Écritures relationnelles autopoïétiques
Orazio Maria Valastro (sous la direction de)
M@gm@ vol.5 n.4 Octobre-Décembre 2007
MOMENTI E FIGURE DELLA SCRITTURA DI SÉ
Duccio Demetrio
duccio.demetrio@unimib.it
Professore ordinario di Filosofia
dell’educazione e di Teorie e pratiche autobiografiche presso
l’università degli studi di Milano- Bicocca; Direttore della
rivista Adultità e fondatore, insieme a Saverio Tutino, della
Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari; Autore di
opere dedicate all’educazione degli adulti, alla pedagogia
interculturale e della memoria, alle teorie e alle pratiche
autobiografiche nella formazione, ha pubblicato recentemente
“Autoanalisi per non pazienti” (Cortina,2003), “Ricordare
a scuola” (Laterza 2003), “In età adulta” (Guerini,2005),
“Filosofia del camminare: Esercizi di meditazione mediterranea”
(Cortina,2005).
Un
narrare multiforme
Il genere autobiografico (comprendente scritti quali diari,
agende, lettere, memorie, confessioni, poesie degli affetti
personali …) non può più essere ritenuto esclusivamente una
forma letteraria. Non pare nemmeno più riducibile a questo
o a quel documento, in cui un io narrante di età variabile,
più spesso matura, spiega, rivolgendosi a se stesso o ad altri
destinatari - già immaginati o meno - chi ritenga di essere
od essere stato.
Raccontano, costui o costei, vestendo i panni dei protagonisti
assoluti e in maniere diverse, un po’ tutto quel che hanno
incontrato: per caso o perseguito nel corso della loro vita.
Si descrivono fin dall’infanzia, rievocano quali furono i
momenti indimenticabili, quali le persone decisive, quali
le scelte e le svolte determinanti per l’iniziazione all’età
adulta. Lei o lui sono mossi dal desiderio di realizzare,
secondo coerenza cronologica o viceversa per frammenti, un
progetto di scrittura - in forme anche antologiche, sparse
e casuali - che solo alla fine assumerà una sua fisionomia
e corrisponderà ad una sorta di autoritratto plausibile che
quell’io andava cercando. Seppur dalla veridicità discutibile
e che il suo autore, alla fine dell’impresa, non potrà che
confermare invece attendibile. Poiché seppur soltanto approssimativamente
gli assomiglierà.
Le pagine, poi, dedicate a tale panoramica retrospettiva e
introspettiva di quel che si è creduto di essere, di essere
stati, di essere cambiati, diventeranno così un libro o una
raccolta di liriche con dedica. Più di frequente, resteranno
un quaderno gualcito di fattura modesta, ma fitto di grafie,
di segni, di date. Quale sia l’entità e la qualità degli scritti,
essi costituiranno almeno la prova che chi li ha creati ha
vissuto alla ricerca di un sosia, di un alter ego, di un compagno
segreto, cui confidare quel che solo così poteva essere detto.
In un dialogo tra quell’io narrante-scrivente e l’io immaginario
che sarà partorito dal primo.
Tutto ciò che scriviamo di noi, diventa in tal modo la carta
di identità che più ci appartiene. E’ fatta e stampata in
proprio, la si sia falsificata o meno. Intenzionalmente o
meno. Scaturisce a proprie spese grazie alla necessità di
coniarsi, di riprodursi da soli. Per poter dire: io sono figlio
di me stesso. Ho prodotto qualcosa che senz’altro mi somiglia
e che si espone a svariate considerazioni. Proprio come qualsiasi
scrittore fa con la sua opera che affida al destino, alla
critica, ai lettori severi o compiacenti.
Ebbene, questa immensa mole di scritti, questa letteratura
amatoriale, soltanto in piccola parte è conservata (e salvata)
in archivi, in biblioteche, in musei. Per la maggior parte,
se non viene distrutta quando gli autori e le autrici scompaiono,
diventa cimelio domestico e famigliare, di cui nulla mai sapranno
non solo gli studiosi di letteratura civile o popolare. ma
nemmeno coloro che hanno iniziato a ritenere che l’autobiografia
sia un genere anche sociologico, antropologico, filosofico:
oltre che naturalmente storico. Tale vicenda ineluttabile
ci espone ad una specie di seconda morte, che però a differenza
della prima può essere ritardata.
Per non citare l’interesse che anche psicologia e pedagogia
rivolgono a queste scritture, per il fatto che in esse sono
rintracciabili tipi umani e profili, patologie e sintomatologie
di cui gli scriventi erano e sono i portatori. Inoltre, l’aver
deciso di scrivere la propria storia, e di averla terminata,
ci segnala la ripresa di un tragitto e di uno sviluppo di
natura educativa. Un ravvedimento, il superamento di una difficoltà
e la ricerca di nuove mete, un pentimento sono categorie pedagogiche
poiché inducono il soggetto a cambiare vita, ad imparare nuovi
costumi, a darsi altri orientamenti e valori.
Occorre ancora specificare che oltre a queste variazioni di
prospettiva intervenuti nell’analisi delle documentazioni
autobiografiche, occorre menzionare che non possiamo più ritenere
che la versione scritta di un racconto sia l’unica modalità
di cui si avvale un autobiografo. Ad essa sono andate aggiungendosi
e sostituendosi altre tecniche narrative: quali sono il cinema
biografico professionale o amatoriale, la videonarrazione,
le sequenze pittoriche o le canzoni autoreferenziali. Si tratta
difatti, in ogni caso, di scritture: seppur anomale, e cioè
di tracce lasciate non più su un foglio, ma su una pellicola,
su una banda sonora o elettronica, su una carta sensibile.
Ci si trova comunque in presenza di un’impresa autobiografica,
anche se questa non appare più indotta da ragioni strettamente
individuali e riservate. Specie se aspira a diventar commerciale
e ha bisogno di mezzi, di sceneggiatori, di determinate condizioni
di realizzazione, di effetti speciali. Numerose autobiografie
tradizionali o scritte in forma romanzesca ispirano i media,
se ne impadroniscono e il risultato, artisticamente riuscito
o meno, è pur sempre un’opera autobiografica nella sua amplificata
spettacolazione.
Mentre all’autobiografo all’antica, esploratore oscuro della
sua intimità, occorrono poche cose: un poco di carta, una
penna o un altro mezzo che ne faccia le veci, un ripiano comodo,
un po’ di silenzio, e, soprattutto, è indispensabile una motivazione
forte, un impulso a scrivere. Tanto più che non per denaro,
bensì per amor di verità, per testimoniare vicende memorabili,
per denuncia civile, egli o ella vennero indotti a tenere
un memoriale quotidiano o a scrivere degli avvenimenti di
cui furono diretti responsabili o spettatori impotenti. Tutto
il resto, lo hanno a disposizione: è la loro vita che può
diventare storia nelle storie. Questo è il setting, il quadro
di lavoro, lo scrittoio reale e simbolico, assolutamente personale
e trasferibile ovunque, di chi abbia deciso di far pratica
diaristica, memoriale, poetica.
Comunque autobiografica, se a regia dello scrivere collochiamo
tutto quello che il nostro pensiero e le nostre sensibilità
si prefiggono di presentare a qualche ipotetico lettore, in
un’esposizione annunciata nella maggior parte dei casi. Del
tutto insignificante in altri, quando ciò che più conta è
viverne l’esperienza, in quanto processo e gesto che lo scrivere
produce durante l’infittirsi delle parole, più che il risultato:
sia esso o meno degno di avere qualche lettore sincero.
In controtendenza
Al di là di tale varietà dei linguaggi citati - ormai agibili
e impiegabili per raccontarsi -, ciò che indichiamo come autobiografico
sintetizza un’attitudine, uno stile del pensiero, una sensibilità
e persino una condotta di vita improntata ad enfatizzare la
dimensione soggettiva del vivere. Inoltre, dentro la parola
autobiografia, rinveniamo aspetti e motivi che hanno a che
vedere con questioni quali: l’inconscio, il non detto, la
memoria, il carattere, la vita interiore… Tutti argomenti,
questi, studiati dalle scienze menzionate, le quali ormai
non si occupano più soltanto delle parole, dei discorsi, pronunciati
oralmente dagli individui (siano essi pazienti o meno), ma
anche di ciò che costoro scrivono, di ciò che intendono per
scrittura, di come progrediscono o si sentono meglio affidandosi
a carta e a penna, del rapporto più o meno creativo che stabiliscono
con le cose e i loro simili grazie a questa così umile arte.
I nostri comportamenti risultano in tal senso autobiografici
sempre, se possiamo dire a ragion veduta: “questi segni o
indizi mi appartengono”, “sono miei”, “se non avessi scritto
quel biglietto o scattato quella foto, non potrei riconoscermi”.
L’autobiografia e la disponibilità a scriverla ci segnalano
quindi un bisogno di appartenenza, di fedeltà, di rigore morale
verso se stessi. E poiché entrambe ci chiedono di riattraversare
l’esistenza, anche molto impegno e disponibilità a ri-patire,
nella rimembranza inevitabile, quel che già soffrimmo, ci
mancò, scomparve. Essa è una modalità, riconosciuta, di rielaborazione
di tutta una vita; è un lavoro su se stessi affidato alle
proprie mani che riaffondano con il bisturi della penna nella
materia prima di un’esistenza che nessun altro può vivere
al posto nostro. Questo immenso giacimento è racchiuso nel
nostro cervello, nella mente che rielabora di continuo informazioni
provenienti dal lontano e dal presente vivente. Non è un necrologio,
né un epilogo: semmai, è un intenso lavoro su di sé che restituisce
energia e voglia di tornare a vivere chi vi si cimenti. Così
come, anche se l’autorizzassimo, nessuno potrebbe scrivere
la nostra autobiografia al posto nostro. Tutt’al più, scriverà
la biografia che saremo noi a dettargli, ma non sarà mai la
stessa cosa. Senza una tastiera sotto le dita, senza farle
scorrere in mille combinazioni a ritroso nel tempo, o nell’attimo
fluente che sa cogliere il diario, non si attua vera autobiografia.
Possiamo affidare la penna ad altri - come diremo - ma per
un gesto di fiducia e di umana solidarietà e riconoscenza.
In una delega condivisa che renderà un poco autobiografo il
nostro eventuale biografo. Poiché è impossibile scrivere degli
altri senza al contempo non trasfondere nelle loro storie
salvate qualche cosa delle emozioni che provammo ricostruendone
le vicende.
Il che ci spinge oggi ad affermare che una mentalità, ovvero
un habitus cognitivo ad orientamento autobiografico, di cui
non possiamo non andar orgogliosi, se assunta come condotta
anche morale, si oppone decisamente a quanto non possa dirsi
autobiografico (poiché non l’abbiamo vissuto o non l’abbiamo
connotato con qualche nostra traccia peculiare) o sia da ritenersi
decisamente anti-autobiografico: e cioè proteso ad uniformare,
ad omologare, a standardizzare e mirante a cercare, ad isolare,
a restituire dati oggettivi su alcunché. Il che rende l’autobiografismo
contemporaneo un movimento di scrittura e di pensiero che
mira a qualcosa di ben più complesso della promozione di narrazioni
e storie di sé scritte in prima persona: esso sta diventando
una linea di tendenza esemplare - e quindi un’entità culturale
e sociale in via di diffusione - in aperta polemica nei confronti
di ogni atto, abuso, gesto implicito di cancellazione della
nostra individualità e più in generale delle memorie, di tutto
ciò che ci ha preceduto e che si preferisce sopprimere e rimuovere.
L’autobiografia è quanto di meglio sia in grado di testimoniare
la nostra libertà di parola, di opinione, di visione - assolutamente
personale - dei drammi e delle situazioni esistenziali della
vita: connessi alla crescita, all’amore, alle responsabilità,
al diritto, al benessere se non proprio alla felicità, al
dolore e alla morte.
Il rapporto con la parola pronunciata
Non è poco che la scrittura, più di ogni altra modalità narrativa,
ci consenta di fissare il “mondo della vita” cui apparteniamo
o che abbiamo abitato nelle stagioni dell’esistenza: sempre
al singolare. Di avvertirci persone, unici, nel moto amanuense
dello scrivere. E, inoltre, ci invita ad intraprendere un
metodo specifico, quello appunto della scrittura autobiografica,
incomparabile rispetto ad altri. Per vantaggi emotivi, sviluppo
ulteriore dell’intelligenza e della parola, per il tipo di
relazioni che instaura sul piano delle relazioni sociali concomitanti
o successive agli esiti dello scrivere.
Certo, possiamo anche raccontarci autobiograficamente ad alta
voce, o interiormente. Anzi, lo facciamo senza posa, ma in
tal caso, ci limitiamo ad adottare soltanto la parola orale
o il pensiero rinunciando troppo spesso di buon grado a metterci
alla prova intimamente con noi stessi; ad osare l’impiego
di una tecnologia e di un sapere (e la scrittura lo è) che
ci fornisce sempre altri risultati, accentuando il nostro
protagonismo nei confronti di quel che ci accadde o ci sta
accadendo, in quel momento, anche se andiamo scrivendo di
passato. Quando avvertiamo il bisogno irresistibile di prendere
la penna in mano, di sederci al computer o almeno di scattare
una foto che, se poi commentata e corredata di didascalie
e appunti, dirà inevitabilmente di più. Imprimerà ulteriore
dinamismo alla scena. Il retro di una cartolina, lo spazio
su di essa per scrivere, ha sempre avuto questo scopo: un’immagine
senza parole, sarà più enigmatica - ma più povera di indizi
- rispetto a chi ce l’ha inviata.
Scrivere è un impegno maggiore, perché ci compromette, ci
espone, ci affatica senz’altro di più. Ed è questa, una volta
appreso, una competenza pratica leggera, agile, adattabile,
di pronto uso a differenza degli altri, di carattere pur sempre
autoreferenziale o egonarrativo, che esigono più complicati
accorgimenti. Sul piano degli esiti, quanto riusciamo ad ottenere
con lo scrivere e il leggere di noi, non è paragonabile a
quanto di noi si possa dire a voce e pensare. Il vantaggio
e la peculiarità dello scrivere, poi, se non risiede più nella
maggiore diffusività dei messaggi lasciati, oggi consentita
dai mezzi radiotelefonici e quindi da una oralità in diretta
ovunque pervasiva, obbliga o invoglia gli autobiografi in
senso tradizionale a scegliere di scrivere qualcosa di assolutamente
speciale, che li costringa a guardarsi nello specchio metaforico
del foglio che hanno dinanzi. Per cercare le parole più appropriate,
per entrare nei dettagli della loro vicenda, allenando così
la mente a ragionare su quanto accade loro di vivere o di
soffrire in quell’istante in cui le emozioni, le idee, le
fantasie divengono inchiostro.
Il rapporto col tempo
Il riferimento al passato - presente, trapassato o remoto
- in autobiografia è poi d’obbligo; poiché la scrittura di
una storia in parole o fotogrammi scandisce, “batte”, il tempo
del pulsare narrativo. Mentre una sola immagine, specie un
ritratto o una foto di famiglia, una volta ritrovata pur presupponendo
un racconto, un brusio di voci, eternizza e immobilizza il
momento in cui venne fissata. Scrivendo, però, accade di avvedersi
molto meglio che, nel tracciare su una superficie una frase
dopo l’altra, procedendo dall’alto verso il basso, non siamo
già più quel che eravamo un istante prima di accingerci a
scrivere.
La scrittura ha il pregio di essere inevitabilmente evolutiva,
incalzante, trasformativa con immediate ricadute su chi ne
faccia un uso regolare, continuativo, determinato. Quasi si
trattasse di un farmaco. Anche perché c’è sempre, vivendo,
qualcosa da medicare che la scrittura cura, se non addirittura
guarisce con l’arte di ricordare, non con quella della dimenticanza.
Con maggior rapidità di altre forme espressive, possiamo procedere
di conseguenza velocemente, per ridar fisicità ai ricordi,
per correggere o cancellare quel che non ci convince, nella
ricerca di rendere migliore quel che, all’inizio, volevamo
raccontare e che, strada facendo, in questo esercizio di revisione
incessante, non ci piace più. Per troppa approssimazione o
viceversa per eccessiva scrupolosità. Pertanto, se si vuole
utilizzare con proprietà il termine in questione occorre non
dimenticare che con auto/bio/grafia (lett: testo scritto riguardante
la mia vita di cui sono l’autentico autore e responsabile)
intendiamo una produzione, un lavoro kirografico della mano
(della mente e quindi del corpo e di una sua articolazione
preziosa) mediante il quale siamo intenti, o lo siamo stati,
a scrivere retrospettivamente, se non proprio tutta la nostra
esistenza, almeno qualche suo episodio reputato importante.
L’autobiografia non è mai stata comunque, fin dalle sue più
antiche origini, soltanto questo. Fu in tempi lontani e continua
ad esserlo - già lo si è accennato - anche un genere psicologicamente
importante per chi lo coltivò o l’adotta sul piano della maggiore
comprensione e interpretazione di quel che va vivendo, dei
comportamenti, dei sentimenti provati che invogliano a spiegarsi,
a dirsi, a rivelarsi maggiormente: nel momento in cui nell’esercizio
della scrittura si individua una valvola di sfogo, una strategia
per affrontare i problemi. Quando si sia soli o quando un’amicizia
privata o un aiuto clinico non siano sufficienti o vengano
meno. O quando, ancora, si cerchi volutamente la solitudine.
Ovidio, Sant’Agostino, MarcoAurelio, de Montaigne, e poi Rousseau
con innumerevoli altri… per citare soltanto i classici di
questo genere, vi ricorsero sovente per le stesse ragioni
che inducono, ancor oggi, tanto le donne o gli uomini famosi,
quanto coloro che resteranno anonimi pur avendo scritto di
sé, ad affidarsi allo scrivere in situazioni di crisi, dolore,
smarrimento, isolamento estremo.
Le soglie critiche
La scrittura di sé è un’arte povera che si arricchisce arricchendoci
a seconda della dedizione e della passione che le offriamo.
Ribadiamolo: la intraprendiamo con caparbietà, pazienza, umiltà,
volontà di conoscerci anche nei più riposti nascondigli della
memoria e per lottare, pur sempre ad armi impari, contro l’oblio.
Rispetto ad esso, il narratore che superi la soglia critica
(un blocco “agrafico”) ben nota ad ogni autobiografo, costituita
dal timore di non saper quasi più scrivere, di non riuscire
a ricordare, persino di troppo autocompiacersi, si accorge
ben presto che va impadronendosi di un nuovo potere e di un
piacere che prima gli o le era ignoto. Scopre di riprendere
padronanza di quel che, caoticamente, un istante prima gli
si affollava nel cervello, pur trafitto da un dolore indicibile,
da un senso di colpa, da una perdita incolmabile di cui avvertiva
l’istinto o l’impulso ad esporre. Superato questo limite,
le parole scritte si appropriano ben presto, trasformandole,
soprattutto di quelle scene che si vorrebbero dimenticare;
riconferiscono ad esse un distacco emotivo necessario a superarle,
nella volontà matura di non cancellarle, anzi di portarle
con sé. Non più soltanto nascoste dentro di sé, ma esposte
in evidenza: quasi grida. Per cercare un conforto, una comprensione,
una consolazione. Anche questo, ma non solo. Piuttosto, per
rendere omaggio, per onorare, per trattenere qualcosa che
scomparendo lo impoverirebbe. Il dramma più atroce, se riesce
a diventare una rappresentazione, leggibile e comprensibile
da chi non lo visse, assume un’altra fisionomia: si trasfigura,
oltrepassa la propria fattualità.
La scrittura presiede alla “riparazione” di quanto si è frantumato,
instaura un altro ordine della memoria. Le parole, facendosi
pagina, aiutano a sciogliere i grumi di tristezza e desolazione
che gravavano come pesi altrimenti non attenuabili; i sentimenti
di pena e le nostalgie mutano il malessere (almeno) in una
condizione di sopravvivenza più sopportabile. Inoltre i diaristi,
i poeti dei propri ricordi, i novellieri degli episodi cruciali
che li hanno coinvolti, se scrivono per sé, prima ancora che
per un pubblico, assumono atteggiamenti diversi sia a seconda
del senso e degli scopi che intendono attribuire al “lavoro”cui
si sono accinti, sia in ragione di motivi che sono inconsci
o ancora poco chiari.
Talvolta costoro si sorprendono a chiedersi: “Perché ho incominciato
a scrivere di me?”; “Che cosa mi spinge a prendere la penna
in mano?”; “A che possono servirmi queste pagine…? Sono queste
le domande ricorrenti e ataviche, cui è possibile dare una
risposta in relazione allo stato mentale ed emozionale di
chi trova nella scrittura un sollievo, un’eccitazione creativa,
un confessionale, un’occasione introspettiva e persino di
una meditazione.
Riferimenti bibliografici:
D. Demetrio, Raccontarsi: l’autobiografia come cura di sé,
R. Cortina, Milano, 1996.
D. Demetrio, L’educazione interiore: introduzione alla pedagogia
introspettiva, La Nuova Italia, Scandicci, 2000.
D. Demetrio, Autoanalisi per non pazienti: inquietudine e
scrittura di sé, R. Cortina, Milano, 2003.
N. Ferrari (a cura di), Ad occhi aperti: la relazione d’aiuto
alla fine della vita e nelle esperienze di perdita, Ed. Libreria
Cortina, Verona, 2005.
S. Ferrari, Scrittura come riparazione: saggio su letteratura
e psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari, 1994.
I. Gamelli (a cura di), Il prisma autobiografico, Unicopli,
Milano, 2003.
L. Moreni, Lo specchio del racconto: educare alla relazione
e curare con la scrittura, Unicopli, Milano, 2003.
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