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  • Les lemmes de la maladie
    Pietro Barbetta (sous la direction de)
    M@gm@ vol.6 n.1 Janvier-Avril 2008

    MEMORIA



    Giorgio Bert

    giorgiobert@ipsnet.it
    Medico; Coordinatore Dipartimento Counselling e Salute Istituto CHANGE di Counselling Sistemico, Torino.

    Malattia… Memoria… Può esistere un collegamento tra questi due termini? Esiste in effetti, e può apparire per certi versi inatteso: si tratta del concetto di cura. Per chiarire questa affermazione è necessario analizzare più a fondo il termine malattia. C’è, infatti, la malattia di cui parla il medico e c’è la malattia che vive il malato. Anche se il nome, il termine diagnostico è il medesimo, si tratta di cose tra loro molto differenti.

    La malattia di cui parla il medico è una descrizione sufficientemente chiara, condivisa da tutti o quasi i medici, quelli almeno formati col metodo scientifico. Per fare un esempio, tutti i partecipanti ad un congresso mondiale sulla malattia coronarica, - per quante e diverse lingue parlino - avranno di questa patologia lo stesso paradigma concettuale: quello descritto dai trattati e dalle riviste specializzate. La malattia di cui parla il medico è un processo biologico. In quanto tale, essa ha precisi aspetti biochimici, metabolici, cellulari, anatomopatologici. L’andamento di questa malattia è rigorosamente lineare: essa infatti è favorita da specifici fattori di rischio, ha una o più cause note, ha un decorso che può essere variamente influenzato dalle terapie, ha un esito: guarigione, cronicizzazione, morte. Si tratta in ogni caso di una patologia ben definita, che colpisce organi o apparati situati all’interno del corpo del paziente. Secondo questa descrizione il malato è la stessa persona che era prima, con in più la malattia.

    Per il paziente invece la malattia è esperienza di malattia, è malattia vissuta. Gli aspetti biologici sono certo centrali, ma non è detto che siano sempre e necessariamente i più importanti.

    Nella malattia intesa come problema esistenziale si intrecciano in effetti numerosi aspetti tra loro assai diversi:
    • i concetti di malattia e di salute, in parte trasmessi - di solito per via patrilineare - in famiglia, in parte appresi dall’esperienza.
    • Ciò che il paziente sa o crede di sapere delle malattie in genere e della sua malattia in particolare. Le fonti di queste conoscenze sono le più varie: trasmissioni televisive, internet, lettura di quotidiani o di riviste che trattano di salute, ma anche conversazioni con amici o con operatori sanitari, chiacchiere da bar, osservazioni e interpretazioni personali, immaginari bizzarri…
    • Pregiudizi, convinzioni, certezze, emozioni (timori, speranze, rabbia, angoscia, disperazione, negazione…).
    • Effetti sulla vita familiare: l’evento malattia modifica le regole del sistema famiglia e le relazioni tra i suoi elementi.
    • Effetti sulla vita lavorativa e sociale.
    • Effetti sulla progettualità.
    • Maggiore o minore rilevanza o percezione dei sintomi.

    È chiaro che la malattia del malato è diversa, e spesso molto diversa da quella del medico: è questa una della principali cause di difficoltà comunicative tra medico e paziente, che non di rado provoca malintesi o veri e propri conflitti.

    La malattia descritta dal medico ha, lo abbiamo detto, un andamento lineare del tipo “siccome… allora”. Siccome ho sempre bevuto troppo allora ho la cirrosi… Siccome ho fumato e fumo troppo allora ho una bronchite cronica costruttiva… Siccome mi ero punto lavorando nell’orto allora mi è venuto il tetano. Indietro non si può andare, nel senso che non è possibile non avere bevuto troppo o non essersi punto. All’opposto, la malattia intesa come problema della vita lineare non è: basta guardare gli elementi che contribuiscono a costruirne la definizione: presente, passato e futuro si intrecciano variamente, compaiono aspetti sociali (famiglia, lavoro, tempo libero…) ed emotivi (timori, speranze, rabbia…), e tutto ciò si annoda, si avviluppa, si svolge e si riavvolge di continuo in modo caotico, e per di più variabile da momento a momento.

    In questa descrizione la modalità lineare “siccome… allora” non funziona: perché in una prospettiva come quella descritta, il passato è una narrazione che si modifica costantemente e costantemente rimodella presente e futuro, che a loro volta retroagiscono sul passato in un circolo senza fine. L’esperienza della malattia è la vita, e la vita, se si eccettuano gli aspetti strettamente biologici, ha come tutti i processi sistemici un andamento circolare.

    La malattia biologica e il suo trattamento sono di competenza del medico. Essa può aggravarsi, cronicizzarsi ma anche guarire senza lasciare tracce, con una completa restitutio ad integrum. La malattia come problema della vita non ha una storia altrettanto ordinata, e non prevede una restitutio ad integrum: essa ha apportato modifiche importanti e definitive nella storia del malato il cui ricordo non si cancella. Il dopo sarà per sempre diverso dal prima. Analogamente alla patologia descritta nei trattati, la malattia come esperienza vissuta può e deve essere curata, ma la cura è ben diversa dalla terapia medica usuale; e tuttavia anche questo tipo di cura dovrebbe far parte delle competenze del medico. Il problema è che nel corso degli studi non viene in genere insegnato. Lo strumento principale e insostituibile per la cura della malattia vissuta è la memoria.

    Esiste nella nostra cultura una narrazione dominante, che descrive la memoria come un archivio o, più modernamente, come un disco rigido di computer. Secondo questa descrizione i ricordi sono paragonabili a faldoni o a file, più o meno facilmente raggiungibili, ma comunque stabili e immodificati nel tempo: il passato è, appunto, passato. Le neuroscienze hanno da tempo dimostrato che questa metafora non è pertinente. Come osserva un autorevole studioso di psicobiologia, Alberto Oliverio:
    “la memoria ha diverse dimensioni e chi ricorda, nello scegliere la prospettiva della rievocazione, determina anche il livello di connotazione emotiva delle proprie memorie che non sono soltanto rievocate o ricostruite ma costruite in modo diverso a seconda delle necessità, delle interpretazioni, degli stati emotivi” (Oliverio, 2003).

    Ciò significa che i nostri ricordi, che a noi paiono stabili e certi, sono in realtà continuamente modificati, scritti, cancellati, riscritti, ristrutturati e perfino almeno in parte, inventati. Il passato, insomma è una narrazione, è fiction. “Il passato, scrive Faulkner, non è mai morto, non è neppure ancora passato”. Poiché la memoria coincide con la nostra stessa identità, appare chiaro che la nostra identità è largamente narrativa.

    Se questa conclusione può apparire bizzarra, ciò dipende dal fatto che la nostra mente opera in modo lineare e tende a raggruppare i ricordi in modo tale da conferire ad essi logica e coerenza, selezionando, eliminando, aggiungendo, modificando elementi. È quello che può essere definito un lavoro costante di editing, in parte inconsapevole, in parte cosciente. Avviene poi che anche le modifiche da noi scientemente apportate ai nostri ricordi finiscano per diventarne parte integrante, e a quel punto saremo i primi ad essere convinti che si tratta di fatti realmente accaduti.

    Se la vita vissuta coincidesse con la vita narrata, se cioè avesse una struttura rigorosamente lineare, il passato determinerebbe il presente e questo il futuro, con scarse possibili variazioni. In una descrizione così desolatamente deterministica un discorso sulla memoria che cura non avrebbe senso e, moderni don Ferrante, non potremmo far altro che andare a morire, “come un eroe di Metastasio, prendendocela con le stelle” (o coi nostri genitori o coi nostri errori giovanili, o con la società…). Ma la vita vissuta non è la vita narrata. Come scrive Margaret Atwood:
    “Quando siamo nel mezzo di una storia, ciò in cui effettivamente ci troviamo non è affatto una storia, ma soltanto confusione: un frastuono nel buio, un momento di cecità, un cumulo di vetri rotti e di imposte scheggiate, come una casa investita da un tornado (…) È soltanto in un secondo momento che questa esperienza diventa una storia: quando cioè la raccontiamo a noi stessi o a qualcun altro” (Atwood, 1997).

    La vita, mentre la si vive, è caotica e indicibile. Riordinare quel caos significa trasformarlo in storie, e le storie possibili sono molte. Se il passato è una narrazione, esso può essere costantemente creato, modificato, cancellato, soprascritto e riscritto dall’azione congiunta della memoria e dell’oblio; presente e futuro possono venire di conseguenza narrati e rinarrati in molti modi diversi. Noi siamo un’antologia virtuale di racconti: nasce di qui la possibilità della cura. È questa grandiosa circolarità che permette alla memoria di curare la malattia come problema: dove “curare” non significa né “trattare” né “guarire” ma costruire momenti di benessere e di speranza senza cadere nella trappola delle illusioni.

    Se infatti il passato è simile a un palinsesto in cui strati diversi di scritti si sovrappongono, senza mai eliminarsi del tutto, esso è anche un immenso ipertesto: nel viaggio attraverso la memoria ogni ricordo ne ridesta altri e altri e altri che costruiscono mille diversi significati e raccontano mille storie differenti. La memoria rende il passato contemporaneo e sempre modificabile: ogni cosa può venire narrata in cento modi e ogni volta il senso è diverso, la storia è diversa, l’identità del narratore è diversa, il presente è diverso.

    La memoria mobilita risorse ignorate, dimenticate, congelate, messe in ombra dalla minaccia incombente della diagnosi. La memoria permette di uscire dalla descrizione ripetitiva: “Io sono malato… Io sono malato…” per esplorare altre e differenti descrizioni, altri mondi. Che esistono sempre in tutta la loro complessità, anche nelle situazioni apparentemente più disperate e perfino alla fine della vita.
    Scrive Milan Kundera in un suo racconto:
    “Uno o due anni dopo la guerra, adolescente, incontrai una giovane coppia di ebrei: avevano trascorso la giovinezza a Terezin e poi in un altro campo. Mi sentivo intimidito davanti al loro destino. Il mio disagio li irritò: “Finiscila una buona volta!” e, con insistenza, mi fecero capire che la vita laggiù aveva conservato tutto il suo ventaglio di possibilità: dalle lagrime agli scherzi, dall’orrore alla tenerezza” (Kundera, 2007).

    La malattia come esperienza di vita tende a bloccare il malato in un’unica ripetitiva descrizione di sé e del suo mondo: “Sono malato… non potrò mai guarire… la mia vita è finita, distrutta …" Questa descrizione che fa coincidere il paziente con la sua malattia e la vita con il decorso di essa, è una patologia narrativa e può essere narrativamente curata. Altre storie sono possibili. Il mondo del malato è un mondo ristretto paragonato a quello che abitava prima e che tuttora abitano le persone sane: ci sono cose che non potrà più fare e altre (in genere spiacevoli) che sarà costretto a fare. Un mondo ristretto, certo, ma non incompleto: per citare Kundera, è un mondo che conserva tutto il suo ventaglio di possibilità. Un mondo ignoto al malato stesso e a maggior ragione agli altri, che possono apparire estranei e molesti con il loro atteggiamento imbarazzato, con le loro rassicurazioni stereotipate, con le loro minimizzazioni a fin di bene, con le loro generiche banalità.

    Un territorio tutto da esplorare: la malattia è una linea d’ombra oltre la quale c’è l’ignoto; e del resto il malato stesso non è più la persona che era prima, anche se le somiglia, anche se ne condivide i dati anagrafici. Chi, che cosa è diventato ancora non lo sa: deve in qualche modo ritrovare una identità; e l’identità è la memoria e la memoria è narrazione. La storia che ripete “sono malato” non è l’unica possibile e forse non è nemmeno in ogni momento la più importante: bisogna imparare a raccontarne altre.

    Mobilizzare risorse smarrite, dimenticate, mai utilizzate, per costruire nuove storie significa passare dalla rassegnazione a quella che oggi si usa definire resilienza: la capacità di far fronte a situazioni nuove con strumenti nuovi.

    La rivelazione che il tempo della memoria non è lineare ma circolare, o per meglio dire che nella memoria il tempo così come siamo abituati a considerarlo non esiste, è un’esperienza folgorante, quasi mistica: la vita intera può cambiare in un istante. Presente e futuro smettono di essere predeterminati dal passato, perché il passato stesso è una continua creazione narrativa.

    Poche persone sono in grado di affrontare da sole i primi passi in questo mondo ignoto, di utilizzare cioè la memoria come cura. Tutti i professionisti della salute, a cominciare dal medico, dovrebbero essere preparate ad accompagnare il malato in questo difficile percorso, facilitando la narrazione di nuove storie, aiutando il paziente a non sentirsi tutt’uno con la sua malattia. Questo complesso intervento non può essere lasciato alla spontaneità: è necessario che il medico conosca e utilizzi delle abilità comunicative specifiche, note come abilità di counselling: uno strumento prezioso e indispensabile di cui però, come per ogni altro strumento, occorre apprendere l’uso in contesti di formazione adeguati e rigorosi.

    Saper affiancare e accompagnare il malato nel difficile percorso attraverso il mondo della malattia; saper facilitare la ricognizione delle risorse: sono queste le competenze del medico con abilità di counselling; esse gli permettono di evitare i due rischi più comuni nella comunicazione con il malato: la sostituzione e l’identificazione. Nella relazione questi rischi si traducono in un profluvio di consigli improvvidi oltre che inapplicabili o in una presunta quanto impossibile dichiarata condivisione della sofferenza. Evocare la memoria significa consentire la narrazione (o le narrazioni) dell’indicibile; significa aiutare il malato a riordinare almeno in parte il caos con i propri strumenti.
    La memoria narrata diventa cura. Come osserva Arthur Frank, parlando di una sua personale esperienza di malattia:
    “La malattia frantuma la vita in tutti i suoi aspetti: l’io, le relazioni personali e quanto la persona avverte come correlato al cosmo, porti esso il nome di Dio, di fato o di universo fisico. Per guarire occorre trovare un nuovo equilibrio, un nuovo senso di chi siete in relazione alle vostre forze e alle persone che vi circondano. Guarire significa raccontare una nuova storia della vostra vita. (…) La medicina tratta le malattie più che curarle. Il trattamento è somministrato; curare significa stare con l’altro, nel senso in cui due persone stanno insieme. Molte persone che sono state seriamente malate hanno esperienze multiple di violenza: l’indifferenza degli operatori, l’abbandono da parte degli amici, l’imbarazzo dei familiari e, troppo spesso, il biasimo della équipe medica quando le cose vanno male. Queste ferite –reali o immaginate- richiedono una storia che le renda esplicite, pubbliche, perché finché rimangono chiuse nella vostra immaginazione, suppurano e avvelenano” (Frank, 1995).

    Si scopre così una importante verità: per dimenticare è necessario ricordare, tradurre cioè il ricordo caotico e indistinto in storia narrata. Il ricordo nascosto, non riportato alla memoria, non raccontato “suppura e avvelena”. Per raccontare una nuova storia della vita, per inoltrarsi cioè nel mondo nuovo ed ignoto del “dopo” occorre mettere da parte rimpianti e rancori e storie più e più volte narrate di perdita definitiva o di soprusi subiti: tutti fattori che trattengono, frenano, impediscono l’esplorazione. Oltrepassare la linea d’ombra è difficile: ciò che è noto, pur se negativo e doloroso, è in qualche modo anche rassicurante: è una sofferenza, ma una sofferenza che si conosce bene. Il medico, come del resto ogni altro portatore di cura, professionale o no, ha il compito in questo momento cruciale di “stare con l’altro nel senso in cui due persone stanno insieme”.

    La memoria narrata, che è già di per sé strumento di cura, lo diventa a maggior ragione se la persona a cui la storia è raccontata è in grado di facilitare, di guidare il racconto: che può allora arricchirsi e divenire narrazione condivisa, co-costruita. Il passato diventa in tal modo creativo e vitale, non semplice cumulo di ricordi e di memorie morte. Diviene possibile, per citare Baudelaire, tuffarsi in fondo all’ignoto per trovare del nuovo.


    BIBLIOGRAFIA

    M. Atwood, L’altra Grace, Milano, Baldini e Castaldi, 1997.
    A. W. Frank, The wounded storyteller, Chicago, The University of Chicago Press, 1995.
    M. Kundera, La musica di Mahler sotto l’occhio del boia, La Repubblica, 23 ottobre 2007.
    A. Oliverio. Memoria e oblio, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003.


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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