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M@gm@ vol.5 n.3 Juillet-Septembre 2007
CELLLARA: IL CULTO E LA FESTA DI SAN SEBASTIANO
Sergio Straface
strasazio@yahoo.it
Etnografo e Antropologo; Svolge
ricerche sul campo (etnografia performativa), con particolare
interesse allo studio del folklore; I suoi campi di interesse
riguardano principalmente le politiche egemoniche e le strumentalizzazioni
strategiche della cultura ufficiale nei processi di conservazione,
mutamento, ri-produzione e consumo della cultura popolare,
nonché degli effetti di tali processi. Attualmente è impegnato
nella produzione di reportage etnografici e nello studio delle
problematiche di esposizione e musealizzazione; Sua pubblicazione:
Cellara, Il culto e la festa di San Sebastiano (Ursini Editore,
2006).
“Sud
ind’a stu core staje sì comm’e ‘o sanghe ind’e vvene meje
d’o sud venimmo ‘o sud simmo crisciute
ce sta chi ha dato ha dato e chi nunn’ha maje avuto
chello che ammo passato chello nun ce ‘o scurdammo
‘o tenimmo a mmente tutte juorne che campammo”.
Almamegretta, Suddd (in Animamigrante)
L’ambizione di un contributo etnologico, specie se si tratta
dell’oggettivazione di una festa popolare, può spesso risiedere
nell’aspirazione di scorporare dalla sequenza celebrativa
la specifica esperienza etnografica, presentandola in un montaggio
espositivo che non trascuri l’auspicabile compattamento tra
l’apparato teorico, il discorso etnografico e la pratica critica.
“E’ necessario, fra l’altro, argomentare la collocazione teorica,
politica e sociale dello studioso rispetto al contesto che
si sta interpretando e vivendo, per sviluppare dettagliatamente
gli obiettivi etnografici e politici insieme” (Bernardino
Palombo, 2003).
La ricerca etnografica oggetto di questo contributo riguarda
la descrizione e l’interpretazione di un evento specifico.
Precisamente ciò che avviene a Cellara, piccolo borgo di circa
500 anime a 10 chilometri a sud di Cosenza, durante la festa
votiva a San Sebastiano, basato su una ricerca sul campo di
circa tre anni [1].
Si tratta di un impianto festivo particolarmente complesso,
che si esplica in due principali dinamiche cerimoniali: quella
ludica della sfilata delle ‘Pullicinelle’ il venerdì, enormi
giganti di cartapesta che sfilano per le strade del borgo
per poi essere bruciati, e quella religiosa della processione
di San Sebastiano l’ultima domenica di Agosto.
Nell’agosto del 2003 mi trovavo a Cellara ed ebbi modo di
assistere alle celebrazioni votive di San Sebastiano. Decisi
così di approfondire l’argomento. Rimasi sensibilmente meravigliato
dallo scoprire che questo fenomeno demologico, misterioso
e a tratti incomprensibile, carico dell’irruenza tipica delle
culture subalterne e marginalizzate, non avesse richiamato
l’attenzione di nessun etnologo.
Tale mancanza di sensibilità etno-antropologica mi dava l’idea
di una ulteriore forma di marginalizzazione inferta alle realtà
culturali delle campagne del ‘nostro Sud’ [2],
una maniera per mantenere tale mondo nella sua subalternità
e per negarne la cultura.
Tale insensibilità mi fu da stimolo per iniziare una ricerca
etnografica che avesse come oggetto lo studio della condotta
festiva Cellarese, con la volontà di riaffermare sul piano
istituzionale il contributo, accanto a quello della cultura
‘alta’, della memoria e delle testimonianze di un’altra storia,
cioè quella delle classi subalterne di questa comunità.
La completa mancanza di materiali di riferimento mi suggerì
ad elaborare una strategia metodologica di ricerca sul campo
che fosse necessariamente elastica. Privilegiando uno sguardo
etnografico intrusivo e critico, adottando altresì un approccio
fenomenologico, con il rigoroso esercizio della sospensione
del giudizio. L’approccio fenomenologico, di fatto, comporta
la perdita del riferimento identitario, lo smarrimento dell’assolutezza
e della esclusività dei propri criteri di valutazione. “Implica
una messa in parentesi dell’esistenza, cioè una sospensione
della credenza nell’esistenza reale dell’oggetto” (Edmund
Husserl, 2002).
Osservazione, dunque, come sguardo performativo, minuzioso
e ripetuto su tutto ciò che accade senza lasciare nulla al
caso evitando ogni rischio di sintesi [3].
Strategicamente mi sembrò inoltre opportuno considerare il
rapporto della festa con l’ordine economico e sociale. Sia
per il recupero di un mondo popolare che per molto tempo è
stato ignorato e che rischia di essere ingurgitato nei ‘folklorismi’
da esibire nei depliants turistici, che per il chiarimento
di situazioni storico-religiose e storico-tradizionali, di
carattere progressivo, che a Cellara soggiacciono all’ipoteca
di un meridione tradizionalizzato. Nonché dalla volontà di
avanzare un primo tentativo di interpretazione dei dati, che
non vuole giungere ad una risposta esaustiva, ma semplicemente
offrire una serie di ipotesi, magari da approfondire in futuro,
attraverso le quali sono riconfermate le varietà dei valori
creativamente presenti nelle realtà subalterne.
Non è stato, infatti, mio intento quello di impelagarmi nell’affannosa
ricerca di presuntuose e definitive risposte, bensì avanzare
temporanee interpretazioni e far trapelare nuovi interrogati,
che necessariamente rimangono aperti, per rendere ancora più
problematico tale fatto culturale.
All’inizio della ricerca etnografica necessitavo di un sostanziale
approccio umano con la comunità Cellarese. Era necessaria,
cioè, la creazione di un feeling empatico che potesse permettermi
un reale e produttivo contatto umano. Tuttavia, le difficoltà
di margine sono state superate dall’eccezionale disponibilità
dell’intera comunità, coinvolgendomi in un comune spirito
di ricerca.
Ricordo con piacere, e reale malinconia, le molte birre al
bar con i ragazzi, e i tanti bicchierini e caffè durante le
interviste e la mia permanenza a Cellara, contornate da un’atmosfera
di disarmante rispetto e in alcuni casi di sincera sintonia.
Tutti erano disposti ad aiutarmi e a farmi conoscere persone
che, a parer loro, erano più adatte a riferirmi informazioni
preziose sulla storia e sulla cultura del loro paese.
Per molto tempo sono diventato il loro confidente, un punto
di riferimento esterno al quale era possibile confidare i
loro malumori. Addirittura molti erano disposti a denunciare
la specifica situazione sociale e culturale di questo piccolo
borgo. Affermazioni che mi hanno sensibilmente colpito e coinvolto
in una ricerca etnografica che fosse nel contempo anche un’antropologia
politica della specifica produzione culturale.
Di fatto, sentimenti di rabbia e delusione sono comuni a gran
parte dei meridionali coscienti della reale situazione sociale
e politica del ‘nostro Sud’. Un popolo, prigioniero della
propria storia e soprattutto esausto delle promesse, ormai
più che centenarie, di miglioramento e di affrancamento dalla
propria subalternità. “Una terra tanto amata ma nello stesso
tempo tanto disprezzata, dalla quale si fugge ma nella quale
si vorrebbe tornare” (Corrado Alvaro, 1958). Una terra che
ha dato tanto all’Italia, ma che viene ricordata prevalentemente
per i suoi prodotti tipici, come se la Calabria fosse un grande
Discount nel quale comprare prodotti a prezzo conveniente.
Una terra in cui fa caldissimo e si può andare tutto l’anno
al mare, come se l’inverno non esistesse e come se la Calabria
fosse un grande parco divertimenti. La grande Italialand in
cui distrarsi dal tedio della routine invernale.
Ma la Calabria, e il ‘nostro Sud’, non è questo per la gente
che ci vive e per la gente che fugge e che vorrebbe tornare.
E’ principalmente terra in cui si soffre e si lotta.
Dall’osservazione sul campo, fra l’altro, si rilevò fondata
l’ipotesi che fossero individuabili elementi di ‘folklore
progressivo’. Ernesto De Martino, nel lontano 1951, profeticamente
sottolineava come sotto la spinta del movimento operaio si
fosse venuto costituendo un ‘folklore progressivo’, che è
la proposta consapevole del popolo contro la propria condizione
di subalternità. “Ovvero il modo in cui il popolo esprime,
in termini culturali, le lotte per emanciparsene. Individuando
nel ‘folklore progressivo’ un’efficace funzione di educazione
culturale, in quanto avrebbe esercitato un avanzamento culturale
effettivo delle masse popolari con la conseguente nascita
di una cultura popolare progressivamente orientata” ( Ernesto
De Martino, 1951).
Considerando, inoltre, che “i patronati locali esplicitano
una relazione di proprietà del gruppo rurale sulla propria
potenza mitica” (Alfonso Di Nola, 1974), si è rivelato necessario
conoscere i modi in cui tale proprietà si esplicitasse, quale
fosse la protezione di San Sebastiano e quali fossero le forme
di devozione e gli ex-voto che i Cellaresi eseguono o donano
al Santo.
Per ottenere un impianto interpretativo era altresì necessario
porre in evidenza lo scenario economico-culturale e storico-culturale
di Cellara, in modo che la descrizione del quadro mitico-rituale
non risultasse avulsa dal contesto storico reale. Nonché l’individuazione
di una serie di elementi ludico-religiosi che presentassero
una frequenza diacronica concreta.
All’analisi etnografica, dunque, ha fatto seguito anche un’analisi
storiografica per avere una dimensione storica del fenomeno.
La mia attenzione si è concentrata sulla constatazione della
presenza, almeno fino al 1960, di una economia agricola di
sussistenza, con tutto ciò che comporta la dura vita nei campi,
in cui importante ruolo era svolto dalle famiglie benestanti
che detenevano le terre in cui i braccianti Cellaresi lavoravano.
Nonché sui fenomeni di precedente emigrazione e successiva
immigrazione, che modificarono sensibilmente l’assetto socio-economico-culturale
del paese.
La ‘Pullicinella’ è un grande pupazzo realizzato con materiali
semplici. Su una struttura di canna di bambù e legno di castagno,
ricoperta di carta velina di differente colore, vengono create
figure molto alte con le sembianze di celebri personaggi.
Attualmente si costruiscono diverse ‘Pullicinelle’ ma in origine,
precisamente fino al 1964, se ne costruiva una sola.
Il venerdì che precede l’ultima domenica di Agosto, le ‘Pullicinelle’
sfilano. Tale sfilata avviene da più un secolo e probabilmente
dalla seconda metà del 1800. Non è possibile risalire alle
prime sfilate, mancando in proposito notizie documentate,
è solo possibile attenersi alle notizie raccolte durante la
ricerca sul campo, basate su testimonianze tramandatesi oralmente
in paese.
Attualmente [4], alle 20
e 30 circa le strade di Cellara iniziano a gremirsi di gente
così, i ‘Tummarinari’ [5]
e i ragazzi si recano nell’atrio antistante la scuola elementare
di Cellara (luogo in cui vengono costruiti questi giganteschi
pupazzi e dal quale escono per la sfilata). I ‘Tummarinari’,
i portatori delle ‘Pullicinelle’, i ragazzi del servizio d’ordine
e i fotografi entrano nella scuola dove sono poste le ‘Pullicinelle’
e chiudono il cancello.
Qui i costruttori apportano le ultime modifiche alle ‘Pullicinelle’,
vengono distribuite le magliette da indossare [6]
me i ‘Tummarinari’ si esibiscono in rollate incalzanti e chiassose.
Al suono dei tamburi e della grancassa, tutti i portatori
aiutano a far uscire le ‘Pullicinelle’ fuori dalla scuola
e le adagiano per terra. Si dispone il corteo con in testa
il gruppo folkloristico, seguono le otto ‘Pullicinelle’ rappresentanti
i componenti della famiglia Addams (oggetto tematico scelto
per la sfilata del 2005) con in coda Zio Fester, portato da
Salvatore [7].
I portatori, eccetto Salvatore, si infilano nelle ‘Pullicinelle’
e iniziano a danzare, mentre i ragazzi del servizio d’ordine
confabulano, si abbracciano e si incitano a vicenda. I ragazzi
eseguono i primi cori, alcuni sono rivolti a Cellara e altri
alle ‘Pullicinelle’ [8].
Infine, si intonano quelli che sollecitano Salvatore ad entrare
nella sua ‘Pullicinella’ affinché inizi la sfilata. Salvatore,
dunque, galvanizzato dalla folla entra nella sua ‘Pullicinella’
e inizia a danzare. Tutti i ragazzi, dietro, lo seguono dando
il via alla sfilata per le strade del paese ormai gremite
di gente che attende il loro arrivo.
Il corretto svolgimento del tutto è assicurato dai ragazzi
del servizio d’ordine [9],
loro infatti improntano un cordone immediatamente dopo l’ultima
‘Pullicinella’.
Dunque, con l’entrata di Salvatore nella sua ‘Pullicinella’
inizia la sfilata, accompagnata dal suono dei ‘Tummarini’
e dagli strilli e dai cori del corteo. Percorsi circa cento
metri si ha il primo contatto con la folla. Il corteo applaude
e si manifestano le prime esibizioni delle ‘Pullicinelle’
con balli, saltelli, inchini e corse sfrenate. All’arrivo
del corteo sul corso, “ci sono delle tappe fisse come quella
di casa Cesario dove ci viene offerto del vino. Altra tappa
è quella della bottiglia di vino nascosta nella fessura del
muro, che però è una tradizione che abbiamo iniziato noi come
anche la tappa al bar di Camillo” ricorda Salvatore.
Arrivati a circa 60 metri da Piazza S. Sebastiano, Salvatore
adagia la sua ‘Pullicinella’ per terra e i ragazzi del corteo
si dispongono dietro di lui per prepararsi alla corsa finale
per arrivare in Piazza, dove li attendono le altre ‘Pullicinelle’,
il gruppo folkloristico, nonché la folla trepidante. Dopo
aver ricevuto le solite indicazioni e raccomandazioni, Salvatore
solleva la sua ‘Pullicinella’ e inizia la corsa. I ragazzi
del corteo si spingono a vicenda e, arrivati in piazza, tutti
danzano le tarantelle e i motivi suonati dai musicisti. Salvatore,
allora, si svincola dalla folla per effettuare l’ultima tappa,
questa volta senza vino, sul sagrato della Chiesa di S. Sebastiano
per salutare i ragazzi della pesca di beneficenza [10]
. Fatto il solito inchino, raggiunge la piazza dove tutte
le ‘Pullicinelle’ ballano per circa venti minuti.
Frattanto le ‘Pullicinelle’, una per volta, raggiungono le
vasche [11] dove inizia
il rogo e quella di Salvatore arriva per ultima, per impedire
che il fuoco produca fiamme troppo alte e pericolose [12].
“Intorno a questo fuoco i ragazzi ballano, intonano canti
e si divertono fino all’esaurimento delle fiamme. Finito questo
rito si và tutti ad ascoltare la musica in piazza”, precisa
Piero.
Dalla comparazione della sfilata della ‘Pullicinella’ dei
primi anni del 1900 con quella attuale, si evince che essa
ha subito notevoli modifiche. Invero, come ho potuto verificare
nei tre anni della mia esperienza sul campo, la festa subisce
piccoli cambiamenti anche di anno in anno, connotando il carattere
dinamico e progressivo delle tradizioni popolari. Sono innovazioni
che si hanno all’interno di un canovaccio previamente costituito
e socialmente accettato come valido e necessario.
Infatti, la sfilata si presenta come una prassi comunicativa
fortemente socializzata, dove ogni elemento è altamente convenzionale,
caratterizzato da un particolare stile figurativo, da movimenti
tipici, da tipologie di personaggi, da suoni ecc. “L’improvvisazione,
dunque si realizza nei limiti dei codici e stereotipi culturali
che le garantiscono una funzione comunicativa” (Raffaella
M. Ferrari, 1981).
La ‘Pullicinella’ ha esercitato, e tuttora continua ad esercitare,
un’intensa funzione coesiva per l’identità Cellarese. Così,
tutti gli appartenenti alla comunità, pur nella diversità
dei ruoli, sono attori di un fatto teatrale nel quale il momento
della partecipazione collettiva diventa il dato più significativo.
Le ‘Pullicinelle’ però non sono un simbolo per tutti e la
sua valenza è riferibile a gruppi precisi di persone. Da una
parte ci sono coloro che vedono le ‘Pullicinelle’ come una
occasione del tutto inserita nel contesto globale come: “io
la guardo con distacco e meraviglia perché dell’antica festa
non è rimasto quasi nulla, ora si è globalizzata anche la
‘Pullicinella’”. Dall’altra vi sono coloro che si identificano:
“noi vogliamo mantenere questa tradizione e sarebbe una tragedia
non farla” in quanto “tu non hai idea come durante l’anno
i Cellaresi aspettino questo giorno.” Infatti, precisa un’informatrice,
“quanto sento dire che non la vogliono fare, mi viene la malinconia.”
Invero, la consapevolezza della funzione strategica della
‘Pullicinella’ come fonte di coesione sociale da utilizzare
durante la festa, pare abbia indotto anche un tentativo di
strumentalizzazione da parte delle forze più attente, diventando
quasi uno strumento retorico attraverso il quale costruire
livelli di appartenenza collettiva.
Un informatore molto critico rammenta che “ci fu un periodo
in cui venivano addirittura derisi gli avversari politici.
Ne costruivano due o tre che rappresentavano Cellaresi impegnati
in politica, in seguito però si sono creati dei problemi,
così si è preferito cambiare soggetti.”
Di conseguenza, “la scelta è ora orientata su eventi che avvengono
durante l’anno. Quindi personaggi dello spettacolo, dello
sport, della politica, dei cartoni animati, insomma qualsiasi
spunto è buono.”
Si ritiene dunque, che il simbolo della ‘Pullicinella’ è un
segno che non ha la sua origine in se stesso, ma essenzialmente
nell’utilizzo, cioè nel bisogno di reintegrazione ad una storia
e ad un immaginario più grande, per colmare la distanza-lontananza
percepita sia sul piano individuale che in quello collettivo.
Un portatore così narra la sua partecipazione: “è bello perché
sei il protagonista e poi è per me un motivo di soddisfazione
e di orgoglio perché insegno qualcosa di bello alle nuove
generazioni. Mi sento parte della storia. E’ una piccola storia
che però mi dà grande orgoglio. Da piccolo, infatti, sentivo
parlare di quelli che portavano la ‘Pullicinella’ quando io
non ero ancora nato, le generazioni successive invece sentiranno
parlare di me.”
Accade che, all’interno l’attuale dinamica di omologazione
e di bisogno di partecipazione ad una realtà necessariamente
globale ma spesso spersonalizzata, si pongono attualmente
situazioni festive. La sfilata delle ‘Pullicinelle’ si delinea,
verosimilmente, come momento di allegria, come collegamento
alla tradizione e paradossalmente al presente.
A Cellara, secondo la mia ricostruzione storiografica, il
culto di San Sebastiano è stato scelto dalla popolazione come
depulsor pestis probabilmente a partire dalla funesta peste
del 1656. In quell’anno la peste imperversava in tutto il
Regno di Napoli, e fu durissima. I frati e i preti presentavano
il contagio come un castigo divino e la popolazione sperava
nell’aiuto dei Santi. Le manifestazioni di religiosità diventarono
un evento ordinario, praticato non soltanto dai poveri ma
anche dalle famiglie più abbienti. La tradizione orale tramandatasi
a Cellara vuole che, durante le peste, tutti si rivolgessero
ai vari Santi che si veneravano in paese e risulta largamente
e endemicamente diffusa la leggenda di un ipotetico miracolo
ad opera di San Sebastiano durante la peste: “visto che morivano
molte persone, hanno deciso di portare in processione la statua
di San Sebastiano e, arrivato a metà paese, ha fermato la
peste. Se doveva fermarsi sola o l’ha fermata S. Sebastiano
non lo so, comunque in paese non è più morto nessuno di peste”,
testimonia una informatrice.
Da quell’anno, grazie al suo miracoloso intervento, San Sebastiano
divenne il protettore di Cellara al quale la comunità dedicò
la Chiesa votiva a lui intitolata. Attualmente ubicata sulla
parte superiore del paese.
Risulta, altresì, che erano numerosi i Santi invocati a Cellara,
la cui devozione sopravvisse fino agli anni ’50 del secolo
passato. Qui, difatti, “tutto l’anno era scandito da feste
religiose. Quindi, c’era la festività di Santa Maria della
Stella, quella della Madonna Immacolata, di San Pietro, di
San Michele, di San Antonio e infine San Sebastiano che era
del popolo”, precisa un informatore.
San Sebastiano era il Santo del popolo perché era finanziato
dallo stesso e perché era l’unico che aveva ascoltato le preghiere
dei Cellaresi. Gli altri, invece, erano finanziati dalle famiglie
benestanti di Cellara che avevano la ‘procura’, così chiamata
dal popolo.
E’ bene precisare che, fino alla liberazione dal regime fascista,
l’economia Cellarese era basata sull’agricoltura e sulla pastorizia,
quindi la popolazione era per lo più dedita alla coltivazione
e all’allevamento. Le famiglie benestanti erano proprietarie
terriere e la base della loro ricchezza proveniva principalmente
dai profitti ricavati da queste attività. Attualmente l’agricoltura
è rimasta solo da sussidio ai redditi principali, mentre la
pastorizia è quasi completamente scomparsa.
In questo quadro storico e socio-culturale, verosimilmente,
le famiglie benestanti usavano queste ‘procure’ come strumento
per rafforzare il grado di dipendenza del popolo dal padrone
che, oltre ad offrire il posto di lavoro, gestiva anche i
canali che fungevano come valvola di sfogo, avente funzione
catartica dalla negatività vissuta durante la dura e alienante
vita quotidiana.
Questa realtà sopravvisse fino al 1940-1950, anni in cui a
Cellara si registrò una forte emigrazione. Fenomeno che coinvolse
non solo la classe subalterna dei lavoratori terrieri ma anche
la classe dominante, che dovette adeguarsi alle trasformazioni
socio-culturali del periodo storico.
La partenza delle famiglie benestanti determinò conseguentemente
anche la fine delle feste religiose di cui avevano la ‘procura’.
Avvenne che l’unica che rimase fu quella finanziata dal popolo,
cioè San Sebastiano.
In effetti, la procura della festa e la tutela della Cappella
di San Sebastiano non è mai stata affidata a nessuna famiglia
benestante e la relazione della vista pastorale del 1836 conferma,
appunto, che la “Chiesa filiale di San Sebastiano si mantiene
per la pietà dei fedeli” (Agata Cesario, 1982). E’ dunque
la comunità stessa ad avere la procura della festa di San
Sebastiano in quanto l’unica ad avere l’interesse reale perché
si continui a fare. Era ed è la comunità intera, quindi, che
si prodiga affinché la festa di San Sebastiano avvenga, in
quanto solo così si può realizzare quella comunicazione simbolica
tra il miracolato e il divino, che si è mostrato attraverso
l’intercessione del Santo.
Certo, la processione, così come l’intera cerimonia festiva
di San Sebastiano, si è modificata rispetto al passato e si
è svuotata da quegli atteggiamenti teatrali e devozionali
che erano propri degli anni passati. Questo lo si scorge anche
dai nostalgici ricordi degli intervistati. Ciò sia per i sintomatici
cambiamenti che il tempo ineluttabilmente impartisce a tutte
le cose, ma anche per un fenomeno socio-culturale molto importante
che si è verificato negli anni ’70 – ’80 del secolo precedente.
Un informatore ricorda che “intorno agli anni ’60, a Cellara,
si è registrata una forte immigrazione di gente proveniente
dai paesi e dalla campagne circostanti che, ovviamente, hanno
importato delle tradizioni che non avevano nulla a che fare
con quelle proprie di Cellara (...)”.
Durante la processione, in passato “(...) molte donne, come
ex-voto per grazia ricevuta, aspettavano il passaggio della
statua in paese per appendere collane d’oro al suo collo e
per appendere soldi al nastro azzurro appeso a tracolla alla
statua del Santo.”
Le donne, dunque, appendevano le loro collane d’oro al collo
della Statua del Santo come ex-voto per grazia ricevuta. Evidentemente
perché attraverso gli oggetti preziosi i Cellaresi onoravano
e ringraziavano il Santo esibendogli una ricchezza fittizia
più che reale. Assolvendo anche ad un’esigenza sociale molto
importante, cioè il consumismo vistoso tipico della condotta
festiva.
Inoltre, vi era anche una particolare forma di asta, cioè
l’’incanto‘. All’interno della Chiesa, la Statua del Santo
veniva adornata degli ex-voto d’oro offerti dai fedeli. Il
Cellarese che offriva la maggiore somma di denaro aveva il
diritto di indossare il ‘Petturale’ [13]
e quindi di far parte dei portatori [14].
Un informatore ricorda che “una volta era cosi: il sabato
pomeriggio arrivava la banda musicale e faceva il giro del
paese (…) e i suonatori della banda andavano a dormire nella
congrega o nelle case dei Cellaresi. (…) Ricordo che a casa
mia, il sabato sera, si mangiavano le melanzane ripiene e
lo spezzatino di capra, mentre la domenica si mangiava la
pasta al forno. La domenica mattina alle 7.00 la banda musicale
faceva il giro del paese in modo che il paese si svegliasse
al suono della musica. C’era un compaesano che aspettava i
musicisti e si posizionava davanti la banda per farle fare
tutto il giro del paese. Alle 8.00 finiva il giro e alle 10.00
c’era la processione con il Santo, partendo dalla Chiesa di
San Sebastiano per arrivare alla Chiesa di San Pietro, dove
si celebrava la Messa solenne. (...) Nel pomeriggio, alle
14.30, iniziavano i giochi popolari con il tiro alla fune,
l’albero della cuccagna, la corsa con i sacchi, la corsa podistica,
la rottura delle pignatte ad occhi bendati con dei bastoni
di legno. Inoltre c’erano tante bancarelle e la gente passeggiava.”
Di queste pratiche ora è rimasto ben poco e la festa di San
Sebastiano è cambiata rispetto al passato, sia nel suo lato
ludico che in quello sacrale. Tuttavia, la comunità continua
a partecipare con commozione e impegno, sia al momento organizzativo
che a quello prettamente partecipativo e la devozione a San
Sebastiano è comunque ancora molto sentita, soprattutto tra
gli anziani e gli adulti.
Certo, ora i colpi scuri [15]
non scandiscono i giorni festivi e durante la processione
non volano più i palloni [16].
Non si fa più l’’incanto’ e le donne non seguono scalze la
statua del Santo, non appendono le loro collane al collo della
statua, non portano la statua del Santo e non imbandiscono
la tavola, di fronte la loro casa, con liquori da offrire
ai portatori durante la processione [17].
Tuttavia, la loro devozione non si è lenita ma si è semplicemente
modificata, così come si è modificata la stereotipia, nella
misura in cui la società è cambiata, imponendo una partecipazione
solitaria e introversa.
Questa festa, inoltre, è anche l’occasione del ritorno di
molti emigrati, che sono stati costretti ad abbandonare le
loro case e quindi ad allontanarsi dalla loro storia. In passato
essi partecipavano attraverso le donazioni di denaro e attraverso
lettere che venivano lette pubblicamente dal predicatore durante
la celebrazione religiosa. Oggi invece, essi, con il loro
ritorno durante i riti del Santo protettore, riverificano
la persistenza della loro comunità e la rivivono, anche se
modificata rispetto a quella passata.
Si può dunque ritenere che il ciclo festivo di San Sebastiano
non ha perduto il suo originario significato di instaurazione
di ritmi temporali altri nella monotonia del quotidiano, consapevolmente
vissuti nell’attesa di riviverli l’anno successivo.
“E’ la voce di chi non ha parlato mai, è un soldato che butta
le armi e chiede pace, è come un prigioniero che vuole libertà,
è una rivoluzione di giustizia e di amore, è come la pioggia
nella siccità, è l’urlo di chi non ha mai avuto voce e non
vuole restare nell’oscurità”. (Almamegretta, 1994)
NOTE
1] L’indagine etnografica
è stata oggetto di studio per la realizzazione della mia tesi
di laurea in Storia delle tradizioni popolari. Pubblicata
da Ursini Editore (2006).
2] Definizione tanto cara
al maestro Ernesto De Martino.
3] Si è ritenuto efficace,
per una più agevole interpretazione dei dati, realizzare un
reportage fotografico, relativo alla costruzione e alla sfilata
delle Pullicinelle nonché alla processione di San Sebastiano,
mediante l’uso della macchina fotografica digitale. Il reportage
etnografico è visibile in www.sazio.splinder.com, nella sezione
Reportage Etnografici, FOTO: Festa di San Sebastiano a Cellara.
4] La descrizione riguarda
la sfilata del 2004.
5]Termine dialettale con
il quale si designano i suonatori dei Tamburi, essendo i Tummarini
i Tamburi.
6] Da tre anni le magliette
sono fornite dal Comune di Cellara e quindi sono stampate.
Cosi, oltre la scritta “Cellara Pullicinella”, presentano
anche una stampa che rievoca il rogo delle Pullicinelle. Prima
invece venivano scritte dai ragazzi con bombolette spray.
7] Salvatore è il ragazzo
che con Piero si preoccupa maggiormente della realizzazione
della sfilata delle Pullicinelle.
8] I cori rivolti a Cellara
ricordano tipici cori da stadio come: “Cellara alè alè”; “Forza
Cellara” ecc. I cori invece rivolti alla Pullicinella sono:
”Siamo tutti Pullicinelle”, “La bruciamo o no, la bruciamo
si o no!”, altri incitano la corsa o l’inchino della Pullicinella.
9] I portatori necessitano
di consigli, in quanto non dispongono di un’ottima visuale.
Essi, infatti, vedono esclusivamente da una piccola fessura
ricavata nella parte anteriore della Pullicinella. Tra l’altro
essi sono distratti e galvanizzati dall’atmosfera festiva
e dalla volontà di divertirsi e spesso dimenticano di avere
dei tempi da rispettare, dilungandosi eccessivamente in danze
e scherzi.
10] Tappa che non è stata
rilevata durante la sfilata del 2005.
11] E’ il luogo in cui si
consuma il rogo delle Pullicinelle, così detto per la presenza
di storiche fontane che in passato erano delle vere e proprie
vasche.
12] Costante festiva che
è stata rilevata durante l’osservazione della sfilata del
2003 e 2004, ma non in quella del 2005. In quest’ultima occasione
le Pullicinelle sono state bruciate tutte assieme.
13] I Petturali, in dialetto
Cellarese, erano delle cinture di cuoio molto larghe e di
color nero, che si infilavano a tracolla. Le statue erano
molto pesanti e quindi si usava legare le barelle, sulle quali
erano poste le statue, alle spalle dei portatori in modo da
scaricare il peso della statua sulle spalle.
14] Ivi.
15] I colpi scuri detti
Mascchi, in dialetto Cellarese, producevano un boato fortissimo
e si realizzavano infilando polvere da sparo in dei tubi di
ferro. In base alle testimonianze raccolte in paese, venivano
fatti scoppiare la mattina della festa di San Sebastiano ed
alla fine della Santa Messa.
16] I palloni aerostatici
venivano costruiti artigianalmente. Con i cerchi delle botti
e la carta velina si strutturava un telaio ed al centro del
cerchio si fissava uno stantuffo imbevuto di benzina, in modo
che il pallone si gonfiasse e volasse in cielo.
17] Durante tutte le processioni
dei Santi venerati in paese, i Cellaresi usavano sistemare
dei tavoli fuori le loro case. Venivano ricoperti con dei
drappi bellissimi e su si ponevano delle bottiglie di liquore
fatto in casa. Le statue erano di legno e pesavano tanto dunque,
i portatori avevano bisogno di alcune tappe per riposarsi.
Quando essi incrociavano questi tavoli usavano sostare per
circa quindici minuti bevendo numerosi bicchieri.
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