla madre. L’incontro di ciascuno con gli oggetti della memoria crea quadri singoli, acuti, d’ intenso pathos, che si staccano dal tono lieve e ironico del resto dello spettacolo. Nella rappresentazione è consentita quella “torsione della legge, implicita nel movimento ironico, che permette di svelarne il lato osceno”, ma anche una “sospensione dell’ovvietà” (Barbetta, 2007, p.65). Nella scena più “catartica” dello spettacolo, quella del vomito collettivo, la protagonista, in preda ad una crisi di forte nausea per il mal di mare, vuole liberarsi; così, dopo una serie di tentativi di distrarla da parte degli altri personaggi, si decide di aiutarla vomitando ciascuna quello che più si ha sullo stomaco.

    Il sintomo diventa sblocco, via d’uscita, ribalta il suo statuto diventando da problema a soluzione (in ciò analogamente a quanto molto spesso le persone con disturbi alimentari riferiscono, di percepire cioè l’atto del vomitare come un sollievo ed una momentanea liberazione dal malessere). Lo spazio metaforico della rappresentazione permette di vomitare non cibo ma stanchezza, rigidità, puzza, sorelle, uomini, in un crescendo fino a un acme in cui, come la struttura classica della tragedia richiede, il pubblico stesso senta di partecipare all’evento. Dice Salvatore Natoli: “La simulazione, che ha l’intenzione di ingannare gli altri per meglio dissimulare il proprio dolore, finisce per inibire in certo senso la sofferenza tramite la suggestione della gioia… I Greci, che furono capaci di teatro e nella specie di teatro filosofico, compresero che cosa significa interpretare e perciò ebbero sentore che interpretare è realizzare. Questi grandi maestri del carattere sapevano che il simulare è una modalità del vivere ed è proprio su questo sfondo che Aristotele può sviluppare l’idea della catarsi come terapia” (Natoli, 2002, p.155). In effetti proprio da lì, da quell’atto, le attrici hanno percepito durante le prove che si poteva ripartire per imbandire la festa, il banchetto di “laurea dell’identità”. È sempre Natoli a ricordare che il nucleo della metafisica tragica è proprio questo: nel gioco alterno della vita e della morte i dolori vengono e vanno, ma non sempre uccidono. Talvolta sono essi a morire. È l’amore per la vita, nonostante il suo dolore, il sentimento fondamentale degli antichi… (Natoli, 2007, p.77)

    Tirare o tagliare le fila del discorso?

    Esistono svincoli creativi dalla rigidità d’una conversazione dove la parola, specie quella terapeutica, si concentra in primo luogo “su un riempimento di senso… poiché gran parte del pensiero sulla terapia è consistito nell’idea di un riempimento del senso, (…della terapia come) luogo di pienezza della parola (Natoli, 2007, p.73)? Forse intuire e percorrere strade diverse dalla parola piena, quella dritta e maestra che indica (o vorrebbe farlo) il perché delle cose. Prendere vie secondarie, più tortuose, sentieri che forse si perdono e forse invece portano a luoghi inaspettati. Il lavoro che ho raccontato ha imboccato e percorso il sentiero dell’allusione. Alludere è non dire tutto per dire di più. In terapia è un luogo che Barbetta chiama “zona d’intenzionalità poetica” e Pakman “momento poetico”, uno spazio sospeso cioè tra poesia e azione, dove la parola allude e non spiega, in cui si utilizzano metafore che il paziente accetta perché parlano di sé con uno slittamento tra reale e fittizio che permette a quest’ultimo di produrre o evocare la realtà più efficacemente della sua descrizione. Utilizzare anche in terapia l’elemento sorprendente, “acausale”, l’eccesso, il mistero, l’immaginario, proprio come avviene in tutte le altre forme di arte, apre uno spazio, perlomeno è questa la mia ipotesi, perché accada qualcosa d’appartenente ad un livello di comprensione differente, per una rivelazione. Questo accadimento appartiene al sacro dell’esperienza umana, ha una natura simile al sogno, alla visione. Parlarne per spiegarlo è alla fine impossibile. Solo la parola poetica può farlo.

    È quando “la musica, gli stati di felicità, i volti scolpiti nel tempo, certi crepuscoli, certi luoghi, vogliono dire qualcosa, o qualcosa dissero che non avremmo dovuto perdere, o stanno per dire qualcosa…” (Borges, 1997) Si potrebbe azzardare che collocare la terapia tra le forme d’arte è riportarla in seno alla Creatura, come Jung e Bateson l’intesero. Bateson (1989, p.221), riprendendo la distinzione che fa Jung in Sette Sermoni per i morti dove descrive il Pleroma, il mondo fisico, come governato da forze e urti e il mondo della Creatura quello in cui i rapporti sono regolati da distinzioni e differenze, afferma che un modello della Creatura può essere costituito dai sistemi religiosi, che racchiudono in sé necessariamente alcune contraddizioni e paradossi e che per rimanere tali non sono accessibili a certi tipi di conoscenza razionalizzante. Non è forse così per tutti i luoghi dell’esperienza umana dove la conoscenza procede appunto tra paradossi e contraddizioni, attinge alla curiosità e alla sorpresa per produrre qualcosa di tanto inutile quanto meraviglioso? Non è forse vero che “C’è voluto moltissimo pensiero per fare la rosa” (Bateson, 1989, p.299)?


    BIBLIOGRAFIA

    Alexander F., French T. et al., Psycoanalytic Therapy: Principles and application, New York, Ronald Press, 1946.
    Barbetta P., Figure della relazione, ETS Edizioni, Pisa, 2007.
    Bateson G., Dove gli angeli esitano, Adelphi Milano, 1989.
    Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi Milano, 1976.
    Borges J.L., Tutte le opere, Mondatori Milano, 1997.
    Caruso A.M., Altravisione: una posizione nella conversazione terapeutica tra teoria sistemica e teoria socio-costruzionista, Connessioni, n.11, Ed. Centro Milanese di Terapia della famiglia, 2002.
    Fonagy P., Pathological attachments and therapeutic action, in Albasi c., Mentalizzazione, dissociazione, enactment, Connessioni, n.15, Ed Centro Milanese terapia della famiglia, 2004.
    Natoli S., L’esperienza del dolore, Universale Economica Feltrinelli Ed. Milano, 2002.
    Pakman M., Relazione al Curso International de Terapia Familiar, Santiago di Compostela, luglio 2006.
    Von Foerster H., Sistemi che osservano, Astrolabio Roma, 1987.


    Collection Cahiers M@GM@


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
    Indexed in DOAJ since 2002

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