Les lemmes de la maladie
Pietro Barbetta (sous la direction de)
M@gm@ vol.6 n.1 Janvier-Avril 2008
LA CURA DELL’INCURABILITÀ: L'ESPERIENZA DELL'HOSPICE
Maria Elena Bellini
mariaelenabellini@tiscali.it
Psicologa e psicoterapeuta sistemico
relazionale, consulente psicologa presso l’Hospice - “Casa
di Cura San Giuseppe” di Gorlago (BG).
“è
nei suoi atteggiamenti
e nelle sue credenze di fronte alla morte
che l’uomo esprime ciò che la vita ha di più fondamentale”
(Edgar Morin, L’uomo e la morte)
Tra i diversi lemmi che il termine “malattia” porta con sé,
quello di malattia incurabile è forse tra quelli che suscita
più emozioni e più significati di rabbia, dolore, paura. Parlare
di incurabilità, significa infatti parlare di quella difficile
fase della storia del paziente in cui la medicina “dichiara
la sua sconfitta” e si arrende di fronte all’avanzare della
malattia stessa. Quella fase in cui nulla sembra più possibile
fare.
In hospice, massima espressione della moderna medicina delle
cure palliative, viene riscoperto il significato originario
del termine Cura, quello della sollecitudine, rendendo possibile
“curare” ciò che è stato dichiarato non più tale. La logica
e la neutralità affettiva del curare (nel senso di to cure),
cedono il posto all’empatia e alla com-passione del prendersi
cura (to care).
La malattia che nella storia del paziente è stata fino a quel
momento l’hostes, il nemico da sconfiggere, diviene così l’hospis,
l’ospite da accogliere nel difficile percorso incontro alla
morte.
Breve storia degli hospice (le origini)
Etimologicamente collegato al latino hospes-hospitis, -ospite-,
il termine inglese Hospice, si legge in una sua definizione,
è un riconosciuto neologismo a livello internazionale e per
questo intraducibile, indicante una struttura sanitaria residenziale
per malati terminali, soprattutto affetti da patologie neoplastiche.
Gli hospice, in particolare, trovano le loro radici negli
hospitium, i luoghi dove anticamente venivano accolti forestieri
ed amici e che, in età medievale, divennero i centri dell’ospitalità
cristiana. Gestiti per la maggior parte dai monaci, offrivano
inizialmente vitto ed alloggio temporaneo a pellegrini e viandanti,
ma divennero presto ricovero per ammalati privi di risorse
e d'assistenza, spesso abbandonati dalla società.
Attualmente, luogo d'accoglienza e ricovero temporaneo, in
hospice il paziente viene accompagnato nelle ultime fasi della
sua vita con un appropriato sostegno medico, psicologico e
spirituale affinché le viva con dignità nel modo meno traumatico
e doloroso possibile.
Proposto come una sorta di prolungamento e integrazione della
propria dimora, include il sostegno psicologico e sociale
delle persone che sono particolarmente legate al paziente
(partner, familiari, amici), per cui si può parlare dell'Hospice
come di un approccio sanitario inclusivo (globale, olistico)
che cerca di andare oltre all'aspetto puramente medico della
cura, intesa non come finalizzata alla guarigione fisica (spesso
non più possibile) ma letteralmente al "prendersi cura" della
persona nel suo insieme (Marzano 2004).
Due iniziative, secondo Marzi e Morlini (Marzi e Morlini,
2005), hanno fornito un contributo fondamentale verso la nascita
del concetto moderno di hospice. La prima, una ricerca britannica
del “Marie Curie Memorial Foundation” agli inizi degli anni
sessanta, dalla quale emergeva la necessità di istituire strutture
idonee alla cura e al ricovero di malati terminali, soprattutto
anziani spesso abbandonati a se stessi nelle ultime fasi della
malattia; la seconda, la figura straordinaria di Cecile Saunders,
infermiera e medico inglese che inaugurò a Sydenham, un sobborgo
di Londra, nel 1967 quello che può essere considerato il primo
hospice: il Saint’s Christhoper Hospice.
Una struttura “più simile ad una casa che ad un ospedale”,
scrive la Saunders stessa, che aveva lo scopo di recuperare
gi aspetti umanitari dell’assistenza al morente ma che contemporaneamente
voleva porre un’attenzione scientifica al sollievo dei sintomi
fisici, emotivi e spirituali del paziente.
Di fronte all’aumentare delle diagnosi oncologiche agli inizi
degli anni cinquanta, la medicina ordinaria, vivendo sempre
di più la morte come un fallimento, se da un lato applicava
tecniche e tecnologie complesse per giungere alla "guarigione",
dall’altro tardava nell’utilizzo delle terapie antalgiche
e, in particolare, dell’uso della morfina (Du Boulay, 2004).
Di fronte alla necessità di alleviare le sofferenze umane,
la Saunders intuisce questa carenza dell’assistenza ospedaliera
e recupera il concetto di cura della persona, associandolo
agli aspetti più moderni della medicina, soprattutto nell'ambito
della terapia del dolore e della medicina palliativa. Riscopre
e sostiene l’importanza di avvicinarsi al dolore in modo competente
per permettere alla persona, nonostante la diagnosi di terminalità,
di vivere serenamente gli ultimi giorni di vita, scoprendo
magari un inaspettato prolungamento della vita stessa:
"Badare ai minimi particolari per offrire una piacevole sensazione
di serenità... e fare in modo che il paziente e la sua famiglia
si sentano a proprio agio, come a casa propria…", ricorda
nel discorso di inaugurazione del Saint’s Christhoper, favorendo
la relazione e contrastando il senso di abbandono e solitudine
che spesso la terminalità porta con sè.
La morte torna così ad essere riconosciuta, “addomesticata”,
per usare un termine di Ariès. E con essa vengono riconosciuti
tutti quei passaggi e quelle scelte che caratterizzano le
ultime fasi della vita. Come i rituali e le pratiche che i
cavalieri medievali mettevano in pratica quando, riconosciutone
i segni, seppur nel dolore andavano incontro alla morte. (Ariès,
1998)
Gli hospice divengono così da subito l’espressione di un movimento
sociale che ha come obiettivo quello di ridare dignità alle
ultime fasi della vita e, soprattutto, alla morte stessa.
Un profondo messaggio di rottura, di discontinuità, in una
società, quella contemporanea dove, come sostiene Morin l’idea
della morte è un’idea vuota; senza contenuto, poiché l’orrore
che genera è l’orrore del vuoto, del non essere. Tanto da
rendere il suo contenuto impossibile da pensare e rendere
traumatica la coscienza della morte stessa. Come spiega Bauman
(1992), a prevalere è l’impulso di trasformare la lotta contro
la morte in una incessante serie di battaglie contro le potenziali
minacce alla vita. La morte scompare infatti dal vocabolario
della medicina, il cui linguaggio si trasforma nel linguaggio
della malattia, sempre conoscibile, manipolabile, potenzialmente
curabile. “la morte ha perso il suo significato esistenziale
e metafisico per essere trattato come tutti gli altri elementi
della vita strumentalizzata: come oggetto di pratica, di uno
sforzo informato, mirato e dedicato. Come evento specifico,
con una causa specifica ed evitabile: un evento che entra
nel regno del significativo, solo attraverso il compito di
stimolarlo o evitarlo, di farlo accadere o di impedire che
accada”. La morte è stata, in altre parole, decostruita e
trasformata in oggetti ed eventi riconoscibili, affinché,
nella lotta alle sue possibili cause, potesse essere dimenticata
e rimossa dalle nostre paure. Poiché lo stesso linguaggio
medico, razionale e funzionale alla sopravvivenza è sia un
modo per non farsi coinvolgere nel linguaggio della morte,
sia un modo per alimentare e conservare la pratica ospedaliera
stessa. L’ospedale diventa così l’ultimo avamposto dove continuare
la lotta contro l’angoscia esistenziale del pensiero della
morte attraverso le preoccupazioni per le malattie, concrete
e visibili (Marzano, 2004). Attraverso il suo stesso agire,
la pratica medica “allontana in un certo senso il pensiero
da quello della morte ” facendo promesse, sostiene sempre
Bauman, che non sempre è in grado di mantenere. Il corpo diventa
così un oggetto da modificare. La persona diventa paziente,
la ricerca una lotta incessante per trascendere qualcosa che
non può essere trasceso (Marzi e Morlini, 2004).
“Le metafore chiave delle descrizioni del cancro sono infatti
attinte dal linguaggio bellico”, scrive Susan Sontag nel suo
celebre saggio sulle metafore e i nomi delle malattie (Sontag,
1992, pag 68), “ogni medico e ogni malato sanno che le cellule
cancerogene invadono il corpo, colonizzano, attaccano uno
ad uno gli organi del corpo. “Ed anche le cure”, continua
la Sontag, “hanno un che di militaresco”, le radiazioni bombardano,
i farmaci eliminano le cellule cancerogene.
La malattia è l’hostes che deve essere combattuto.
Un linguaggio questo lontano, estraneo, per coloro la cui
malattia non risponde più ai trattamenti specifici volti alla
guarigione o al rallentamento della malattia stessa.
Cecile Saunders e con lei tutto il movimento da lei generato,
avevano colto la necessità di offrire al malato terminale,
un’assistenza diversa da quella della medicina tecnologicamente
avanzata e rappresentata dal modello di cura ospedaliero:
la necessità di alleviare il dolore fisico in modo efficace
e continuativo, ma anche di soddisfare le esigenze più emotive
o spirituali della persona. Alleviare, in altre parole, “dal
dolore globale”.
La morte, da nemico (hostes) diventa ospite (hospis).
Un passaggio questo che, seppur ad un livello di significati
diverso, quello dell’incontro fra i popoli, Danièlou ha definito
come uno dei “passi avanti più decisivi” della civiltà. Un
azzardato parallelo nella riflessione sulla “presa in carico”
del malato.
L’hospice è il luogo quindi dove viene data Cura a coloro
che la medicina tradizionale ha giudicato incurabili. Si differenzia
così dall’ospedale e si pone come un luogo dove la Cura acquista
un significato diverso: non più la lotta contro la malattia
e verso la guarigione, ma il ritorno al suo significato originario,
quello di cui Seneca scriveva all’amico Lucilio: quello della
sollecitudine. Così come Faust (Goethe, 1927, tr. It. 2003)
che, accecato da Cura, ne riscopre il suo volto originario,
la sollecitudine, così la medicina, impotente di fronte all’avanzare
della malattia, riscopre come fondamentale lo stare con il
paziente, per migliorare la qualità della vita dei giorni
rimasti.
Un’idea di salute e un’etica della cura diverse: non più la
salute intesa come assenza di malattia, ma la possibilità
di vivere al meglio, nonostante la gravità della diagnosi.
Non più la cura intesa solo come approccio medico competente
verso la guarigione, ma il farsi carico del paziente all’insegna
dell’empatia e della compassione.
La riscoperta, come sostiene Heidegger, del concetto di cura
come concetto strutturante e fondante dell’esistenza umana
nelle sue due forme fondamentali: dell’avere cura e del prendersi
cura delle cose e dei simili (Heidegger, 1927, tr. It. 2005).
Aspetti questi che nella moderna medicina delle cure palliative
trovano la loro massima espressione.
Origine delle cure palliative
Il Pallium, il mantello corto, era l’abito usato dai sudditi
dell’impero Romano, diverso dall’aristocratica toga, segno
di distinzione per coloro che appartenevano alla classe dominante.
Pallium e toga, racconta Tertulliano nel De pallio, divennero
nei primi anni dopo Cristo, il simbolo dell’appartenenza a
due culture contrapposte. Da un lato il mondo ellenistico,
pagano di coloro che indossavano la toga. Dall’altro la nascente
cultura cristiana diffusasi fra i ceti popolari.
Il pallium era divenuto così il simbolo di coloro che credevano
nella charitas, l’amore per gli uomini e per il prossimo in
quanto figli di Dio, distinti da coloro che credevano invece
nella pietas, il sentimento della compassione inteso come
sentimento esclusivamente umano, laico.
Quando al medico ippocratico era proibito interferire con
il destino ed era suo dovere “fermarsi” di fronte alla morte
assecondando la sorte, il pallium, il mantello corto è stato
per molti malati il simbolo di assistenza e accudimento, nonostante
la gravità delle condizioni ed ha rappresentato nel tempo
ciò che, oggi, definiremmo assistenza, cura, empatia, solidarietà.
Se per un certo tempo il termine palliativo è finito per assumere
il significato di “inutile”, “inefficace” è stato ora recuperato
nel suo senso originale per connotare tutti quegli atteggiamenti,
quelle forme di cura che hanno lo scopo di accompagnare il
malato nell’ultimo tratto della sua vita.
A partire dall’esperienza del Saint’s Christhoper e sulla
spinta del pensiero che da esso ha tratto origine, nasce la
moderna medicina delle cure palliative che introduce un nuovo
modo di pensare la cura del malato terminale.
In particolare, l’OMS definisce le cure palliative “la cura
totale prestata alla persona affetta da una malattia non più
responsiva alle terapie aventi come scopo la guarigione. Il
controllo del dolore, degli altri sintomi e delle problematiche
psicologiche, sociali e spirituali è di prevalente importanza”.
Alla ricerca della miglior qualità di vita possibile (OMS,
1990).
Ne sono principali finalità per il paziente e i suoi familiari:
la continuità di cura in tutte le fasi della malattia; un
supporto specialistico e un’intensità della cura modulata
sui bisogni del singolo paziente; il rispetto delle scelte
del paziente e della sua famiglia. La peculiarità delle cure
palliative è quindi quella di porsi in una posizione di “ascolto”
per poter adattarsi giorno per giorno alle esigenze del paziente
e dei suoi familiari. Ogni cura e trattamento richiedono perciò
di essere continuamente riesaminate attraverso l’utilizzo
dei mezzi più moderni e delle terapie più avanzate.
Considerare la morte un evento naturale, affermando così il
valore della vita senza il tentativo né di allungarla, né
di abbreviarla.
Introdurre una gestione competente del dolore e degli altri
sintomi, alleviare il paziente dalla sofferenza fisica e permettergli
di vivere “fino alla fine”, nel modo più attivo e autonomo
possibile; accompagnare e sostenere sia emotivamente e psicologicamente
che spiritualmente il paziente e i suoi familiari per poter
convivere con la diagnosi e arrivare ad accettarla come parte
delle propria storia.
Sono questi gli obiettivi che, a partire dai principi fondamentali
racchiusi nella definizione di cure palliative, guidano quotidianamente
il lavoro in hospice.
Dal to cure al to care: il racconto di un’esperienza
“Accoglienza”, “condivisione”, “serenità che viene costruita
insieme”, “tranquillità”, "accompagnamento”, “empatia”. Sono
le prime parole che le emozioni suggeriscono agli operatori
della “Casa San Giuseppe”, interrogati sui significati che
il termine hospice “apre” in loro.
“Non riesco a pensare a qualcosa di doloroso, di drammatico”,
spiega B., un’infermiera da quasi dieci anni a fianco di chi
“sta per morire”. “Prevale la sensazione di familiarità, di
accoglienza, che giorno per giorno costruiamo insieme ai nostri
pazienti e ai loro familiari”. “Ricordo più le sensazioni
piacevoli che riusciamo a scoprire seppur nella drammaticità
della situazione”. “Sì”, continua M. un medico della struttura,
“in fondo, prevale la sensazione di conforto che cerchiamo
di trasmettere…”. “Penso all’enorme desiderio di poter dare
loro, ai nostri ospiti, tutto quello che desiderano….”, continua
A, sua collega.
La Casa San Giuseppe è un’hospice territoriale inaugurato
nel 1999 in un paese della provincia bergamasca. Accoglie
i suoi pazienti (la maggior parte con diagnosi oncologica
e la cui prospettiva di vita è inferiore ai due mesi), in
stanze singole, ciascuna dotata di cucina, angolo conversazione
e divani letto che possano ospitare i familiari. Il paziente
stesso, se lo desidera, può personalizzare la camera con oggetti
portati da casa. L’equipe curante è composta da tre medici,
quattro infermiere, sei operatori socio-assistenziali, una
psicologa ed un’assistente sociale. Quando è possibile e necessario,
anche un fisioterapista è chiamato nella presa in carico degli
ospiti. Un sacerdote ed una suora offrono quotidianamente
la possibilità di un supporto spirituale. La pratica medica
diventa, così, una delle tante attività di attenzione al malato
e il tentativo è quello, spiega la Carta dei Servizi, di fornire
“una risposta terapeutica integrata alla molteplicità dei
bisogni della sfera fisica, psicologico-emozionale, sociale
e spirituale del paziente e della sua famiglia”.
Il tentativo è quello, in altre parole, di rinnovare la pratica
medica in termini umanistici nel rispetto di tutti i principi
fondamentali della persona dal punto di vista fisico, psichico
e spirituale, cercando di “curare” nel lavoro quotidiano chi
è stato dichiarato non più tale.
“Così come possiamo essere persone ntere soltanto guardando
in faccia questo aspetto tanto crudele della realtà, l’ineluttabilità
della morte, alla stessa stregua possiamo imparare a vivere
con pienezza soltanto se viviamo alla luce di questa consapevolezza”,
sostiene Searles nel suo saggio sulla schizofrenia (Searles,
1974).
La consapevolezza della morte deve abitare in hospice.
Si chiede a coloro che vi operano, medici inclusi, di considerare
l’aspetto relazionale, empatico, come parte fondamentale del
loro agire. Si chiede a color che vi operano di compiere un
percorso inverso rispetto a quello che, secondo Foucault,
ha caratterizzato la nascita della clinica e ha portato la
persona, il Leib, a trasformarsi in Körper (Barbetta ed Erba,
2005; Erba, 2007), ad astrarre la diagnosi dalla persona,
ad assimilare il corpo ad un oggetto da riparare.
In hospice l’intento è di non negare al malato la dignità
di persona e viene chiesto a coloro che vi operano di ribaltare
le categorie aristoteliche della medicina tradizionale che
considera la malattia l’essenza e la persona l’accidente per
ritornare, come direbbe Levinàs a “scorgere” il viso di coloro
che la malattia la stanno vivendo. Se per tutto il tempo trascorso
dalla diagnosi l’attenzione è stata data alla parte malata,
si chiede agli operatori di porre nuovamente l’attenzione
alla persona. Di riportare lo sguardo dal corpo medico creato
ex novo dalla malattia, alla persona. (Good, 1999).
In hospice, l’hybris della scienza medica, la cui attenzione
è spesso sugli organi potenzialmente guaribili, deve cedere
il posto a quella comprensione che possa aiutare il paziente
nella ricerca di senso nell’esperienza della malattia e, di
conseguenza, di questa ultima fase della vita stessa. Una
continua ri-definizione del proprio ruolo di medico, di infermiera,
di operatore e dei valori che sono alla base del proprio operare.
Afferma Galimberti: “il medico ci ha descritti come organismo,
ma noi sentiamo che il nostro corpo non coincide con l’organismo,
perché questo non sa nulla del mondo che ci attrae e ci delude,
non conosce la qualità delle nostre passioni, non abita quei
volumi di senso in cui il nostro corpo si esprime vivendo
più di un mondo che lo impegna che di un organismo che lo
sostiene” (Galimberti, 1992).
Deve abitare in hospice la consapevolezza che le emozioni
e i pensieri possono essere più dolorosi della malattia stessa
e viene chiesto agli operatori di interrogarsi su quei volumi
di senso che la malattia ha per il paziente per cercare di
comprendere quali azioni e quali decisioni compiere nella
presa in carico sua e dei suoi familiari.
Prendersi cura acquista così un significato diverso nella
storia della malattia del paziente; un profondo elemento di
discontinuità rispetto a quella che è stato fino a quel momento
la presa in carico. Un’ottica centrata sulla persona (paziented
centred). Non più sulla malattia (disease centred). Dalla
logica, dalla scientificità e dalla neutralità affettiva del
curare (nel senso di to cure), all’empatia e alla com-passione
del prendersi cura (to care) (Tousijin, 2000; Chambliss, 1996).
Ascolto, sollecitudine, premura diventano così requisiti fondamentali
per chi opera in hospice e presuppongono, prima di tutto,
la capacità di stare con il malato terminale.
Riconoscere l’esperienza dell’altro e della differenza del
sentire anche in situazioni analoghe; i bisogni individuali
affondano le loro radici nel storia individuale di ciascuno
nella ricerca di un senso dell’esperienza che si sta vivendo
(sensemaking). Ascoltare le storie, per creare uno spazio
affinché “l’indicibile possa venire detto”. Scrive in proposito
Elisabeth Kübler Ross medico inglese e voce fra le più autorevoli
nell’ambito della terminalità a dedicò parte della sua storia
professionale e della sua vita: “molti malati…. Aspettano
il giro dei medici, forse una radioterapia, l’infermiera che
porta le medicine, e i giorni e le notti sembrano monotoni
e senza scopo. Poi in questa pesante monotonia viene a scuoterli
un visitatore, che vuol sapere di loro come esseri umani,
che si interessa delle loro reazioni, delle loro forze, delle
loro speranze e frustrazioni. Qualcuno prende veramente una
sedia e si siede. Qualcuno ascolta davvero e non scappa via
in fretta. Qualcuno parla… con un linguaggio chiaro e semplice
delle cose che sono veramente in cima ai loro pensieri,… viene
qualcuno a romper la monotonia, la solitudine, l’attesa senza
scopo come un’agonia. Un altro aspetto, forse più importante,
è la sensazione che le loro comunicazioni possano essere importanti,
possano avere un significato per altre persone….” (Kübler
Ross, 1994)
Chiedere al paziente “di potersi avvicinare”, perché, attraverso
l’ascolto se ne possano cogliere i bisogni a cui cercare di
dare una risposta.
Il discorso umano deve prevalere su quello medico per far
sì che il paziente e il sistema familiare che con lui è stato
catapultato nel territorio della malattia (Erba, 2007) e con
lui ne deve sopportare il peso (burden of care), possa sentirsi
accolto nei propri vissuti e nelle proprie narrazioni della
malattia. Spesso di rabbia, di rassegnazione, di arresa di
fronte alla morte (Kübler Ross, 1994)
L’ entrare nei significati altrui e il porre uno sguardo molto
più ampio che abbracci e cerchi di capire il senso che la
malattia ha per il paziente e i suoi familiari con le premesse
e i pregiudizi che l’accompagnano. Accettandone talvolta la
scelta di “arrendersi alla morte”.
Sviluppare una cultura della complessità, abbandonare i propri
pregiudizi e le proprie premesse trasformando il paziente
da oggetto terapeutico a Soggetto decisionale: il medico (e
con lui gli operatori) non è più colui che sa di fronte a
colui, il paziente, che ignora (Foucault, 1998), ma diviene
parte integrante della storia in una relazione non più lineare
ma circolare. Ad incontrarsi sono due diversi saperi (expertise,
direbbero Balint ed Engel): quella del medico (e degli operatori),
esperto del disease, della tecnica e delle terapia e quello
del paziente, esperto dell’illness, dei vissuti e della sofferenza
sul cui linguaggio nasce un territorio comune.
Al centro deve essere posta la cosiddetta “agenda del paziente”,
ovvero “ciò che il paziente porta con sé e con la sua malattia”
(Moja e Vegni, 2000): i suoi sentimenti, le sue idee e le
sue interpretazioni, le aspettative e i desideri, il contesto
sociale familiare e lavorativo da cui proviene.
Ne deriva così, in un processo di valorizzazione reciproca,
l’incontro fra saperi diversi verso la co-costruzione fra
operatori, paziente e familiari di un percorso di accompagnamento
che cerchi di rispondere al meglio ai bisogni e ai desideri
del paziente stesso. Un percorso a cui appartengono il dubbio
e l’incertezza, ma che vedono nel paziente l’attore principale.
Nei mesi precedenti la morte, quindi, il tentativo è quello
di “far sentire vivi”, di convincere i pazienti che hanno
ancora valore come esseri umani e che soprattutto, non sono
lasciati soli nell’affrontare questa sofferenza, fisica ed
emotiva, spesso al limite della tollerabilità.
Accogliendo la loro malattia e le sue narrazioni, le loro
ansie e le loro paure. Accogliendo le loro storie ed i loro
vissuti ma, soprattutto, accogliendo loro stessi. Alla ricerca
di un senso non solo nell’esperienza della malattia ma, a
volte, di alcuni passaggi della loro stessa vita. “Incontravo
Luigi nella sua stanza, tre o quattro volte la settimana.
Negli ultimi mesi, le metastasi avevano “invaso” ogni angolo
del suo corpo, fino a indebolirlo completamente.
I nostri dialoghi si sono costruiti pian piano attorno ad
una passione comune, quella per la fotografia. Mi ha parlato
per ore di lenti, inquadrature, soggetti… felice di trasmettere
il suo sapere costruito negli anni. “deve sempre cercare,
dottoressa, quei particolari che ai più sembrano insignificanti:
sono quelle le foto più belle!”. Luigi, attraverso la fotografia
e le immagini, attraverso le descrizioni dei lunghi appostamenti
nei prati in attesa di un insetto da filmare, mi parlava della
sua storia, della sua vita. Mi parlava di sé. Accogliere i
racconti della sua più grande passione, era accogliere Luigi.
Sono poi arrivati i giorni dell’aggravamento e con loro la
consapevolezza della morte imminente. Una sera, ricevo una
telefonata dei colleghi: Luigi sta molto male, ma mi vuole
parlare. Lo raggiungo. “Dottoressa, c’è una cosa che non sono
mai riuscito a dirle…” e mi racconta di un incidente stradale
durante il quale, mentre era al volante di un’autoambulanza,
ha investito una persona. “Ho ucciso un uomo”, sono le sue
parole. Gli ho stretto la mano: “è stato un incidente. Ne
sono sicura…”. Un lungo silenzio. “Grazie.”, mi dice, “Non
so fino a quando sarò ancora lucido: ora che lo sono, voglio
ringraziarla e ringraziarvi per tutto quello che avete fatto
per me. Per come mi avete accolto qui con voi…”.
Qualche ora dopo, Luigi non c’era più.”
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