Écritures relationnelles autopoïétiques
Orazio Maria Valastro (sous la direction de)
M@gm@ vol.5 n.4 Octobre-Décembre 2007
RACCONTI CHE FANNO ESISTERE
Federico Batini
direzione@pratika.net
Laureato in lettere (Univ. di
Firenze) e in Scienze dell’Educazione (Univ. di Siena), Master
in Gestione Processi formativi, Phd in Pedagogia e Scienze
dell’Educazione (Università di Padova); attualmente Professore
a contratto di Sociologia dei processi economici e del lavoro
presso la Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università
di Firenze, già Professore a contratto di Metodi e Tecniche
di progettazione nella formazione presso la stessa università,
già professore a contratto presso la Scuola di specializzazione
Interuniversitaria per Insegnanti e presso la Scuola di Specializzazione
per Insegnanti di sostegno e presso Master etc; Direttore
di PratiKa (agenzia formativa) e di NausiKa (consorzio di
associazioni culturali), Partner e senior consultant di Thélème
s.r.l., Presidente nazionale di COFIR, membro della Segreteria
Nazionale del Forum Permanente per l'Educazione degli Adulti
(FORUMEDA www.edaforum.it) e coordinatore nazionale per l’area
comunicazione.
N.O.F.:
muri che parlano [1]
N.O.F. nasce a Roma nel 1927 da Concetta Nannetti e da padre
sconosciuto. N.O.F. è un acronimo che sta per Nannetti Oreste
Ferdinando. Dopo le elementari, cominciate in un istituto
privato, fu accolto, a soli sette anni, in un istituto di
carità, dal quale, tre anni dopo, a soli dieci anni, fu trasferito
in una struttura per minorati psichici. Per un lungo periodo
fu ricoverato anche all’ospedale Forlanini di Roma per curare
una grave forma di spondilite (la spondilite è una forma d'infiammazione
alla spina, una patologia reumatica cronica ed autoimmune
che porta all’infiammazione delle cartilagini articolari nei
punti di fusione delle articolazioni tra loro, può giungere
sino a bloccare le articolazioni e che oggi è curata farmacologicamente,
attraverso i FANS di ultima generazione, con buoni risultati
in caso di diagnosi precoce ma che al tempo costituiva un
forte impedimento motorio e una presenza ricorrente di dolori
anche notevoli).
In questi anni non si hanno documentazioni relative alla sua
vita fino al 1948 anno in cui viene emessa una sentenza di
proscioglimento, a Roma, di Nannetti dall’accusa di oltraggio
a pubblico ufficiale per “vizio totale di mente”. Nel 1958
fu trasferito dall’Ospedale Psichiatrico di Santa Maria della
Pietà di Roma a quello di Volterra (lo stesso dove fu ospitato
anche Dino Campana), dove l’anno successivo passò alla sezione
giudiziaria Ferri (una struttura nella quale si arrivò sino
a contenere 6.000 “indesiderabili” e nella quale morirono
per “cure” migliaia di persone, dove venivano rinchiusi anche
gli anarchici o coloro che avevano qualche sintomo di depressione,
una struttura con venti lavandini e due water ogni duecento
degenti), per scontare una condanna di due anni. Nel 1961
fu trasferito alla sezione civile Charcot, per poi tornare,
tra il 1967 e il 1968, all’ex giudiziario Ferri, fino al suo
trasferimento per dimissione all’Istituto Bianchi nel dicembre
del 1973.
Durante il ricovero a Volterra, Nannetti ha realizzato un
“libro graffito” realizzato nel muro del reparto Ferri. Lungo
180 metri per un’altezza media di due, inciso con fibbie di
panciotto, parte della divisa del matto di Volterra. Il suo
libro, in cui narra di una storia e di una geografia, di una
chimica e di un’astronomia chiaramente parallele alla nostra,
in cui periodicamente lui stesso appare. La grandiosità del
suo discorso ci trasporta in una dimensione dell'immaginario
nel suo ragionare di tecnologie, di pianeti, di eventi storici
immaginari. Ma anche verso il meraviglioso, attraverso diagrammi
quasi alchemici, in cui vengono associati metalli, figure
geometriche, colori, numeri, creando una sorta di “scienza
delle corrispondenze” che ci riporta agli albori della scienza
occidentale, ma si fonde con le tecnologie contemporanee.
In seguito realizzò un altro graffito sul passamano in cemento
di una scala di 106 metri per 20 cm.
Negli anni dell’internamento scrisse diverse cartoline mai
inviate a parenti immaginari. Qui compare la firma Nanof o
Nof, talvolta Nof4 e dichiarazioni d’identità. Nannetti si
definisce: colonnello astrale, ingegnere astronautico minerario,
scassinatore nucleare. I testi di Nannetti raccontano di conquiste
di stati immaginari da parete di altre nazioni immaginarie,
di voli spaziali, di collegamenti telepatici, di personaggi
fantastici, poeticamente descritti come alti, spinacei, naso
ad Y, di armi ipertecnologiche, di misteriose combinazioni
alchemiche, delle virtù magiche dei metalli, ecc. In seguito,
fornito di carta e penna, produrrà circa 1.600 lavori.
Nannetti, figlio di ignoti, non aveva studiato, l’unica istruzione
certamente documentata è quella dei primi anni delle scuole
elementari, e forse l'unica esperienza culturalmente significativa
da lui fatta era stata il lavorare come elettricista per il
futurista Severini, impegnato nella realizzazione di un mosaico
in un palazzo dell’EUR, il quartiere fascista di Roma negli
anni ‘30 del ‘900. Nel 1984, dietro autorizzazione del comitato
di gestione della U.S.L. 15, viene pubblicato un volume, N.O.F.
4 Il Libro della Vita (Ed. del Cerro - a cura di M. Trafeli,
trascrizioni di A. Trafeli, foto di P. Manoni - 1985), che
include documentazione fotografica e testi “tradotti” del
graffito e delle cartoline e stabilisce un compenso per l’autore:
due milioni, concordati come una tantum.
Nannetti non apprezzò particolarmente il gesto. Ben più contento
fu dell’articolo pubblicato sull’Espresso (14 settembre 1986)
da Antonio Tabucchi, intitolato Caro muro ti scrivo, come
riportato nel numero monografico - numero II del 1995 - di
Neo Psichiatria (Edizioni del Cerro): Esistere nella follia,
dedicato proprio ai lavori su carta di Nannetti. Nel 1985
è stato girato il film L’osservatorio nucleare del signor
Nanof, per la regia di Paolo Rosa e la produzione di Studio
Azzurro.
Nel 1993 la compagnia teatrale Aenigma di Urbino, diretta
da Vito Minoia, realizza uno spettacolo teatrale con musiche
originali dal vivo di Luciano Dani. Il 29 giugno 1996 viene
organizzato il convegno Arte e malattia mentale all’Istituto
di Scienze Umane di Napoli. Nel 2002 Erika e Piernello Manoni
realizzano il documentario I graffiti della mente. Sempre
nel 2002 viene prodotto dal Circolo Freaks di Napoli, con
la regia di Giuseppe de Vita, il cortometraggio Graffiti,
liberamente ispirato alla figura di Nannetti.
Nannetti Oreste Fernando è morto a Volterra il 24 novembre
1994. Il graffito del Ferri è ormai in totale disfacimento.
La balaustra è stata abbattuta. I lavori cartacei bruciati
in quanto effetti personali dopo la morte di Nannetti, in
assenza di parenti a cui inviarli. Fortunatamente erano stati
in precedenza fotocopiati.
"Ti mando alcune notizie che nel sistema telepatico mi sono
arrivate, che vi paiono strane, ma che sono vere"
Nannetti scrive un capolavoro, le interpretazioni del suo
immenso graffito, di quest’opera ciclopica sono le più svariate,
quello che è certo è che Nannetti esiste attraverso i suoi
graffiti ed i suoi scritti, avendo un’esistenza negata la
afferma attraverso un atto artistico e di volontà insieme
che fa salire i brividi. Documenta la violenza ed i crimini
ai quali ha assistito con immagini di poetica crudeltà: 10%
deceduti per percosse magnetico-catodiche, 40% per malattie
trasmesse, 50% per odio, mancanza di amore e affetto. Nannetti
era finito al Ferri da Roma, non si sa come, il suo desiderio
di espressione non fu fermato da 30 anni di elettroshock.
Scrive Adolfo Fattori nel numero, citato, dei Quaderni d’altri
tempi, ricordando le sue impressioni alla vista, nel 1994,
del graffito ancora pressoché interamente visibile: “le fitte
righe del testo di cui è composto, con i disegni e le illustrazioni
che lo interrompono ogni tanto danno l’idea di un flusso ininterrotto
di parole, di suoni, di immagini. Un’enciclopedia del mondo
trattata quasi come dialogo interiore, e comunicata a questo
stesso mondo con urgenza, magari disordine, comunque determinazione”.
Ma è Lara Fremder, nello stesso numero monografico, che ci
porta in direzione dell’interpretazione, vera o no che sia,
della quale vogliamo abusare qui: “Forse è andata così, è
andata che un uomo apparentemente senza storia cerchi di scriversene
una e che per farlo scelga un muro, un grande muro, una superficie
di 180 metri, l’intera facciata di un ospedale psichiatrico.
E che cominci così a scrivere e a disegnare e a ordinare tutto
dentro pagine graffiate con forza sulla parete”. E allora
si giustifica il titolo, di questo contributo: Nannetti scrive
per esistere per lasciare, certo, qualcosa, per rompere un
muro, ma, primariamente graffia il muro per esistere. Racconta
una storia, racconta ciò che vede (che si tratti di vista
nel senso comune o della vista ulteriore), racconta, in fondo,
se stesso.
Nannetti ha raggiunto lo scopo, in effetti, l’esistenza negata
gli è stata riconsegnata, piano piano molti si stanno occupando
di lui, del suo lavoro, della sua esistenza. Si è costruito
un’identità che gli era stata negata dalla violenza dell’istituzione
manicomiale (come non pensare a Foucault?). Il muro poi, la
scelta, incredibile, di comporre un enorme opera in un muro,
graffiandolo con arnesi di fortuna quali le fibbie del panciotto
della divisa manicomiale, la fatica, la forza fisica che ci
vuole, al di là delle intenzioni (gli sono state attribuite
anche capacità di comunicazione con gli alieni) appare proprio
come un’affermazione di identità “nonostante tutto”.
Un’identità peraltro rispettosa, ad un’urgenza così forte,
corrisponde la delicatezza estrema, Nannetti alla domanda
dei medici (che arrivò dopo circa dodici anni d’internamento)
sul perché il suo graffito, in alcuni punti saliva e scendeva,
come a formare delle onde, rispose che NOF4 non se la sentiva
di chiedere agli altri pazienti di spostarsi dal muro dove
si appoggiavano per farsi scaldare dal sole.
Esiste come una narrazione interna per la quale ognuno di
noi si racconta, si narra continuamente chi è, mentre è: una
meta- narrazione che consente di costruirsi un’identità, questa
narrazione ha bisogno di conferme e feedback sociali, proprio
nell’assenza, nell’impossibilità (o peggio, nella negazione)
si rintraccia il bisogno assoluto di questa narrazione. A
Nannetti, artista senz’altro, chiediamo in prestito l’opera
per questa metafora identitaria.
Una frenetica loquacità
Oliver Sacks a questo proposito esemplifica mirabilmente parlando
di un paziente affetto da sindrome di Korsakov: “… il signor
Thompson … era ancora in un delirio di loquacità quasi frenetica
… e creava di continuo un mondo e un sé in sostituzione di
ciò che andava di continuo dimenticato e perduto. … Un tale
paziente deve letteralmente inventare se stesso (e il proprio
mondo) ad ogni istante. Ognuno di noi ha una storia del proprio
vissuto, un racconto interiore, la cui continuità, il cui
senso è la nostra vita. Si potrebbe dire che ognuno di noi
costruisce e vive un “racconto”, e che questo racconto è noi
stessi, la nostra identità”[2].
Infatti, è la storia di ognuno che ci fa differenti e che
ci rende unici, dal punto di vista biologico e fisiologico
le nostre differenze non sono poi così rilevanti, ognuno di
noi è quindi un racconto, “… costruito di continuo, inconsciamente
da noi, in noi e attraverso di noi - attraverso le nostre
percezioni, i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre
azioni; e non ultimo, il nostro discorso, i nostri racconti
orali”[3].
Il procedimento di riconoscimento del senso e della coerenza,
della continuità di questo racconto, della sua adeguatezza
si configura come narrazione sulla propria narrazione, un
procedimento tipicamente metacognitivo. Un duplice senso quindi
in cui si intersecano autoefficacia, narrazione ed orientamento
con valori entrambi metacognitivi:
- la conoscenza sulla conoscenza che consente la trasmissione
culturale, quindi una peculiarità dei modi di apprendere,
di conoscere la realtà, di rappresentarsela;
- la conoscenza di se stessi, la conferma del sé, quindi la
costruzione dell’identità, del progetto, la fiducia sulla
propria capacità di azione e di modifica nel mondo.
La letteratura sul tema dell’identità si è domandata, negli
ultimi anni, se non stessimo assistendo ad una crisi dell’identità,
ad una specie di restringimento della stessa, l’identità personale,
già secondo Cristopher Lasch, rischiava di diventare un lusso:
“In un’epoca di turbamenti la vita quotidiana diventa un esercizio
di sopravvivenza. Gli uomini vivono alla giornata, raramente
guardano al passato, perché temono di essere sopraffatti da
una debilitante “nostalgia”, e se volgono l’attenzione al
futuro è soltanto per cercare di capire come scampare agli
eventi disastrosi che ormai quasi tutti si attendono. In queste
condizioni l’identità personale è un lusso … . L’identità
personale implica una storia personale, amici, una famiglia,
il senso di appartenenza ad un luogo. In stato d’assedio l’io
si contrae, si riduce a un nucleo difensivo armato contro
le avversità. L’equilibrio emotivo richiede un IO MINIMO,
non l’io sovrano di ieri …”. Lasch ed altri analisti, in accordo
con lui, individuano quindi una difficoltà nella costruzione
dell’identità dovuta ad una specie di atteggiamento di difesa
da parte di ogni soggetto rispetto a tensioni della contemporaneità.
Baumann ha definito questi anni un tempo di deregulation.
“Ciò non significa, però, che gli ideali di bellezza, pulizia,
ordine che avevano accompagnato gli uomini e le donne nel
loro viaggio dentro la modernità siano stati abbandonati o
che abbiano perso il loro lustro originale. Al contrario,
essi oggi devono essere perseguiti - e realizzati - attraverso
sforzi, percorsi e volontà individuali” (Baumann, 1999, p.
9).
Già da tempo l’appartenenza professionale contribuiva alla
strutturazione dell’identità personale, il ritmo del lavoro
forniva il tempo alla vita [4],
adesso ancora di più le identità si compongono come pluriappartenenze:
non è possibile scinderle nei vari aspetti. Non s’intende
sostenere come pensabile una sparizione dell’identità: l’identità
esiste e la sua problematica principale riguarda, oggi, l’autoconsapevolezza
e l’efficacia della costruzione identitaria, non l’esistenza
o meno dell’identità medesima. Cambia semmai l’accezione con
la quale possiamo riferirci all’identità: possiamo oggi intenderla
come un percorso, come un filo interiore continuo che ci offre
sicurezza e percezione di sé.
Queste semplici prime riflessioni ci portano sulle tracce
della metodologia narrativa. In questa metodologia si è rintracciato
una forza: quella di consentire la costruzione attiva di significato
da parte del soggetto su materiali suoi propri (F. Batini,
R. Zaccaria, 2000 e 2002; Batini, Del Sarto, 2005). La costruzione
di un’identità matura e consapevole passa attraverso forme
di “bricolage identitario narrativo”, si verifica cioè un
processo di accumulo di petits morceaux di storie udite, storie
ascoltate, storie lette, ermeneutiche del visto e dell’accaduto,
a noi e agli altri, interpretate non attraverso un processo
di fissazione di un testo (ammesso e non concesso che esistano
testi fissi), come può invece accadere con l’interpretazione
di un libro, ma di un testo in movimento (noi stessi, le relazioni
che abbiamo, la nostra prospettiva spazio-temporale …).
La narrazione agisce dunque, in questo senso, nella restituzione
di senso e di significato, contribuendo alla rilettura, alla
riscrittura della propria storia, all’apertura di uno sguardo
differente sulla realtà, alla creazione di un senso personale,
a facilitare la costruzione dell’identità personale.
La fine delle meta-narrazioni o grands récits (Lyotard, 1979;
Geertz, 1995) costituisce una specie di resa: l’uomo, in un
certo senso, rinuncia alla pretesa di rappresentazione globale
dello scenario nel quale è inserito. Eppure ciascuno di noi
manifesta, in gradi diversi, il bisogno d'autonomia, d'affermazione
di sé, il bisogno di essere riconosciuto come soggetto, di
poter attribuire un senso ed un significato alle cose che
fa, che gli accadono, che vede nel mondo in cui è inserito.
Ciascuno di noi, potremmo dire, affermando i bisogni appena
elencati, evoca narrazioni capaci di includerli.
Non potendo reperire queste narrazioni nei grandi repertori
ormai poco frequentati, sempre più spesso decidiamo di acquistarli
(nemmeno troppo metaforicamente) in “confezioni pronte all’uso”.
Queste confezioni però, come ogni surrogato che si rispetti,
non hanno né la potenza, né la credibilità, né la durata degli
originali dei quali sono pallida copia. Quello che è richiesto
al soggetto nella contemporaneità è dunque una sorta di conciliazione
tra la rinuncia alle metanarrazioni e l’appagamento dell’urgenza
di sintesi per ridurre la realtà in un quadro leggibile nel
quale si possa inserire l’agentività del soggetto.
Narrazione e relazione d’aiuto: il diritto al racconto
Lo spazio dell’esistere dunque: le narrazioni (intese nel
senso più ampio possibile) adempiono prima di tutto alla funzione
di legittimare l’esistenza: un orientamento esistenziale dunque
ancor prima di ogni altra funzione che può essere stimolato
attraverso pratiche narrative (non semplicemente autobiografiche
che semmai, sono, anche metaforicamente, l’esito). Prendiamo,
come esempio, la figura, complessa del migrante, può, infatti,
essere metafora convincente dell’uomo del nostro tempo “che
non ha più un valore centrale, una cultura omogenea cui fare
riferimento” [5]. Dove però
il lavoro di Losi si salda con quanto affermato e descritto
in questo contributo è quando egli ipotizza come strumento
di analisi delle migrazioni il modello delle funzioni di Propp[6]
sulla fiaba indoeuropea. Ebbene questo modello con le trentuno
invarianti è stato utilizzato in alcuni percorsi di orientamento
narrativo come stimolo per la ricostruzione di avvenimenti
realmente accaduti nella vita delle persone o come stimolo
alla creazione di storie, progettuali, metaforiche o completamente
inventate.
La funzione di ricollocazione in un nuovo contesto, partendo
sempre dal contesto di appartenenza e senza assolutamente
cancellarlo, che il lavoro terapeutico del gruppo di etnopsichiatria
di Ginevra ha tentato di fare, con buon successo, con gli
immigrati, si pone in relazione di chiasmo con l’uscita da
sé per guardare meglio e rientrare che si è tentato di fare
con l’esperienza di orientamento narrativo. La “vita altrove”
allora può essere anche il luogo di un progetto, non soltanto
di una distanza, sia per gli indigeni che per i migranti.
La “competenza memoriale” è la condizione per poter progettare,
si sostiene che per lavorare sull’identità e potersi progettare
occorre coniugare anche i tempi del passato, che consente
di inserirsi in un contesto, in una cultura, in valori e idee.
“Il passato non va cancellato né dimenticato: al contrario
il passato, nei suoi linguaggi e nei suoi gesti, nelle sue
tecniche e nei suoi valori, nelle sue norme e nelle sue manifestazioni
estetiche, deve essere conosciuto e adoperato per costruire,
magari con la tecnica del bricolage, modelli culturali e percorsi
educativi che ne utilizzino trame e pezzi per parlare alle
nuove generazioni, per condividere con loro la partecipazione
alla vita del gruppo ma anche a quella della comunità più
ampia, per svegliare in essa la solidarietà verso il fratello,
il compagno, ma anche per lo sconosciuto che condivida un’idea,
un bisogno, uno slancio emotivo. È probabile che abbiano ragione
quegli analisti che individuano nella progettualità, nella
speranza per il futuro, la capacità di apprezzare e di amare
il passato” [7].
La “competenza memoriale” si traduce quindi in una capacità
di leggere la morfogenesi del contesto culturale d’appartenenza,
quindi di capire, alla luce di questo, l’oggi, di potervisi
inserire e potervi progettare. La memoria si nutre di narrazioni.
Le narrazioni strutturano quindi l’identità culturale, sociale
e, di riflesso, quella personale che a sua volta contribuisce
a creare, assieme alle precedenti ed alla capacità progettuale
l’identità professionale.
La narrazione ha il carattere immodificabile della soggettività
e questo è un tesoro gnoseologico in quanto “Il nostro sapere
deve per forza assomigliare a qualcosa per acquistare veridicità,
e la prima somiglianza che gli si impone è quella della sua
unicità soggettiva. Il mio sapere è ciò che io sono, è come
io esisto, è come io lo racconto agli altri. Il mio sapere
assomiglia a me. E il mio sapere assomiglia anche agli altri
in quanto di partecipativo io condivido con loro: emozioni
e conoscenze. Il desiderio d’anonimato che caratterizza così
bene il progetto enciclopedico ha per anni influenzato anche
il nostro apprendere, le strutture e le istituzioni preposte
al sapere e alla sua trasmissione. Era sufficiente descrivere
il sapere, era sufficiente imparare le sue descrizioni, non
era necessario viverlo” [8].
Il legame tra una forma narrativa e l’emergenza di una propria
identità [9] anche nel processo
d’apprendimento, di formazione, insomma negli scambi d’informazione
e sapere risulta quindi evidente, ancora di più lo sarà, in
quei contesti, come l’orientamento, nei quali il sapere in
gioco è il sapere su se stessi.
Nelle identità violate dal tempo, dalla società, dalla malattia
si aprono spazi di recupero narrativo, per trovare una propria
identità, per essere, magari, al modo di Nannetti, un ingegnere
minerario aeronautico. La possibilità dell’esercizio dell’orientamento
narrativo, in qualunque forma e in qualunque modo, diventa
allora più che un supporto, un aiuto, una particolare tipologia
di relazione d’aiuto un diritto, il diritto ad esistere, il
diritto alla narrazione, al racconto.
NOTE
1] Si veda: Quaderni d’altri tempi, Speciale
Nannetti Oreste Fernando, anno 2 numero 6, autunno 2006 https://quadernisf.altervista.org/numero6/indexsf.htm
2] O. Sacks (1986), L’uomo che scambiò sua
moglie per un cappello, Adelphi, Milano, p. 153.
3] Ibidem.
4] Si pensi al grande passaggio che si ha
nella gestione del tempo quando le campagne si svuotano per
l’industrializzazione. Si creano le grandi città operaie ed
il tempo che prima era scandito dalle stagioni dell’agricoltura,
dai riti, dalla religione, diviene il tempo della fabbrica.
Che cosa provoca a livello identitario? Lo sgretolamento delle
reti di solidarietà e di relazione, l’identificazione con
il lavoro. Devo queste riflessioni ad un contributo orale
del Prof. Andrea Spini.
5] N. Losi (2000), Vite altrove. Migrazione
e disagio psichico, Feltrinelli, Milano, p. 15.
6] J. Va. Propp (1966, ed. or 1928), Morfologia
della fiaba, Einaudi, Torino.
7] M. Callari Galli (1998), “Identità plurali”,
in: M. Callari Galli, M. Ceruti, T. Pievani, Pensare la diversità.
Per un’educazione alla complessità umana, Meltemi, Roma, pp
193-194.
8] D. Fabbri (1998), “Narrare il conoscere”,
in: C. Kaneklin, G. Scurati, a cura di, Formazione e Narrazione,
cit, p. 7.
9] Sulla relazione tra cultura e formazione
dell’identità si veda, in ottica interculturale e narrativa:
G. Mantovani (1998), L’elefante invisibile, Giunti, Firenze;
mi permetto di segnalare anche: F. Batini (1999), “Narrazione,
metacognizione, apprendimento”, Rivista dell’Istruzione, 6:
753-758; cfr anche capitolo 6 di questo testo.
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