Écritures relationnelles autopoïétiques
Orazio Maria Valastro (sous la direction de)
M@gm@ vol.5 n.4 Octobre-Décembre 2007
IL MITO DI HESTIA
(Traduzione Carlo Milani)
Magalì Humeau
magali.humeau@wanadoo.fr
Dottoranda in Scienze dell'Educazione
all'Università degli Studi di Pau - Pays de l'Adour, sotto
la direzione di Frédérique Lerbet Séréni; Formatrice e consulente
al Cafoc di Poitiers, Francia; Membro del Grepcea (Gruppo
di Ricerca sui Fenomeni Complessi dell'Insegnamento e dell'Apprendimento);
Membro del CRAI (Circolo di Ricerca in Antropologia dell'Immaginario),
Angers, Francia.
“È
noto che ogni mito è una ricerca del tempo perduto”
Claude Levi-Strauss [1]
Mi sono imbattuta nel mito di Estia circa un anno fa, leggendo
il testo di Jean-Pierre Vernant sull'organizzazione dello
spazio presso i Greci. Tuttavia, sei anni fa, avevo letto
un'opera di Michel Serres che si conclude con un inno ad Estia:
“La statua di Estia”[2].
Mi rivedo mentre leggo Statue, su un bus parigino, Avenue
de Versailles. All'epoca ero studente di belle arti, presso
l'atelier di scultura. Di quell'opera mi aveva colpito la
questione dell'oggetto affrontata attraverso la statuaria,
e la sua relazione con il soggetto. Si trattava anche, e soprattutto,
della questione della morte, poiché il termine “oggetto”,
dal latino ob e jactare, etimologicamente designa ciò che
viene gettato davanti a sé, ciò che cade al suolo e non è
in grado di rialzarsi da sé, opposto a “soggetto”, da sub
e jactare, gettare sotto.
La statua è in questo senso un oggetto per eccellenza, primariamente
pietra tombale o stele. Immobile, punto fisso nello spazio,
tempo fermato. La statua individua un luogo, quello dei corpi
sotterrati, quello della nostra origine e della nostra morte,
determinazioni della nostra vita. Non mi ricordo di aver letto
quell'ultimo capitolo dedicato ad Estia.
Ho ritrovato in un quadernetto queste righe, apparentemente
anodine, scritte all'incirca quello stesso anno: “Sulla terrazza
panoramica del Beaubourg, questa domenica pomeriggio, osservo
una bimba che si diverte, girando fra i tavoli dove sono seduti
i turisti, fa avanti e indietro, andando dal padre all'altra
estremità del luogo. Torna sempre dal padre, riferimento,
come il mare è per il poeta il luogo dove si ritorna per morire.
In queste due situazioni, sebbene molto diverse, si ritrova
la medesima relazione al luogo”[3].
Queste righe sono in consonanza con il mito di Estia perchè
sono avviluppate allo stesso modo da un immaginario del quale
tracciamo diversi percorsi di senso.
La storia di Estia
Estia[4] è figlia maggiore
di Crono e Rea, entrambi figli di Gaia e Urano. Molto prima
di loro, all'inizio del Mondo, c'era Caos, un enorme abisso,
un grande buco nero che occupava tutto lo spazio. In questi
primi tempi tutto era confusione, c'era notte permanente,
non si distingueva nulla. Poi è comparsa Gaia, il nome che
i Greci danno alla Terra, nata da Caos. Gaia è la prima forma,
il suolo stabile sul quale le cose potranno esistere. “Lei
è il basamento del mondo”[5].
Lei è anche la prima madre, “Terra dal vasto petto”[6],
quindi la madre di tutto e di tutti. Con l'intermediazione
di Eros, Amore, che è come una forza di spinta nell'universo,
darà vita ad Urano che premerà in lei come essa stessa è cresciuta
in Caos.
Urano è dunque figlio di Gaia. È il Cielo, l'uguale della
Terra e la copre sempre. Lei è il basamento e lui la volta.
La ricopre totalmente e non cessa di unirsi a lei. Gli esseri
che nasceranno dall'unione di questi due contrari, Terra e
Cielo, femminile e maschile, saranno differenti dagli esseri
che esistevano fino a quel momento. L'amore diviene sessuato
e Urano non fa altro che unirsi a Gaia. Ma coprendola in permanenza,
i figli che generano non possono vedere il giorno e restano
chiusi nel grembo della madre. L'ultimo nato è Crono. Esiodo
ci dice che “odiava la fertilità del padre”[7],
e che Urano, preoccupato esclusivamente del proprio piacere,
odiava i propri figli.
Di fronte a questo oltraggio perpetrato alla loro progenie
e a lei stessa, Gaia concepisce uno stratagemma e domanda
ai figli di rispondere. Crono le dice: “Madre, io compirò
l'atto, te lo prometto, senza rispettare l'ignobile nome di
nostro padre, che per primo trama questi atti infami”[8].
Così Gaia inventa l'acciaio, ne fa una grande falce e la consegna
a Crono. Nascosto nelle pieghe della madre, mentre ancora
una volta il padre si univa a lei, Crono taglia il sesso del
padre. Dalle gocce di sangue che si sparsero sulla Terra nacquero
le Erinni, dee vendicatrici di tutti i parricidi.
Mentre Urano nascondeva i suoi figli per puro odio, Crono
da parte sua diffidava dei suoi. Dopo aver preso il posto
divino del padre, temeva che un giorno arrivasse il suo turno
di essere soppiantato da uno dei suoi figli. Rea, ugualmente
figlia di Gaia e di Urano, gli diede molti figli. Appena nati,
Crono, per restare solo e in pace sul trono divino, li divorava
uno dietro l'altro: così fece con Demetra, Estia, Era, Ade.
Rea non poteva sopportare di vedere i propri figli scomparire
nel ventre del padre, insaziabile e timoroso di essere detronizzato.
Dietro consiglio del padre Urano e della madre Gaia, Rea nasconde
la nascita dell'ultimo, Zeus, e al suo posto dà allo sposo
una pietra, che egli ingoia senza fare una piega. Ma il suo
stomaco non poté resistere a quel peso e fu costretto a vomitare
la pietra e di seguito i figli, uno dopo l'altro. L'ultimo
ingoiato fu il primo ad uscire, subito dopo la pietra. Così
Estia fu la prima a rivedere la luce una seconda volta, questa
volta nata non dal ventre materno ma dallo stomaco di quell'orco
di suo padre[9].
Estia è quindi sorella di Zeus. Al momento della sua prima
nascita, come i suoi fratelli e sorelle immediatamente trangugiati
dal padre, viene strappata a sua madre dal padre, che la inghiotte.
Poi viene strappata una seconda volta, a suo padre, liberata
dal gioco come una seconda nascita/separazione, con la partecipazione
della complicità materna. Fin qui la genealogia. Dopo una
serie di peripezie, una volta saldamente installato sul trono,
Zeus distribuisce il potere agli dei della sua generazione
e di altri lignaggi, precipitando gli altri nel fondo del
Tartaro. In cambio del suo voto di castità, Zeus accorda ad
Estia la cura del focolare, ossia del fuoco addomesticato
al centro delle case, quello che scalda i corpi e cuoce i
pasti, il fuoco che nutre. Perciò, al pari di Ermes, Estia
non abita sull'Olimpo come la maggior parte degli dei, ma
sulla Terra, fra gli uomini. Ella ha lo statuto di vergine
eterna, resistendo alle armi della seduzione e alla tentazione
del matrimonio.
Estia, dea silenziosa e immobile
Ci sono pochi racconti su Estia. Viene evocata molto rapidamente
da Esiodo nella Teogonia e negli Inni orfici. In Le Metamorfosi
Ovidio nomina Vesta, che è l'equivalente latino di Estia.
Ma si può parlare di “mito di Estia” se questa dea non viene
narrata, o molto poco? È attraverso i suoi silenzi che Estia
si rende presente. Secondo me essi manifestano una presenza/assenza.
Cosa nasconde? Se non parla, è perchè non ha nulla da dire?
O perchè non può parlare? Dice ciò che deve dire attraverso
i suoi silenzi? Dice ciò che non dice, ciò che nasconde? Cosa
nasconde il fuoco sacro del focolare, che essa cura e preserva?
È tutta un blocco, non si dispiega, non si distende. È una
statua, tale e quale la vergine Maria che è altrettanto in
silenzio, associata a suo figlio e non al suo sposo. Donna
vergine che da un figlio al padre di tutti ma senza sporcare
di sangue un imene.
È peculiare del mito dire ciò che non può essere detto. “Muthos”
significa inizialmente “Discorso, parola”. In seguito “favola,
racconto non storico, racconto, leggenda”. Ciò che non si
può dire direttamente, con un discorso chiaro e ordinato,
ma che si dà ad intendere attraverso altre vie e altre forme[10].
Così il mito di Estia è doppiamente un mito: come ogni mito,
dice con racconti leggendari ciò che non può essere detto
con un discorso ragionato, ma non parlando direttamente di
Estia, racconto non dicendo. Parla senza parlare. Estia è
silenziosa come tutte le statue[11].
Non è logos e si oppone in questo ai “monoteismi della parola”[12]
che, secondo Michel Serres, hanno preso il posto delle statue
e del senso di silenzio che esse instaurano.
Il silenzio parla il linguaggio delle pietre, della scatola
nera e della morte. Il nome proprio di Estia e il nome comune
della statua “significano insieme immobilità, fissità, invarianza,
stabilità”[13]. Le statue
sono il riferimento dell'erranza, il punto fisso attorno al
quale si fondono e si raccolgono i sentieri. Estia è “colei
che rimane”[14].
Estia, una figura spaziale
Jean-Pierre Vernant sottolinea che le rare volte in cui Estia
viene rappresentata, fa coppia con Ermes. La relazione non
è fondata su legami di sangue o di matrimonio, ma sulla complementarietà
delle loro funzioni. Entrambi residenti sulla terra, vicino
agli uomini: Estia al centro dell'habitat miceneo, segnato
dal focolare circolare, ed Ermes sulla soglia della casa,
nei viaggi e negli spostamenti. Attraverso la loro relazioni
essi esprimono la concezione greca dello spazio. Se Estia,
rimanendo nel mezzo della casa[15],
rappresenta il “punto fisso, centro a partire dal quale lo
spazio umano si organizza”[16],
Ermes, compagno dei mortali, “rappresenta, nello spazio e
nel mondo umano, il movimento, il passaggio, il cambiamento
di stato, le transizioni, i contatti fra elementi estranei”[17].
Ermes ed Estia sono così indissociabili nel pensiero dello
spazio greco. L'uno non può darsi senza l'altro, poiché il
cambiamento non può essere percepito al di fuori della permanenza,
e viceversa. Inoltre, lo spazio in gioco in queste figure
mitiche è uno spazio globale, con dimensioni multiple, domestiche,
geografiche, sociali e sacre. Ermes, messaggero, è il mediatore
tra gli dei e i mortali grazie al linguaggio. Estia, “essenza
fissa e immutabile”[18],
pone inoltre in contatto fra loro gli dei, in particolare
la Terra-Madre Gaia, ma collocando in mezzo ai mortali la
permanenza, questa essenza divina, che non può mai essere
colta nella sua totalità, pena la mortificazione dello spazio,
anzi della donna stessa.
Estia, vergine e madre
Estia, punto centrale e fisso della casa, rappresenta quindi
la permanenza spaziale. Casa in greco si dice oikos, parola
che designa l'habitat e il gruppo umano che risiede. Estia
è anche un nome comune che indica il focolare. Lo statuto
verginale di Estia, legato all'oikos, aggiunge una dimensione
temporale e sociale alla permanenza spaziale. Accedendo al
matrimonio, la donna cambia di focolare, si integra in un
gruppo estraneo e dà la nascita. Restando vergine, lei rimane
presso la propria casa natale, uguale a lei, e non accede
alla mobilità propria della donna che per sposarsi deve cambiare
di focolare. Più precisamente, secondo Vernant, lei incarna
il sogno greco di un'eredità puramente paterna, ossia che
non faccia appello al sangue di una donna straniera che viene
da un altro focolare. Accanto a questo statuto verginale,
Estia appare anche come madre nutrice, che presiede ai pasti.
Lei appartiene al lignaggio delle dee madri di cui si ritrova
l'invocazione perfino nella preistoria, alle quali si fanno
offerte all'inizio e alla fine del pasto, riti diventati la
benedizione dei Cristiani[19].
Secondo Vernant, questi due aspetti di Estia, vergine e madre,
sono disgiunti nella pratica umana[20].
Ora, questa disgiunzione non è forse relativa alla nostra
concezione occidentale di verginità, che esige la castità?
Nel suo antico significato, una vergine non è necessariamente
una donna che ha fatto voto di castità[21],
bensì una donna non sposata[22],
celibe, indipendente, come le druidesse che incarnano la “Grande
Vergine-Madre senza la quale nulla sarebbe”[23].
In molte società tradizionali la donna, sia essa divina o
mortale, può cumulare questi due statuti di vergine e madre.
Dumézil individua nell'associazione tra le figure mitiche
della vergine e della prostituta una costante che si ritrova
in un gran numero di miti. E la vergine può anche essere vista
come colei che, non essendo sposata, non ha legami, anzi dispone
anche della libertà nella scelta dei genitori e dei figli[24].
Ma c'è di più, come scrive Bernard Sergent: “l'unione sessuale
e l'astinenza non sono considerati, nella mentalità antica,
in opposizione, come invece lo sono dopo la diffusione delle
idee del cristianesimo; rappresentano invece due forme di
comportamento nei confronti della fecondità: la donna vergine
conserva la propria potenza generatrice, la donna che si unisce
ad un uomo la mette in atto”[25].
La figura della vergine non è dunque da opporre ad ogni idea
di fecondità, al contrario, essa mantiene una potenza di procreazione.
È proprio in quanto vergine che Estia può apparire come potenza
di fecondità. Queste due figure femminili rappresentate da
Estia, vergine e madre, antagoniste agli occhi di noi occidentali,
rimandano da una parte alla preservazione della purezza della
razza paterna e dall'altra al mantenimento della sua salute.
Vernant vede nell'epiclerato, istituzione dell'India antica
e poi della Grecia antica, la conciliazione di queste due
figure. In effetti, l'epiclerato consiste per un padre che
non ha avuto figli nel domandare alla propria figlia, detta
allora “epiclera”, di dargliene uno, il quale potrà compiere
la sua cerimonia funebre ed erediterà il kleros, ovvero la
proprietà terriera. Questa istituzione permette pertanto di
assicurare la continuità del lignaggio. Così il nonno è autorizzato
ad essere il padre di suo nipote, il figlio diventa il fratello,
la madre diventa la sorella di suo figlio, ecc. E la figlia
epiclera della casa può sposarsi solo dopo la morte del padre
e con un membro della sua famiglia paterna che il grado di
parentela autorizza[26].
Lei è tenuta a restare nel focolare paterno, che incarna,
cosa che implica per il suo sposo il cambiamento di focolare,
cioè lasciare quello del suo lignaggio per diventare straniero
a casa sua[27]. Questo
statuto di straniero nel proprio focolare è normalmente femminile,
nega la parte maschile dello sposo, poiché il suo lignaggio
non può esistere, assorbito da quello del padre della sua
donna la cui figura di sposa è negata in favore di quella
di figlia.
Così Estia, preservando il focolare, punto fisso socio-spazio-temporale,
protegge in primo luogo il lignaggio maschile. Lei s'incarna
nelle figlie vergini/madri che restano sotto il tetto paterno.
Se la sposa è abitualmente la guardiana, resta però straniera
nella sua casa. La figlia è la migliore garante perchè ha
lo stesso sangue del lignaggio paterno, stabilizza questo
sangue, e in quanto “vergine” è guardiana del fuoco sacro
e della procreazione a venire. Ma se l'epiclerato garantisce
la stabilità del lignaggio, nello stesso tempo mantiene il
Caos originario, poiché la figlia vergine resta nel prolungamento
di suo padre, assumendo un luogo spaziale definito ma senza
un posto genealogico fissato. Fissità da una parte, dunque,
erranza dall'altra...
Con l'epiclerato è la legge che permette l'attribuzione a
ciascuno del proprio posto nella famiglia che viene valorizzata,
dal momento che si tratta di rinforzare il lignaggio paterno.
Ma questo implica lo sconvolgimento dei luoghi e dunque la
trasgressione di questa legge. L'epiclerato impone la trasgressione
della legge simbolica che vuole,dopo lo stato caotico dell'indifferenziato,
espresso nella cosmogonia greca, che gli esseri trovino il
loro nome e la loro identità, distinta da quella degli altri.
Così al Caos primordiale, dove tutto era confuso, un principio
separatore, Eros, distribuisce i posti e i ruoli di ciascuno.
Gaia genera Urano che si mescola a lei, poi si separa da lei
per volontà della stessa Gaia e del loro comune figlio Crono,
che a sua volta assorbe i propri figli, che in seguito saranno
separati da lui, ecc. “La legge fondatrice del soggetto è
questa cesura necessaria - la castrazione simbolica - al di
fuori della quale non potrebbe verificarsi l'emergenza del
desiderio né della parola”[28].
Da Estia, silenziosa, la parola non emerge. La sua vicenda
è ambigua: appartiene alla seconda generazione degli dei,
quella che ha lottato contro Crono, il padre che li divorava,
che aveva lottato contro Urano, che teneva i suoi figli nel
grembo della terra. Ebbene, nonostante la sua seconda nascita,
che può essere vista come la giusta ripartizione fra gli dei
della generazione di Zeus, Estia ritorna alla confusione paterna.
In questa mitologia, sembra che la legge simbolica della separazione
non sia rappresentata dal padre, come propone la psicanalisi,
ma dalla madre, Gaia e poi Rea, che deve lottare contro l'onnipotenza
paterna. Imbert[29] precisa
che la legge simbolica deve rispondere dell'incontro con l'altro,
il differente, il terzo simbolico. Estia si contrappone precisamente
a questo incontro, contrariamente ad Ermes che favorisce gli
scambi, poiché l'epiclerato cerca di preservare la purezza
della razza, cioè il mantenimento della perennità del lignaggio
senza il ricorso al sangue straniero della sposa.
Questa legge fondamentale si rifà al nomos che significa “ciò
che viene attribuito in sorte”[30].
È la giusta separazione fra le generazioni. La legge è anche
un punto fisso, qualcosa di permanente, di universale. Estia
incarna per questo, contemporaneamente, la legge e la sua
trasgressione. E non c'è grande distanza fra la trasgressione
di questa legge simbolica e la trasgressione dell'incesto.
Così il mito di Estia muta, può essere visto come il pendant
femminile di quello di Edipo, cieco, che è contemporaneamente
figlio e sposo di Giocasta, la madre/sposa[31].
Ma il mito di Estia sembra “cieco” nei confronti di questa
trasgressione. Edipo prende coscienza, parla e vede a tal
punto questa trasgressione che si acceca da solo, in un atto
di auto-castrazione. Estia invece rimane silenziosa. La voce,
l'organo che ci permette di dire e di dirci, di differenziarsi
e di trasmettere il sapere, le manca. Ma se non parla, almeno
vede? Cosa vede? Cosa sa?
NOTE
1] Levi-Strauss C. (1958-1974), Anthropologie
structurale, Paris, Librairie Plon, 1985, p.480 (p.234).
2] Serres M. (1987), Statues, Paris, Flammarion,
p.346 (pp.343-346).
3] Annotazioni su un quaderno, intorno al
1990.
4] I Greci la chiamano a volte anche Istia,
e i Romani Vesta.
5] Vernant J.-P. (1999), L’univers, les dieux
et les hommes, Paris, Editions du Seuil, p.247 (p.16).
6] Esiodo (1999), La théogonie, tradotto
da Philippe Brunet, Paris, Librairie Générale de France, pp.27-63
(p.31).
7] Ivi, p.32.
8] Ivi, p.33.
9] Vernant, L’univers, les dieux et les hommes,
cit., p.238.
10] Lerbet-Sereni F., Les sciences humaines:
quels savoirs de/par/pour l’Homme?, in attesa di pubblicazione.
11] Serres, Statues, cit., p.343.
12] Ibidem.
13] Ivi, p.345.
14] Ibidem.
15] Vernant cita Macrobio, L’univers, les
dieux et les hommes, cit., p.157.
16] Ibidem.
17] Ibidem.
18] Ivi, p.200.
19] Mandon T. (2001), Feu et vestales, in
Les origines de l’arbre de mai, dans la cosmogonie runiques
des Atlantes boréens, consultato su Internet: https://racines.traditions.free.fr/feuvesta/feuvesta.pdf.
20] Vernant, L’univers, les dieux et les
hommes, cit., p.175.
21] Si veda l'articolo all'indirizzo web:
https://racines.traditions.free.fr/deevino/index.htm.
22] In questo senso, Maria non è vergine.
23] Si veda l'articolo all'indirizzo web:
https://racines.traditions.free.fr/deevino/index.htm.
24] Ibidem.
25] Sergent B. (2004), Le sacrifice des femmes
Samnites, in La fête: la rencontre des dieux et des hommes,
Mozeyer Michel, Paris, L’Harmattan, p.320 (pp.229-291), p.280.
26] Vernant, L’univers, les dieux et les
hommes, cit., p.176.
27] Si veda a tal proposito il personaggio
di Egisto nell'Agamennone di Eschilo.
28] Imbert F. (1998), La construction de
la loi, in Construire la loi à l’école, Clermont-Ferrand,
CRDP d’Auvergne, pp.99-107 (p.100).
29] Ibidem.
30] Ibidem.
31] Jung ha proposto l'espressione “complesso
di Elettra” come simmetrico al complesso di Edipo, indicando
la relazione d'amore della figlia verso suo padre e la rivalità
verso la madre. Freud si è opposto a questa simmetria, dichiarando
che questo complesso è proprio del bambino (Laplanche et Pontalis,
1967, Vocabulaire de la psychanalyse, PUF, 1988). Secondo
Vernant, “Estia si esprime per bocca di Elettra” (1996, p.
168). Ma senza dubbio bisognerebbe anche ascoltare Ifigenia,
sua sorella, sacrificata dal padre Agamennone sull'altare
di Artemide, in cambio del soffio di vento necessario per
arrivare a Troia via mare; e anche Clitemnestra, la sposa
che si rivbella a causa di questo infanticidio, che si vendica
prendendosi il focolare del marito per renderlo proprio.
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