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    M@gm@ vol.5 n.3 Luglio-Settembre 2007

    POCO PESO AL CONFLITTO DI GENERE: TRASFORMAZIONI ISTITUZIONALI O QUASI COL CONFLITTO DI GENERE ATTRAVERSO ATTRICI/SOGGETTI E INTERCONNESSIONI DI POTERE/I


    Augusto Debernardi

    augusto.debernardi@tiscali.it
    Laureato in Sociologia all'Università degli studi di Trento. Dal 1971: è stato componente dell’équipe del Prof. Franco Basaglia all’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Trieste; diplomato all’INSERM di Pargi in epidemiologia Psichiatrica; coordinatore dell’équipe sociopsicologica dell’Alloggio Popolare Gaspare Gozzi di Trieste; componente dell’équipe O.M.S. per la psichiatria; collaboratore Unità Operativa dell’istituto di Psicologia del CNR per la prevenzione malattie mentali ed autore di parecchie pubblicazioni; editor del Centro Studi per la salute Mentale, Collaborating Center W.H.O.; fondatore dell’U.O. per l’epidemiolgia psichiatrica ed autore di numerose ricerche e valutazioni; specializzato in statistica sanitaria e programmazione sanitaria; esperto nel settore della cooperazione nel campo della salute mentale nella Repubblica di Argentina e del Cile; Coordinatore Sevizi Sociale presso l’ASS Isontina; direttore servizi minori Comune di Trieste; Collaboratore dell’Associazione Oltre le Frontiere per le questioni dell’immigrazione; collaboratore della CARITAS della diocesi di Gorizia per la questione del manicomio di Nis (Serbia); Direttore di Area Provincia di Trieste; Presidente dell’ITIS (Istituto Triestino per Interventi Sociali); componete dello staff del direttore generale ASS Triestina; Presidente Co.Ri. (Consorzio per la riabilitazione); animatore dell’associazionismo in temi culturali e dell’integrazione europea. Fino al 1971: collabora con l'ARIP di Parigi (Association pour l’intervention psycho-sociologique); è assistente all’Istituto di Psicologia Sociale e di Psicologia del Lavoro dell’Università degli Studi di Torino; componente in qualità di sociologo al Segretariato per la Psichiatria della Provincia di Cuneo; consulente del Centro di Orientamento Scolastico e Professionale di Cuneo dove tra l’altro ha lavorato alla taratura degli strumenti testistici; consulente per la P.O.A. per l'Istituto Psico Medico Pedagogico di Latte di Ventimiglia.

    Chi lavora e si muove nella sfera dei “servizi” ha l'occasione di vedere, incontrare, scambiare con molte donne. Il luogo comune è che i servizi a bassa soglia siano i primi a diventare dominio lavorativo delle donne. Dall’area educativa a quella assistenziale fino a quella sanitaria dove, in molti campi, la technè ha meno pregnanza, dove la relazione terapeutica sembra contare di più che le applicazioni tecniche, chimiche, contenitive hard. Anche se, in verità, in certe corsie, in certi stanzoni di ospedali in cui si concentrano di più le persone anziane, la contenzione con fasce e corpetti vige attivamente ed è messa in applicazione anche dal genere femminile. Non sempre si capisce chiaramente se il “medico/a” ha autorizzato il tanto. Gli uomini, in questi settori, sembrano stare più su una ipotetica linea di ritirata con adozione di una pragmatica opportunista in attesa di qualche cosa di non ben definito. Anche se occupano posti dirigenziali o di rilievo come primariati, capi-dipartimenti od aree, capi comunque sembrano starsene un po’ rintanati.

    E' verso queste posizioni di comando che si nota oggi un’attenzione del femminile assai più consapevole e più pervasiva di un tempo. Un’attenzione che diventa domanda, richiesta forte e come tale rende vane quelle allusioni all’attrazione sessuale da parte del capo/comandante con sua consequenziale seduzione. Troppo comodo lo stereotipo per essere valido ed esplicativo. E ci si riflette su. Anche perché proprio dai servizi è nata un’attenzione particolare alla soggettività, al soggetto anche se si aveva poca familiarità all’utilizzo della parola ‘individuo’. Retaggio di quel cultural-politico che amava molto il collettivo ma sicuramente superabile e superato specie con il progressivo innalzamento degli stipendi e di alcune sicurezze. Già, in questo modo la sicurezza viene data e confermata dal danaro. Ecco perchè molti giovani di oggi lo preferiscono alla relazione. Di questa c'è meno bisogno. Ma ci si riflette su anche a partire da certe affermazioni di una collega separata che afferma “mi manca il maschile” o di un'altra che dice “che il concorso per primario l'ha vinto un -quel- maschio che ha giocato poco pulito, anzi sporco” o di un'altra che riesce ad affermare “non si fa più nulla” nel senso di una pratica di denuncia, di lotta alle istituzioni, di politica rilevante, di riaffermazione di idealità condivisa e dei valori umanistici o di un’altra che segnala “ormai tutti i collegamenti con le istituzioni li tengono in maniera burocratico/gerarchica” o ancora un’altra che dice in colloquio ad un paziente maschio “ma perchè non gli hai dato un pugno a quello lì?”. Su alcune frasi come quella della assopita lotta chi aveva sempre lottato contro l'istituzione, ricercando l'autonomia - anche nella globalizzazione - non poteva che trovarsi d'accordo. Già ... nel frattempo l'imperativo era diventata la gestione, nessuna critica. Trionfo della tecnostruttura. “That is not my problem” si sentiva spessissimo dire dai direttori di turno, fino alle liturgie e ritualità rimesse in auge. Come quella della valutazione che solo pochi decenni fa era stata aborrita ed abolita per quel movimento che si chiamava '68. Complice il denaro, ovvio, il premio. Insomma accade di tutto pur di non dire che le cose non è che andavano (o vadano) sempre o.k. Ogni volta che si attaccava - nel senso di andarci a lavorare davvero - una cosa od istituzione nei fatti, nella pratica di qualche ruolo conquistato con duro lavoro, di nuovo piovevano critiche di istituzionalizzazione, di essere istituzionalizzato. Mai una collaborazione: mancano le risorse, come scusa esplicativa. Un po' come se la campana non dovesse più suonare perchè i campanili erano stati tolti. Le campane appoggiate per terra emettono suoni così cupi che non si propagano.

    La linea di ritirata era ed è il frutto di quell’inerzia sociale che a differenza della spinta originaria ha meno interessi, meno motivazioni capaci di destare condivisione. Dopo avere appreso qualche metodologia di altre discipline ecco il ripiegamento sul gruppo dei pari, meglio se gruppo di congreghe internazionali tipo who/oms in cui la metodica epidemiologica, assai spesso mutuata dalla ricerca sociologica, va sempre bene e ti fa apparire up date e ti fa accedere al potere più in fretta, mentre la clinica viene relegata in secondo piano. Come mai? Come mai questa situazione di assopimento della critica politica ed istituzionale e dell’analisi quasi si volesse subire/aderire - non ci possiamo fare niente - alle misure deflazionistiche che il capitalismo razionale (sic, quando si dice autopoiesi) metteva in atto a fronte di più consapevolezza della necessità del lavoro e dell’accesso ai diritti di salute, di cittadinanza, di identità, di statuto sociale, di formazione, di relazione, di creatività, di affettività, di partecipazione, di libertà? Mentre l’economia capitalistica si declinava sull’economia dell’offerta e del monetarismo i “quadri” di una sanità un tempo rivoluzionaria e di trasformazione subivano l’offerta altrui aderendo all’ideologia che è l’offerta che determina la domanda sanitaria. Una specie di cosa se è nata prima la gallina o prima l’uovo: non tiene conto di una realtà, cioè di quella o questa non certo della realtà in sé e per sé né, tanto meno, della capacità/possibilità di cambiare, di mutare il servizio e le risposte. Insomma… alle prese con una voglia di razionalità ad ogni costo.

    Prospettive di sicurezza: il ponte



    Prospettive di rischio: la faglia (società e sue istituzioni)

    Minare il bisogno di sicurezza e protezione accelera la tendenza della società del rischio a creare faglie nelle istituzioni stesse, quelle deputate alla protezione. Così pare(va). Insomma quel richiamo originario del ‘collettivo’ non c’è più … la trasformazione procede dal genere che effettua cambiamenti culturali attivando la soggettività del soggetto, il soggetto. Che è invenzione sociale assai moderna ma stimola anche un altro “come mai” a partire da condizioni del lavoro assai modificate. Non è un caso che la modalità lavorativa si sia assai cognitivizzata. Riprendiamo un momento la divaricazione sociale fra epidemiologia (valutativa) e clinica. La prima ricorda moltissimo la metodologia scientifica e la utilizza (statistica e modelli statistici inferenziali e non sono il suo pane). Dà forte notorietà, immediata notorietà perché fa vedere i limiti del sapere medico e sociale applicato, quello lavorativo tradizionale cioè. E sembra poter affermare senza troppe esitazioni “inutile spendere tanto per non avere risultati di efficacia conclamata”. Si introduce così un elemento di scelta, di libertà. Ma non sa né può assolutamente gestire il derivato sociale del tanto. Ovvero: quando si introduce libertà in un qualunque sistema od ente sociale la sicurezza diminuisce. L’identità diventa interinale o liquida, direbbe Zygmunt Bauman, e più se ne parla, specie a livello politico e dei politici e meno se ne può uscire perché il confronto/apprendimento dell’alterità è questione culturale e non certo politica. C’è bisogno di reti face-to-face; ma questo vorrebbe dire empowerment sociale, di quei gruppi naturali - nel senso di non istituzionali - come le forme relazionali od associative del vivere a-istituzionale o pre-istituzionale. Ma come si fa a non essere, specie se istituzione, non autoreferenziali ed autoriproduttivi? Come si fa a non essere sedotti da una disciplina istituzionale che ricorda sempre la valutazione (che Zizek definisce, con l’oggettivazione totale dei (suoi) criteri, giusta per il sistema sociale) che in più sembra porsi contro il consumismo che è l’unica ed uniforme regola globalizzata per le proprie identità? A sinistra l’affascinazione è totale e difficilmente si può percepire una epochè, anche perché la proposta pratica porta ad assumere nuovi tecnici del ramo sanitario - specie infermiere ed oss - in virtù dell’ideologia di ricambio che si mette in campo. A destra l’adesione è minore, ma non affatto assente né tanto meno contraria o critica, perché l’ordine immutabile (arroganza della gerarchia) è dominante nel set mind destrorso ma anche facilmente eterodirigibile, proprio per questo, da chi ha il potere sociale, specie finanziario. Poiché a fronte di tutto ciò il cittadino - cioè l’inserimento nell’alveo dei consumi corretti politicamente e regolati dall’intervento pubblico del soggetto od individuo - nelle relazioni condizionate da una globalità complessa non fa altro che scoprire una sua naturalità (etnia ad esempio) sempre più spinta o forme di malattie nascoste per recuperare una specie di sicurezza che va messa in frantumi con la perdita di ogni identità/alterità occorre mettere in azione nuovi attori, anzi attrici che meglio sono allenate alla ricomposizione di e frammenti. Il sistema capitalistico dei servizi è salvo. L’individuo resta sulla cresta dell’onda con il suo domicilio. D’altra parte un individuo non può che avere un suo proprio domicilio! La tautologia è lampante e tutto va … anche se la sicurezza diminuisce. L'atteggiamento arrogante dell’istituzione che pretende sempre di ragionare come un intellettuale collettivo e quindi di rappresentare sempre la Verità sopprime in tale maniera tutte le volontà contrarie e sopprime altresì ogni possibilità di dibattito interno. Si verifica allora una continuità fra potere/istituzione e capitale. La capacità di produrre e riprodurre il sociale - comune/comunità - è annullata e la disutopia è l’unica cosa che rimane come a portata dell’orizzonte del reale. La solidarietà che molto spesso la società civile cita ed anche con forza i gruppi cattolici (parola non a caso più usata dal Papa Giovanni Paolo ll) stabilisce un ponte, un’unione fra ricchezza e povertà attraverso l’amore per il più debole che è poi la parte più debole di noi stessi (come se fossimo degli eterni puer per il semplice fatto che lo siamo stati per davvero).

    Ma … attenzione: l’enclosure verso il solo individuo, come colui che abita uno spazio dato ossia il suo domicilio diventa ex-closure se non può permettersi gli agi normali dell’eccedenza. Ed allora perché rifuggire dalla questione, cioè perché non enclosure delle istituzioni come ambienti non alienati dal diritto soggettivo e di cittadinanza, come “comune”? Già, ma bisogna riprendere la critica al capitale, pensare ad un’economia sociale più enclusure, più partecipata davvero e rispondente ai bisogni. Assistere al domicilio con tutto ciò che comporta (anche di positivissimo) significa far rientrare il tutto nelle esternalità, ovvero nella produzione del profitto.

    Se le linee di differenza sono state costruite - oltre alla questione del corpo che permette di pensare e pratica oggidì l’altro - proprio dalle femmine (femminismo) perché altrimenti sarebbe impossibile non solo costruire il comune ma nemmeno pensarlo, bisogna anche dire che il recupero del capitale su questo è stato eccezionale. Ha costretto il lavoro femminile nell’alveo dello sfruttamento attivo e passivo concedendogli un’egemonia senza pari. Dalla gestione dell’emotività, della relazione, del servizio che sono la base (erano) del lavoro casalingo alla proiezione sulla scena del mondo delle istituzioni pubbliche di servizio e non solo per trasformare la forza lavoro e gli assetti producendo tanta esternalità. Ohibò: “volete il comune: eccovi la famiglia diffusa, grande, organica e riproduttiva grazie alla flessibilità e mobilità di chi (la donna) ha sempre saputo accettare e tollerare lo sfruttamento di nonni, padri, mariti, figli.”In nome della flessibilità e mobilità. Per fortuna che il lavoro è sempre più cognitivo e dunque sarà più difficile far passare il tutto come ordine immutabile. Forse la grande spesa per la formazione ci dà il segno di questa cognitività che forse, in qualche modo, potrebbe sfuggire al controllo.

    Ma veniamo ad un'analisi per corroborare questa tesi.
    Una quarantina di anni fa i servizi alla persona, con il loro inalienabile carico di sofferenza erano il luogo degli amori veloci, delle regressioni istituzionali, dell'eros salvifico di fronte al dolore altrui che entrava in ognuno di noi, in tutti quelli che ci lavoravano e più stavano accanto al portatore del disagio, della malattia. Le regole delle istituzioni, ad esempio con la separazione fra i generi, servivano anche a difendersi da certe tensioni e sbilanciamenti possibili o volgari tentazioni. Poi, a partire dall'ultima delle istituzioni, quella manicomiale, si è incominciato a vedere che è l'istituzione stessa a contare, a non essere neutra: è regola, è dominio, è immaginario, è trasmissione di potere, è codifica, è esclusione nonostante i meccanismi di compensazione e di tanta razionalizzazione, è produzione di potere (non di egemonia). E più i leader (maschili) diventavano per forza di cose “democratici” (la ricerca della relazione con il ‘malato’ designato imponeva una democrazia che aveva ben poco a che fare con la democrazia rappresentativa) più le donne incominciavano a muoversi e liberarsi da certe costruzioni istituzionali. Gli scambi affettivi più o meno forti scaturivano e prendevano corpo e si distinguevano da ciò che poteva essere interpretato come acting out; la sessualità diventava elemento dell’esserci, dell’esistere. La dimensione del corpo era messa in forma. L’occupazione diventava processo di emancipazione, come la formazione, come le relazioni internazionali, come la ricerca di un’autonomia che pareva essere diversa da quella hegeliana che implica uno scopo mentre poneva più una questione di sogno e di desiderio, di pulsione profonda anche se la materialità non era/è certamente disdegnata. Soggetti, individui … emergevano da ciò che pochi mesi prima era un “collettivo”. Le differenze gerarchiche diventavano qualche cosa di difficile da tollerare, in nome dell’ego ed in nome del sé, proprio mentre il collettivo di ieri perdeva pregnanza. Il gruppo non bastava più a costruire l’identità esistenzialmente e socialmente accettabile. Si richiede il potere, fino a conquistarlo ponendo come centralità quella presenza di genere. Certo, il contesto è ed era quello che è, contrassegnato cioè dalla potente carriera che i medici hanno con la desueta gerarchia “primario-aiuto-assistente” - che si rinnova e si perpetua anche se tutti i medici dipendenti, per decreto, sono ormai dirigenti. Una carriera-modello a cui anche gli infermieri/e anelano e che è stata ed è sicuramente di traino.

    1998: la dott.ssa Assunta Signorelli - che diventa primaria e poi direttrice dipartimentale a Siena - afferma che l'esperienza di Trieste, quella della chiusura del manicomio, è stata “il ricominciare ad essere” per tutti. Da custodi a garanti del processo di cura e dei diritti ... di tutti. “Discutiamo della falsità e della tendenziosità delle donne” fu il titolo di un volantino con cui le 'donne' dei servizi (operatrici cioè) incominciarono. Mica male come inizio e come percorso. Tanto che nascono in breve servizi dedicati, come Centro-donna-salute-mentale, un luogo istituzionale a bassa soglia, flessibile, che produce ed accetta scambi col mondo; come l’associazione che è a bassa soglia istituzionale ma ad alta pregnanza di contenuti da un nome forte “Luna e l'altra”, associazione come spin off dell’istituzione a bassa soglia ma a forte densità … Insomma il genere non implode più, anzi si attiva e attiva una pratica che si impone.

    Quando uno pensava che sarebbe stato importante accedere in altre istituzioni per cambiare e per alimentare nuove pratiche si trova ad assistere a certi silenzi, a certe diffidenze, a certi distinguo che poco sono comprensibili. Chi aveva fatto epoché del potere si trova a disagio. Si attendono giorni migliori anche se i sussurri continuano con quella serie di “loro no, noi sì”, ma dove in quel ‘loro’ - l’altra istituzione - andavano a finire parecchie entità del ‘noi’, quelle dalla parte dei degenti o utenti o pazienti o clienti, cioè di coloro che pur essendo stati in qualche modo contattati dai servizi territoriali vengono, ciononostante, inviati a case di riposo e strutture protette. Come se l’epoca dei “gruppi appartamento” fosse finita: in realtà lo è, i bilanci esistono, le competenze anche, le diagnosi facilitano le cose! Quando il vecchio direttore ritorna da un’esperienza al sud campano si osserva che gli spazi offerti al ‘genere’ (spazi di potere gerarchico) si connotano di contenuti operazionali diversi, territoriali (il meccanismo dei premi forse agevola certe cose). L’offerta di spazio al 'genere' fa sì che avvenga una certa liberazione dal e del servizio: si muove sul territorio così come avrebbe potuto fare anche il registro già esistente, cosa che però non avvenne. Perchè? Perchè il genere è alleato del nuovo-vecchio corso e non agisce altrimenti, precedentemente? Perchè il conflitto di genere produce pratiche a partire non più dal collettivo ma dal soggetto anche se esse si inverano dentro un contesto di istituzione e di istituzioni e di poteri istituiti che gongolano – tanto son soggetti - nel vedere sì tanta abilità che sa meglio gestire in quanto allenata come è alla ricomposizione delle identità (familiari). Così resta anche lo spazio per dire (finalmente) cose che senza il genere non si dicevano più: come la non ineluttabilità della centralità di bilancio. Quasi un'eresia al giorno d'oggi. Ma viene finalmente pronunciato (quando e se la dicevi tu eri considerato un coglione, né più né meno). Ma si smentisce o quasi subito dopo. La cognitività è assai mobile.

    La conflittualità di genere è dunque piuttosto bipolare (non c'entra nulla con la depressione!) perché declina soggetti/individui e così si passa dal disaccordo all'intesa abbastanza repentinamente. La conflittualità sta nella differenza irriducibile che si reifica nella pratica. Attrazione e rifiuto. La gerarchia non può farci nulla o ben poco, non riesce ad appianare. L'intesa nasce con altro scopo, con il tendere a... ecco... entrare su un oltre o meglio su un altrove che non irrita il contesto di origine ma ne esalta le sue virtù presupposte od originarie. Un'intesa, dunque. Il conflitto non viene risolto, sanato ma utilizzato, valorizzando le differenze con obiettivi comuni che di solito sono anche di potere, di pensiero strategico o quasi. La gerarchia (che resta istitutivamente intatta) si tatticizza nell’interdipendenza. La matrice umana, l'umanesimo, negato dalla mondanità dell'essere istituito e del suo immaginario, favorisce l'intesa (si potrebbe dire la matrice dell'archetipo femminile). L'amore, forse, come riconoscimento e valorizzazione delle identità reciproche. “Scambi di affettività”. L'amore come fatto mai individuale, perché tale è l’amore. Cultura come rielaborazione delle esperienze. Ma anche la strategia di un'utopia altrimenti come si può ricomporre i pezzi della vita a cui le donne sono allenate o dei quali dicono di detenere il monopolio? (Noi, maschi, a suo tempo ci esprimevamo dicendo che nei servizi deistituzionalizzati circola affettività)

    Ecco allora apparire, scaturire in maniera esplosiva la critica esasperata alla contenzione dei vecchi: una critica all'altrove, alle porte chiuse degli altri ... poco importa se fino a qualche mese addietro anche le porte del loro dominio professionale risultavano spesso e forse non volentieri chiuse, in alcuni centri di salute mentale. Siamo nell'oltre. Tutto è convivibile. Anche il coupe de théâtre che una regia moderna attiva in occasione del convegno “la settimana della salute”: sette giorni di tutto; il tutto che si interseca col sanitario, onfalo del tutto. Si snocciola la contenzione nelle strutture protette e case di riposo e gran battage mediatico. E’ vero forse, più riservato alla e nella città di Trieste che a qualsiasi altro altrove. In verità la vecchia proposta di far sì che le richieste di ricovero siano vagliate da una commissione di valutazione geriatrica - fermo restando il principio della libera scelta individuale nelle opzioni - che potrebbe suggerire percorsi diversi e quindi attendere ad una valutazione congiunta con l’interessato ed i suoi familiari non è apparsa. (si proponeva parecchi anni fa)

    Diventa allora possibile una spiegazione di cambiamenti, di arresto, di chiusura, di riapertura nei domini in cui i corpi - segnali dei generi e delle diversità - sono predominanti nell'oggetto di investimento lavorativo, forse, insieme alle psiche. Ma il potere dove sta? Sta in un potere che ne vuole di più, che non si accontenta più di quanto già c'è e che si allea diversamente ... col conflitto. Da quello di classe iniziale a quello di genere nella maturità in quanto espressione di soggetti.

    L'intreccio delle alleanze, degli opportunismi, delle opportunità, delle meschinità, delle impotenze, delle mancanze di critica così come delle intelligenze e delle motivazioni più o meno passionali ed idealistiche sono tortuose ma non infinite anche se il gomitolo che formano può essere difficile da districare. I meccanismi sono sempre quelli: colpevolizzazione se dici e se fai, biasimo, intimidazione, svalorizzazione. Guai se non c'è un'ideologia di potere di ricambio da qualche lato, guai se manca la strategia del ricambio: il sistema non ci sta. Ed allora il comportamento razionale è tale in quanto ha come scopo il potere.

    Ecco ... i servizi alla persona, sanitari o meno, la devono avere - la strategia del ricambio - almeno per essere degnamente efficienti, razionali-raziobnalizzati. Più degli altri, almeno senza perdere il gusto della critica e delle iperboli. Difficile avere definizioni su concetti ormai desueti nella pratica come cosa è la salute mentale o l'educazione scolastica... Perchè non sono oggetto di lavoro, il lavoro è con, anzi a loro dire è pratica, pratica buona contrapposta a quella cattiva. Relazione. Ma questo è un'altro discorso. O forse no. Perchè ... perchè nel mondo delle istituzioni, la volontà di potenza è codificata da esse stesse e dunque ciò che si attende all'interno è il comportamento mimetico: burocrazia, performazione dei comportamenti e loro previsione, annullamento delle differenze, uguaglianza delle risposte.. ideologie e falsità si mescolano nell'immaginario che fonda assicurando lo spettacolo e la continuità della struttura sociale dominante (tardocapitalista).

    L'istituzione sembra annullare il rischio nichilista, anzi il corollario nichilista che accompagna ogni volontà di potenza mentre il mimetismo che sembra così alieno dal nichilismo non è che la sua anticamera. Un'anticamera che esprime la volontà di entrare nel potere, di prendersene una fetta con l'illusione/certezza di sottrarre godimento al padrone, pensando di cambiare, così, l'ordine sociale.

    Uscire dalla medianità di un ruolo ancillare o di ricomposizione degli atti della vita è anche gettarsi nell'invidia, gelosia, fare proprie le cose del 'capo supremo' allacciando rapporti diretti che saltano gerarchie obsolete nella pratica del reale attraverso il desiderio identificatorio o mimetico che è la stessa cosa. La dove c'era “questo” deve subentrare l'io. L'autonomia cioè dall'id, non nel seguire la regola della legge morale stabilita dalla propria ragione (Kant) che è simile per tutti. Il punto è che lavorare in un posto (istituzione data, visto che il lavoro è colì) significa lavorare in qualsiasi posto ed allora l'io come fa ad effettuare il suo esser-ci, il suo diventare, il suo essere al contempo diverso, diversità, genere diverso, conflitto? Come faccio a fare ciò che considero giusto e che mi piace ma che non faccio solo perchè mi piace? Come faccio a non essere socialmente fabbricata/o? Almeno riesco a dire che l'altrove è negativo: lo svelo, lo addito ma sto un po' alla larga nella ricerca della palingenesi totale. Qualche cosa che interrompe la pratica di lì ma attiva una nuova che vuol essere concorrente. Energie (soldi) permettendo. Più il mi piace che il giusto ed il gusto. E già non è poca cosa nel quadro della disutopia.

    Non siamo ancora ad una società che è capace di una perpetua riconsiderazione delle sue istituzioni anche e proprio perchè si parla di innovazione sociale. Manca quella relazione (umanitaria) con … e ci si addentra nei meandri nella mondanità quasi proiettando altrove le proprie pulsioni, quasi esplicitando i desideri di trovarsi in un nuovo Olimpo perchè quello in cui si è, è poco divino, con poco potere.

    Torniamo al contemporaneo. Un recentissimo articolo del 5 giugno ‘06, sulla stampa di Trieste, a firma di Livia Bicego, presidente commissione dell’azienda sanitaria per il contrasto della contenzione e delle cattive pratiche, dice alcune cose importanti come risposta ad un certo lettore che si lamentava del fatto che la denuncia lanciata con il rombo delle grancasse aveva fatto di ogni erba un fascio, cioè non aveva discriminato fra le varie strutture protette o di residenzialità protetta. Ella dice, invece, che molti familiari hanno telefonato per stimolare ad andare avanti perché non si contenga più (strada in salita). “Chiediamo risorse e servizi innovativi per garantire i diritti sociali a tutti e in primis alle persone più fragili e deboli. In altri paesi che gli esperti ci indicano come modelli da imitare è l’assistenza fatta con le persone nell’arco delle 24 ore a casa propria”. “… intendiamo aprire una riflessione sulle pratiche e sull’organizzazione delle attività. Queste pratiche abilitano o disabilitano? La contenzione meccanica e farmacologica non sono che le priorità… la standardizzazione delle attività che esclude ogni possibile decisione sul trascorrere della propria giornata mantiene vitali o no le capacità delle persone?”. “Oppure è destino che si debba vivere in un limbo fino alla fine? E’ destino che vecchi e giovani non abbiano luoghi dove incontrarsi e storie di vita da raccontarsi?

    In verità qui si sta dimenticando o mettendo in cantina il fatto che fino a ieri sera il luogo di questo incontro era certamente la famiglia. Si vede che qualche cosa rimane anche se la famiglia non la si nomina. La si sta allargando o ci si prova a ciò. Che non abbia attinenza con la techné? Ma si dovrebbe anche ricordare, dovrebbe restare qualche cosa dei progetti sugli archivi della memoria della gente comune, proprio a partire dalle strutture di ricovero e dai domicili vari perché frequentati da persone che hanno visto due guerre mondiali e sono una miniera di storie composite. Detti progetti sono stati fatti ma non finanziati oppure chiusi perché la sanità reclamava ed altri non vedono che ideologie di ricambio. (Il progetto dell’età libera di Trieste con la sua cassazione a 180° insegnerà pur qualche cosa). Ma continuiamo.. “ se sua madre fosse stata legata o sedata la confusione e i suoi comportamenti aggressivi sarebbero andati peggiorando e lei avrebbe pensato che erano conseguenze inevitabili dell’età e della patologia mentre sarebbero stati il risultato di cattive pratiche”. Ecco, tanti tentativi di ricomposizione, di assolvimento di quei proprietari che si allineano. Ma nessun cenno su certi invii in case di riposo da parte dei servizi pubblici che forse meglio di altri conoscono o dovrebbero conoscere certe ‘cattive pratiche. L’unica cosa che sembra accomunare i generi delle professionalità è una reiterata richiesta di risorse. Non vorrei che questo evitasse la questione centrale, secondo me, della trasformazione dell’esistente, della sua riconversione in buone pratiche e in positivi spin off, di superamenti certi come è avvenuto nel caso dei manicomi. Ad esempio. È proprio impossibile pensare che talune case di riposo siano anche campo base dei servizi domiciliari delocalizzati e centri di aggregazione e di servizio per micro-aree urbane? E’ possibile pensare in maniera circolare/aperta e non conchiusa in universi ‘buoni’ vs ‘universi cattivi’? Forse questo è ancora il limite di un genere femminile subalterno istituzionalmente. Esattamente come accade quando vede che le cose dal punto di vista umanistico non vanno perché la tecnologia uccide questa componente: non può farce alcunché. Ma questo è il senso di una tecnica - fondatrice di verità - e fondante una società dello spettacolo. Quella di Guy Debord, per intenderci, del 1967, oggi più che mai attuale.

    Segue poi (18 giugno ’06) l’affermazione di Maila Misley - leader del corpo infermieristico e versatile donna - rilasciata ad un’intervista del locale quotidiano e che forse lascia intendere qualche cosa di più sulla questione risorse (d’altro canto lo stereotipo comune è che le donne siano delle ottime ministre del tesoro-familiare, anche se le famiglie sono assai diverse dalla rappresentazione stereotipata) Un’affermazione che dice parecchio sulla questione che abbiamo individuato - la conflittualità di genere - e che nello specifico è una risposta ad un’osservazione della giornalista Gabriella Ziani sul fatto condiviso da tutti e cioè la mancanza di denaro. “No, secondo me il motivo è un altro. L’assistenza è tipicamente femminile, come l’insegnamento. Entrambe professioni pagate pochissimo. Nel Nord Europa dove la parità femminile è già raggiunta l’assistenza funziona benissimo e ha risorse perché comandano anche le donne. Da noi sei ministre senza portafoglio”.

    Una chiara rivendicazione di domini, una chiara chiamata di responsabilità ed una chiara chiamata a sancire alleanza sui poteri in gioco. Gira e rigira la questione del potere resta centrale nella nostra società che si è voluta ammantare di buonismi, richiami al valore, alla morale, all’etica (esercitando in concreto un nichilismo quasi fai-da-te conseguenza del pensiero debole) anche se la sua suddivisione a dilemma in “meglio scopare (fottere) o comandare” ci mette sull’avviso. Il “fottere” con la sua ambivalenza di significato è attualissimo ed azzeccato e sintetizza l’epoca nostrana contrassegnata dalla menzogna come verità, il falso indiscutibile. In un mondo rovesciato il vero è un momento falso: il rovesciamento del detto hegeliano ad opera del già citato pensatore francese Guy Debord.

    Potremo dirla così: il potere è come una puttana, se la usi ci godi anche, ma se ti metti a cercare altro ti incasini soltanto. Ma alcuni si domandano perché comandare, perché ubbidire, perché ammiccare a modelli senza trasformazioni pratiche, perché toadysm e politically correct? Forse, nel contemporaneo, la ‘donna’ è troppo abituata a gettare via l’abito usato e dunque a non rivoltarlo più per adattarlo alle necessità: che la globalizzazione ed il consumismo non c’entrino proprio nulla? Modelli espressivi diversi di donne che contano ci ricordano di certo che i servizi sono anche e soprattutto potere e dunque domini di conflittualità. Sapere usare questa conflittualità vorrà dire qualche cosa in una società che si bea del diverso del diverso del diverso, se non altro restare in poltrona cercando di alimentare cose diverse, cambiamenti che dirompono parecchi equilibri nel brevissimo e breve periodo. Sui tempi lunghi dovremo svolgere parecchi follow up, se sarà concesso. (il rischio è che lo strappare un po’ di godimento al padrone diventi reato quando e se… cambia padrone, ovvero quando diventa padrone chi ha sempre goduto del tanto concependo l’ordine come una questione esclusiva della destra).
    In ogni caso la strada per “un comune” potrebbe già essere abbozzata.


    Collana Quaderni M@GM@


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