Il counseling e le culture: le culture del counseling
Massimo Giuliani (a cura di)
M@gm@ vol.5 n.2 Aprile-Giugno 2007
ECONOMIA POLITICA
DEL SÉ E COSTRUZIONE SOCIALE DELLA CURA: VERSO UN'ANTROPOLOGIA
DEL LAVORO DI RETE
Guido Veronese
guido.veronese@tiscali.it
Si è laureato a Padova in Psicologia
ad indirizzo clinico e di comunità; È psicoterapeuta della
famiglia, della coppia e dell'individuo e mediatore famigliare
di orientamento sistemico; Dottore di ricerca (Phd) in Psicologia
Clinica, collabora come ricercatore assegnista con la Facoltà
di Scienze della Formazione dell'Università degli studi di
Milano Bicocca; Svolge attività clinica privatamente e come
consulente presso il consultorio accreditato della clinica
Mangiagalli di Milano; si occupa di psicologia dell'emergenza
in collaborazione con l'Institue for Family Therapy and research
"Al Madina" di Nazareth.
Obiettivo
del presente lavoro è evidenziare alcuni fattori che intervengono
nell'alimentare lo stereotipo riduzionista ed universalista
della cura in ambito interculturale, avvallando e reificando
il costrutto dicotomico di retaggio etnopsicologico di modello
di cura Occidentale contrapposto ai saperi tradizionali (Beneduce,
Roudinesco, 2005 ). Una tale deriva presenta come principale
rischio quello di proporre nuovamente modelli di intervento
Unici, di retaggio post coloniale, disincarnati dalle possibilità
del quotidiano e dalle pratiche cliniche del territorio e
di riprodurre una cornice di riferimento occidentalista oggettivante
di matrice medica, psichiatrica e psicoanalitica. Lo sviluppo
di approcci che tengano conto delle influenze culturali e
dei significati molteplici che determinano in primis la costruzione
dei sé e delle identità, e poi di definizioni socialmente
condivise come quelle di disagio e cura, non possono prescindere
dalla necessità di composizione delle dicotomie e delle definizioni
polarizzanti denotative di gran parte delle teorie della mente
e delle tassonomie psicopatologiche. Ridimensionare le definizioni
etnocentriche, coordinandole in un sistema di significati
molteplice, fluido e cangiante, consente di orientare il focus
della cura all'analisi dell'interazione dei sistemi curanti
e curati, intesi come codeterminanti dei percorsi diagnostici
e dei percorsi di intervento. Lavorare con la rete significa
tenere conto di tutti quei livelli di contesto che interagiscono
nel processo di presa in carico della persona, del suo micro-contesto
di relazioni, della comunità di appartenenza e del modello
culturale di riferimento. L'articolo si chiude con un'esemplificazione
clinica di lavoro con la rete in un setting di counseling
interculturale.
Psicoanalisi ed etnopsicologie: la cura come "corpo
unico"
"L'idea di un metodo che contenga princìpi fermi, immutabili
e assolutamente vincolanti come guida nell'attività scientifica
si imbatte in difficoltà considerevoli quando viene messa
a confronto con i risultati della ricerca storica " (Feyerabend,
1975, pg.22). Prendendo in prestito le parole di Feyerabend
(1975), è possibile guardare alla psicoanalisi come ad un
tentativo di ridurre le differenze antropologiche ad un corpo
unico declinabile entro il paradigma della «situazione analitica»,
ovvero ad un corpus di leggi ascrivibili all'universo neurobiologico
(Lévi-Srauss, 1958). Una tale riduzione non tiene conto di
come la psicologia, storicamente, non sia riuscita a collocarsi
nei confronti della psicopatologia come la fisiologia si pone
nei confronti della medicina e di come, nel tempo, essa abbia
dovuto vieppiù sfumare i confini tra normalità e patologia
(Foucault, 1954). Il mero confronto psichiatra-paziente, analista-paziente,
asimmetrico, scismogenetico, oggettivizzante di un sistema
diagnostico e nosografico maschile, bianco e modernista, non
rende conto del fluire storico dei modelli e dei sistemi di
significato e diventa custode di un'ortodossia, l'ortodossia
ex-post, alla quale anche le scienze hard ricorrono sempre
più in via del tutto eccezionale e che tendono in generale
ad evitare (Barbetta, 2003). La trasformazione continua del
discorso diagnostico e dei linguaggi ad esso connessi, perlopiù
di matrice medico-analitica, costringe la tassonomia psichiatrica
ad un'asintotica rincorsa del prestigioso status di scienza
corroborata dall'evidenza empirica (Gabbard, 2005; APA, 2004).
Nell'atto estremo di "essere giusti con Freud", Jaques Derrida
(1992) enfatizza, tuttavia, la dinamicità in nuce nel pensiero
psicoanalitico, ascrivibile a quella dialettica che consentirebbe,
attraverso la problematizzazione di un corpus di idee che
incontra "pratiche" in azione, di liberare lo stesso pensiero
freudiano da critiche altrettanto oggettivanti ed universalizzanti
(Nathan, Stengers, 1995). La trappola entro cui l'etnopsicologia
ortodossa sembra essere incorsa nell'inseguire il feticcio
dell'Alterità, consiste nella tentazione di fare dell'Invisibile,
del Sé collettivo tradizionale, un nuovo "corpo unico", un'
"etno-universalizzazione" altrettanto reificante della metafora
polisemica di cura (Beneduce, 2005). È come se, a qualche
livello, l'etnopsicologo (maschio, occidentale e bianco) indicasse
tra le righe al collega wolof o allo psicoanalista magrebino
come decriptare la propria alterità, indicando la via regia
per esprimere l'alfabeto del loro mondo interno ed esterno
(Mudimbe, 1988). La pretesa, ad esempio, di tracciare le linee
di una «mens africana» appare rischiosa e poco corroborata
dalla ricerca antropologica che, anzi, tenderebbe ad evidenziare
dimensioni idiosincratiche, decostruendo lo stereotipo dicotomico
delle società tradizionali africane con la loro dimensione
gruppale versus il soggettivismo dell' Occidente (Beneduce,
2005). A costrutti culturali come quelli di «soggetto», «sè»,
corrispondono costrutti altrettanto virtuali come quelli di
«doppio», «invisibile».
Un'economia politica del sé (Shaw, 2000) dovrebbe tenere conto
della posizione dell'individuo rispetto al gruppo di appartenenza
e del suo soggettivo comporsi al modello culturale di riferimento,
in una relazione circolare e riflessiva, relazione in cui
individui e società sono costitutivi gli uni dell'altra (Harré,
1993). Pensando alla sofferenza ed al disagio come ad una
costellazione polimorfa, irriducibile a rigide strutture gerarchizzate,
non possiamo che tener conto di tutte quelle variabili, temporali,
storiche, culturali, che fanno di sofferenza e disagio aspetti
virtuali costitutivi della dimensione antropologica della
persona e del suo modello culturale di appartenenza (Benedict,
1934).
Costruzione sociale della cura: le reti relazionali
come principi costitutivi dell'identità malata
Il concetto di positioning (Harré, 1998) consente un primo
ed importante sforzo di relativizzazione degli universali
determinanti le teorie della mente, le psicopatologie e le
pratiche di cura occidentali.
L'individuo, secondo una prospettiva socio-costruzionista,
corrobora il proprio sistema identitario, attribuendogli senso
e statuto di esistenza, attraverso l'interazione con contesti
di apprendimento multipli, micro-sociali (la famiglia) e macro-sociali
(il gruppo, la comunità, la società). I discorsi relativi
alle dimensioni di normalità e patologia costituiscono a livello
individuale quell'insieme di voci polarizzate che definiscono
la persona come "integrata", "funzionante", "sana" da una
parte e "diversa", "marginale"o "patologica" rispetto al proprio
sistema culturale dall'altra. Ad esempio, in una famiglia
in cui il successo, la riuscita sociale, le rispettabili apparenze,
costituiscono il copione conversazionale maggiormente valorizzato
e saliente, un figlio che fallisce la propria mission scolastica,
che aderisce a movimenti controculturali o subculturali, si
collocherebbe nella conversazione familiare nella posizione
di "malvagio" nei migliori dei casi, di "malato" molto più
facilmente (Ugazio, 1998). Allo stesso modo, un migrante che
sia fuggito da un contesto di guerra e persecuzione, che abbia
attraversato il mediterraneo su una delle famigerate "carrette
del mare" - a prescindere dalla propria storia e dallo status
socio-economico nel Paese di origine- potrebbe essere facilmente
definito (e definirsi), all'interno del discorso diagnostico
propugnato dal sistema curante del Paese che lo accoglie,
come un disturbo postraumatico da stress, un disturbo dell'adattamento
e così via (Barbetta, 2003).
Si enfatizza, da questo punto di vista, come individuo, famiglia
e società costituiscano in una fitta trama di narrazioni i
codici connotativi della microfisica del potere (Foucault,
1975), ovvero di quell'insieme di tecnologie dell'educazione
e della clinica che fanno del singolo individuo un sistema
di controllo di sé su di sé, al servizio di uno status quo
autoproducentesi all'interno di sistemi di significato, di
discorsi, condivisi.
La salute non può in tal senso definirsi semplicemente come
assenza di malattia e la malattia non può essere ridotta a
deviazione dalla norma, l'uno e l'altro aspetto sono "un concetto
dinamico che si manifesta nel sistema culturale di appartenenza"
(Capararo, 2003, p.53). Dunque la cura stessa assume una specifica
posizione all'interno della danza creativa tra sistema curante
e sistema curato, danza creativa ed autopoietica, in cui -
attraverso un costante rapporto riflessivo tra i diversi elementi
dei sottosistemi - le parti interagenti di volta in volta
contestualizzano e sono contestualizzate dall'uno e dall'altro
livello in giuoco: il livello istituzionale, il livello individuale
o autobiografico, il livello familiare, il modello culturale
ec. (Pakman, 2000; Schön, 1991). La conoscenza pratica (Hoffmann,
2002) ed in azione può guidare i professionisti della cura
verso modi di pensare complessi e sistemici, ovvero li può
orientare ad una sempre maggiore attenzione al contesto generativo
dei comportamenti umani in cui "attori competenti sviluppano
condotte di vita possibili"(Pakman, 2003, p. 38).
L'incontro di diverse antropologie - filosofica, medica, psicologica,
dell'individuo e delle società - costituisce quella fitta
ragnatela i cui fili assiali rappresentano l'individuo, la
famiglia o il gruppo sociale presi in carico e i loro sistemi
identitari, i fili radiali tutti quei sottosistemi (psicoterapeutici,
psico-sociali, pedagogici, medici ec.) che intervengono nella
costruzione sociale del percorso di cura, dalla diagnosi fino
al processo riabilitativo.
Counseling sistemico ed interventi multidisciplinari:
verso un'antropologia della rete
Il lavoro d'équipe e con il territorio, gli interventi multidisciplinari
e a setting multipli hanno tradizionalmente informato la pratica
clinica dei modelli familiari, sistemici e sistemico-familiari
(Asen, Schuff, 2006; Eisler et. al., 2003; Selvini Palazzoli
et al., 1975).
Una delle idee cardinali che corrobora il pensiero sistemico
è la possibilità di operare su livelli multipli di contesto
(Pearce, Cronen, 1985) in quanto le cornici di riferimento
in cui l'uomo costruisce la propria identità, le strutture
che connettono (Bateson, 1972), fanno di esso un sistema vivente
che costruisce significati entro una "mente contestuale".
I diversi modelli culturali che influenzano i setting in cui
professionisti della cura si trovano ad agire, contribuiscono
a costituire linguaggi multiformi e polisemici che si inseriscono
a pieno titolo in una cornice epistemologica postmoderna (Knapik,
Miloti, 2006). Il linguaggio, secondo la prospettiva postmodernista,
acquisisce significati non su base autoreferenziale ma attraverso
il suo utilizzo nelle pratiche sociali (Gergen, 1994). In
tal senso la relazione costruisce passo dopo passo una fitta
rete di significati che relativizza i significanti attribuendo
loro la funzione di metafore cangianti. Depatologizzazione,
riduzione delle asimmetria tra sistema curante e sistema curato,
coordinamento di sistemi di significato multipli sono la diretta
conseguenza della crisi modernista e dell'emergere di paradigmi
relativisti e postmoderni (Potter, Wetherell, 2003). Le strutture
che connettono i diversi sistemi di significati costituiscono
la rete, e la rete è un insieme di culture il cui intero è
più della somma delle singole parti. Diverse culture, diverse
posizioni ed opposizioni, diverse normalità, costituiscono
un fitto intrecciarsi di "isole genetiche", distinte e contemporaneamente
connesse da ponti e traiettorie che fanno della dimensione
dialogica il primum movens evolutivo di individui e società
postmoderni. Antropologia e etnometodologia forniscono alla
pratica della rete carburante metodologico e teorico; esse
indicano la strada dell'interpretazione attraverso il resoconto,
attraverso la pratica della conversazione dialogica e attraverso
il coordinamento delle azioni, degli universi simbolici di
significato alle norme sociali (Heritage, 2001). Un'antropologia
della rete contribuisce alla promozione e allo sviluppo di
competenze culturali nella relazione di aiuto, attraverso
l'esplorazione degli ambienti, dei sistemi e dei sottosistemi
in gioco e della loro interazione, verso una concezione del
benessere culturalmente sensibile (Purden, 2005).
Counseling e lavoro di rete in contesti multiculturali:
vincoli e possibilità
Operare in contesti multiculturali costringe sempre più ad
un lavoro di rilettura, di gestione e ri-costruzione del contesto
di cura. Occorre, cioè, una conoscenza approfondita delle
parti che concorrono alla co-creazione di tale contesto. Appaiono
imprescindibili domande del tipo: "Chi?" (contesto persona)
prendiamo in carico (individui, famiglia, gruppi familiari,
vicini, notabili, figure religiose ec.), "Dove?" (contesto
luogo) operiamo e estendiamo la nostra azione di cura (clinica,
casa, scuola, moschea, tempio, chiesa ec.), "Quando?" (contesto
temporale), in quali momenti della giornata e con quale gestione
del tempo? (frequenza, durata); "Che cosa?" (contesto attività),
il set può variare dalla tradizionale stanza terapeutica,
al contesto naturalistico fino all'esposizione in vivo ed
infine "Come?", ovvero il corpus di conoscenze cliniche e
di tecniche che fanno dell'intervento un intervento di tipo
sistemico, anziché etnopsichiatrico, umanista, ecc.. L'abilità
"camaleontica" del sistema curante può a qualche livello garantire
una buona riuscita dell'intervento, assicurando una presa
in carico efficace e sensibile ai contesti (Asen, 2004).
Le difficoltà esecutive che la pratica clinica ha più volte
rilevato nel coinvolgere tutte le parti in causa nel processo
di presa in carico e trattamento, possono esporre gi interventi
di counseling interculturale sensibili ai contesti all'accusa
di essere dispendiosi, time consuming e scarsamente praticabili.
La tentazione del setting unico appare, a mio avviso, più
di vantaggio al sistema curante che, assumendo una prospettiva
universalistica, trascura la dimensione sistemica e riflessiva
degli interventi di aiuto. Le pratiche standard consentono
rendicontazioni agili e rapide ma del tutto disincarnate dall'oggetto
d'intervento -spesso frammentato e/o passivizzato- e dai suoi
riferimenti culturali. La dimensione monologica del setting
di cura standardizzato consente solo apparentemente di contenere
costi e di controllare efficacia ed efficienza dell'intervento,
in quanto indaga un universo parziale di variabili. La complessità
di un intervento di rete "camaleontico" consente la continua
riformulazione di ipotesi e di significati, compensando un
apparato solo apparentemente "mastodontico" con l'ingaggio
di figure appartenenti a diversi contesti rese competenti,
coordinate al sistema di cura e soprattutto a costo zero (pensiamo
ad esempio all'utilizzo di vicini di casa, di amici, parenti,
figure religiose, in luoghi come casa, supermercato, chiese
ec.). Un esempio di intervento a basso costo e alta efficacia
è quello proposto dal Marlborough Family Service di Londra
(Asen et al. 2001), in cui uno o due operatori terapeuti,
educatori ec. operano con più nuclei familiari in setting
multipli avvalendosi della collaborazione di "famiglie esperte"
che coadiuvano l'équipe terapeutica diventando parte operante
del sistema che cura.
Il contributo dell'alterità alla riedificazione di un corpus
di pratiche efficaci e sensibili a modelli culturali molteplici
e multiformi è fondamentale nella misura in cui enfatizza
l'importanza della coesistenza nel sistema curante di team
multidisciplinari e delle figure di riferimento significative
nel contesto di apprendimento di chi venga preso in carico.
Tutti gli stakeholder assumono un ruolo "competente" e centrale
lungo l'intero processo di cura, fornendo competenze e conoscenze
al servizio del sistema curante.
In figura viene rappresentato un possibile scenario di presa
in carico che tenga conto di tutte le componenti che interagiscono
costituendo i livelli multipli di contesto entro cui ciascun
elemento del sistema curante assume una posizione strettamente
correlata alle posizioni degli altri elementi interagenti.
FIGURA 1: struttura a ragnatela di contesti multipli
e potenziali stakeholder che concorrono alla costituzione
della rete che cura
Diverse figure professionali ed istituzionali - fili radiali
e perciò abbastanza agilmente rimpiazzabili nella ragnatela
- possono assumere la posizione di consulente del sottosistema
che accede alla cura. Quest'ultimo, insieme alle principali
figure di attaccamento e agli "altri significativi" del suo
contesto di vita, appare occupare un ruolo centrale - i fili
assiali della ragnatela che costituiscono il centro vitale
dell'intero sistema, senza il sostegno dei quali la rete stessa
è destinata ad implodere - nella misura in cui determina le
sorti del processo terapeutico. Un processo di cura o di aiuto
che abbia raggiunto il suo obiettivo, ovvero restituire un
benessere relativo al cliente, deve necessariamente contribuire
ad un cambiamento nell'intera rete, fornire elementi evolutivi,
piccole "catastrofi", che costituiranno un punto di discontinuità
per l'intero sistema coinvolto nel processo. Scelte che privilegino
le interazioni e l'alternarsi di livelli multipli di contesto
contribuiscono ad una concezione polifonica ed estetica della
cura: diverse voci a diversi livelli costituiscono il razionale
del progetto che intende produrre benessere. Lo spostare il
focus di interesse sulla salute mentale da una concezione
che privilegi una sorta di restituito ad integrum, ovvero
il ripristino di funzioni "normali", "giuste", "sane", ad
un approccio sensibile alla comunità e ai modelli culturali,
ovvero che si approssimi ad una concezione sistemica e pluralista
della cura, contribuisce a rileggere la figura del professionista
non tanto in termini di esperto, scienziato, guaritore, bensì
di co-costruttore di benessere e di pace, di dialogo e competenza
(Norsworty, Gerstein, 2003).
Costruzione sociale della competenza all'incompetenza:
Il caso di Giselle
Giselle [1] ha 30 anni,
soffre di una forte depressione da dopo la nascita di Leonardo,
il secondo figliolo. Il maggiore, Gioele, ha cinque anni e
frequenta l'asilo pubblico. È boliviana lavora come donna
delle pulizie ma, da quando è divenuta per la seconda volta
madre, può lavorare solo saltuariamente. Giunge presso un
consultorio accreditato di un'importante clinica milanese
perché disperata: gli ultimi eventi di vita la confermano
entro quella cornice di impotenza appresa che da un anno a
questa parte, da quando, cioè, è giunta in Italia, sembra
circoscrivere le narrative identitarie della donna. Nelle
ultime due settimane la depressione l'ha quasi immobilizzata;
Giselle ora è terrorizzata dallo spettro di perdere i figli
perché "incapace" di prendersi cura di loro. È sposata con
Fredi, giovane tornitore di 27 anni. Appena arrivati in Italia
Fredi appare disposto a rompersi la schiena per la propria
famiglia e trova subito un buon lavoro che gli consente di
ottenere il permesso di soggiorno. Anche Giselle viene assunta
come domestica e le cose sembrano filar dritto finchè la ragazza
resta nuovamente incinta. Fredi sembra non sopportare l'urto
e piegarsi sotto il peso della responsabilità. Comincia a
frequentare connazionali poco raccomandabili, riscopre il
vizietto del bere, ereditato dalla Bolivia e infine, coinvolto
in stato di ubriachezza in una rissa, viene carcerato per
oltraggio e aggressione a pubblico ufficiale poche settimane
prima della nascita di Leonardo. Giselle rimane sola, senza
un lavoro fisso (viene licenziata perché accusata di aver
mentito riguardo alla gravidanza ) è costretta ad abbandonare
la casa che le forniva l'ex datrice di lavoro. Trova ospitalità
dalla sorella maggiore e attualmente il nucleo ricomposto
è costituito da sette persone che vivono in due locali. Giselle
reagisce con tenacia ma al secondo mese di vita di Leonardo
cade in uno stato di profonda costernazione. Fredi in prigione,
la sorella di lei insofferente per l'improvvisa invasione
della sua casa, due bambini a carico, sembrano costituire
un fardello troppo gravoso da sopportare: è l'esordio della
depressione. Giselle viene presa in carico dal CPS di zona,
i servizi sociali si attivano per accertare le condizioni
dei minori e valutare le risorse genitoriali della madre,
la sorella di lei preme perché il prima possibile la liberi
della sua presenza. Quando Giselle arriva al servizio di terapia
della famiglia chiede all'équipe terapeutica di aiutarla a
tenere con sé i figli, perderli sarebbe l'ultimo passo verso
il suicidio.
La storia di Giselle è costellata di fatica e sofferenze:
ultima di tre fratelli, due maschi ed una femmina, figlia
maggiore, frequenta nel suo paese studi universitari in scienze
economiche. A venticinque anni, per sottrarsi all'asfissiante
controllo della madre, Giselle decide di sposare Fredi, studente
di ingegneria del quale rimane incinta. La madre non perdona
a Giselle la sua scelta e la espelle da casa. Fredi, subito
dopo il matrimonio, l'accusa di averlo incastrato e di avergli
stroncato la carriera universitaria, la maltratta e spesso
è violento con lei, soprattutto quando beve. Il sogno di libertà
di Giselle si infrange contro il muro di rifiuto della madre
e di instabilità del marito che alterna a momenti di furia,
momenti in cui dichiara di amarla perdutamente. A complicare
la già precaria condizione dei novelli sposi si aggiunge una
tragica fatalità che costringerà la coppia ad abbandonare
per sempre il loro Paese d'origine: tornando una sera dal
lavoro, Fredi fa un incidente automobilistico con un militare
molto influente che, di lì a poco, spoglierà il ragazzo e
la moglie di tutti i beni. Giselle lascia la Bolivia per trascorrere
qualche mese a Malaga, in Spagna, da un fratello con il quale
i rapporti sono pessimi; giungerà poi in Italia dove, con
l'aiuto della sorella, la ragazza troverà in poco tempo un
buon lavoro. Fredi la raggiunge a Milano con il piccolo Gioele.
Il lavoro terapeutico con Giselle è molto dificcile: più i
counselor diventano interventisti, più Giselle sembra assumere
una posizione passiva. I livelli di sofferenza della ragazza
sono tali da farne via via sotto tutti i punti di vista una
malata psichiatrica: imbrigliata dalla cura farmacologia,
la donna assume un aspetto sofferente e privo di slancio vitale,
non collabora e sembra rassegnata a perdere i figli, tanto
da chiedere un sostegno per sopportare l'inevitabile separazione.
Emergono antiche storie di abuso sessuale da parte dei fratelli,
l'assenza di una figura paterna (Giselle non conobbe mai il
genitore che dopo la sua nascita si diede alla macchia), l'intervento
"salvifico" di una sorella preoccupata che le violenze subite
dalla ragazza non fossero scoperte dalla madre, piuttosto
che intenzionata a proteggerla dagli abusanti.
Giselle vaga di servizio in servizio alla ricerca di un sussidio,
di cura, di comprensione, di sfogo senza permettere che nessuno
la prenda effettivamente in carico. Dopo quattro sedute di
consultazione, l'équipe del consultorio si accorge di essere
ad un punto di stallo: un tassello di più al mosaico di designazione
che fa di Giselle un oggetto di cura vittimizzato e passivizzato,
una malata psichiatrica cronica, incompetente e bisognosa
di assistenza a trecentosessanta gradi: gli assistenti sociali,
consapevoli dell'importanza dei figli per la sopravvivenza
della donna, si attivano per fornire supporti di sopravvivenza
insieme alla parrocchia di zona e per consentire ai bambini
di incontrare il padre in un contesto protetto di «spazio
neutro» ; il CPS, preoccupato dell'ingravescenza delle condizioni
psico-fisiche della donna, fornisce massicce cure farmacologiche
per scongiurare il peggio; la scuola materna, preoccupata
da un Gioele sempre più taciturno e disforico nel tono dell'umore,
fa di tutto per vicariare il ruolo materno di Giselle; i counselor
del servizio di terapia familiare cercano di supportare la
donna durante il faticoso processo di deterioramento, assecondando
il motto che recite: «fino a qui tutto bene. L'importante
non è la caduta, ma l'atterraggio» [2].
Giselle appare una paziente modello, non manca un appuntamento
e trascorre gran parte dei giorni della settimana a peregrinare,
come un anima dannata, di servizio in sevizio: non c'è operatore
che non la abbia nel cuore e che non desideri prendersi cura
di lei. Risultato : Giselle peggiora di settimana in settimana,
Gioele diventa sempre di più un bambino parentificato in casa
e caratteriale a scuola, Leonardo sembra al momento, troppo
piccolo e attento al contesto che lo nutre, non dare alcun
problema; mangia, dorme ed è bellissimo. Giselle, filo assiale
della ragnatela, sembra trascinare con sé nella rovinosa caduta
tutta la rete che le ruota attorno e gli operatori apprendono
da lei il sentimento di impotenza.
Il giro di boa, la piccola catastrofe che crea informazione
e cambiamento, arriva inaspettata, dopo lunghi incontri di
network trascorsi dagli operatori a leccarsi le ferite. Le
maestre di Gioele chiamano il consultorio molto preoccupate,
negli ultimi giorni il bambino non è più aggressivo con loro
ed i compagni, dorme tutto il giorno. È esausto. Le maestre
chiedono ai terapeuti, in tono assertivo e accusatorio, quale
tipo di lavoro si stia facendo con la mamma di Gioele, perplesse
dall'aspetto sempre più trascurato della donna e dagli abissali
ritardi che più di una volta hanno fatto sospettare loro che
si fosse dimenticata il figlio a scuola. I counselor decidono
di convocare in seduta le maestre di Gioele ed il bambino.
In seguito ad una discussione d'équipe, insieme alla scuola,
si decide di convocare in seduta un operatore del CPS, un
rappresentante del servizio sociale, uno del servizio di aiuto
e assistenza della parrocchia, "Spazio Neutro", la sorella
di Giselle. Giselle seguirà il primo colloquio da dietro lo
specchio unidirezionale con un counselor. La seduta si propone
come obiettivo principale quello di aiutare il paziente designato,
ovvero "la rete malata"a superare l'empasse che crea disagio,
sofferenza e senso di impotenza e la mamma di Gioele avrà
il compito di fare da supervisor all'équipe terapeutica. Ad
una prima reazione di perplessità da parte della donna e di
resistenza da parte delle istituzioni coinvolte restie a dichiarare
la propria impotenza ed ineffcacia, seguirà una seduta altamente
significativa che vedrà protagonista il piccolo Gioele, tanto
competente e capace di cogliere la fatica e la sofferenza
della madre da farle esclamare: "anch'io posso contare su
un eccellente supervisore!". Le sedute successive manterranno
lo schema iniziale: un counselor coadiuvato da Giselle come
supervisore e la rete in posizione di "richiesta d'aiuto".
Il processo di restituzione di competenza ha un effetto quasi
taumaturgico su Giselle che in seduta diventa sempre più attiva
e sembra - nel tempo- vivere gli operatori come risorsa da
sfruttare nella realizzazione di un progetto di cui lei e
Gioele sono i principali artefici.
Dopo qualche seduta Giselle potrà addirittura permettersi
di congedare il CPS e arriverà ad annunciare di essere riuscita
(dopo anni!) a chiamare la madre per raccontarle il suo dramma.
La mamma di Giselle arriverà di lì a poco in Italia per aiutare
la figlia e starle accanto. Nel momento in cui Giselle si
rafforza e l'intera rete sta riguadagnando in fiducia e forza,
arriva in consultorio una telefonata di Giselle a cambiare
radicalmente il panorama dell'intervento. La donna deve partire
per seguire come governante una nuova datrice di lavoro, Gioele
ed il piccolo Leonardo resteranno con la nonna per tutto il
periodo lavorativo della mamma; le sedute devono, perciò,
essere sospese. Dopo circa un mese arriva in consultorio una
seconda telefonata in cui Giselle racconta, commossa, di come
Gioele, Leonardo, la nonna e Fredi l'abbiano il giorno prima
chiamata dallo spazio neutro per farle una sorpresa, per salutarla
ed esprimerle tutto il loro affetto. Giselle non manca di
raccontare tutta la fatica dello stare lontana dalla famiglia,
ma neppure di sottolineare come il marito le sia sembrato
più consapevole dei propri doveri di padre. Quando Fredi uscirà
dal carcere, Giselle potrà contare sul supporto della rete
familiare, istituzionale e sociale, rafforzata dall'accresciuta
competenza della donna, dalla riconnessione con parte del
nucleo d'origine (la madre), dalla fiducia reciproca e dall'attivazione
sinergica di tutte le componenti in gioco. Giselle ringrazia
e preannuncia di volere proseguire le sedute per sentirsi
ulteriormente supportata e rassicurata. Dopo la telefonata
non seguiranno altri incontri.
Conclusioni
Il caso di Giselle rappresenta una rara eccezione di coordinamento
della rete. Le tentazioni di asimmetria nel processo di presa
in carico, di reificazione della metafora della cura come
«oggettualità biologica e fisica» (Taussig, 2006), del lavoro
di rete inteso come catena emozionale (ed infinita) di invii
(Selvini Palazzoli et al., 1980), contribuiscono ad avvallare
stereotipi riduzionisti e vittimali. Tale tendenza, caratteristica
di una prospettiva medicalistica, occidentale, democratica,
maschile e bianca, diventa ancora più evidente nel momento
in cui l'"oggetto della cura" appartiene a culture "altre"
(Papadopoulos, 2002). La debolezza disposizionale dello straniero
e gli effetti codificati di povertà e marginalizzazione, informano
l'epistemologia dei professionisti della cura. L'effetto scismogenetico
che ne deriva è la radicalizzazione dello iato tra sistema
curante (professionisti dell'assistenza e della cura) e sistema
curato (professionisti del disagio e della malattia). Un emblematico
esempio è costituito dalla condizione di rifugio politico
(ed a qualche livello la storia di sofferenza di Giselle in
Italia inizia con una forma "ibrida" di rifugio) troppo spesso
indebitamente sovrapposta alla condizione patologica. La passivizzazione
dell'oggetto di cura contribuisce all'affinamento delle tecnologie
del potere, il cui stemma araldico è mirabilmente rappresentato
dallo psicofarmaco, potere che alimenta la costituzione di
istituzioni di controllo della salute fisica e mentale e della
moralità (Foucault, 1975). Altrettanto rischiosi appaiono
dispositivi che, come il setting etnopsichiatrico, sembrano
avvallare un approccio comunicazionale di tipo modernista
(Pearce, 1989). Il melting pot di significati derivante da
dispositivi di stampo etnopsichiatrico rischia a mio avviso
di sacrificare significati culturalmente idiosincratici, sistemi
identitari unici e non riproducibili, all'altare dell'armonia
e della composizione democratica delle differenze, producendo
fenomeni implogenetici che riducono sé molteplici e multiformi
ad un unico Sé meticcio ed indifferenziato (Ugazio, 1998).
L'approccio antropologico consente di problematizzare fenomeni
psicologici, affettivi e corporei sia da un punto di vista
storico-sociale che personale, facendo di concetti come quello
di "salute", "malattia" e "disagio" prodotti umani molteplici
e autopoietici. "Le esperienze di sofferenza, sebbene radicate
nei corpi individuali, rappresentano il marchio della società
sui corpi dei suoi membri" (Quaranta, 2006, pg. xxvii). Un'antropologia
della rete, che possa avvalersi degli strumenti di analisi
narrativa forniti dal metodo etnografico, consente di valorizzare
aspetti interattivi e di coordinamento dei significati di
differenti realtà che partecipano e co-creano il processo
di cura, valorizzando la dimensione dialogica tra differenti
culture, differenti contesti di apprendimento e differenti
fenomeni del potere. È come se il regolarsi di fenomeni di
scismogenesi (complementare e simmetrica), orientati alla
specializzazione, e di fenomeni implogenetici orientati all'armonia
e alla riduzione delle differenze, consentano alla rete di
valorizzare la competenza culturale di tutti gli elementi
siano essi parte del sistema curante o del sistema curato
(Bateson 1958; Arredondo, 2002).
La funzione del counselor che operi in contesti multipli e
multiculturali appare sempre meno sovrapponibile a quella
di "esperto della cura" e sempre più vicina a quella di facilitatore
dell'incontro tra diverse culture, diversi sistemi di significato,
diverse etnicità (Gamst et. al., 2006) e di riconnettere il
disagio individuale al sistema di valori, etici ed eidetici,
della comunità (Elliott, Urquiza, 2006). I discorsi socialmente
condivisi sulla malattia e sul disagio impongono vincoli linguistici
tali da rendere il discorso sul benessere strettamente connesso
al concetto di Ragione. Tale concetto è da considerarsi alla
stregua di una categoria universale che contribuisce a costruire
"un idioma totale e continuo, come sapere del linguaggio o
filologia, contro la lingua madre che è il grido della vita"
[3] (Deleuze, 1993 pg. 54
; Foucault, 1971). Restare entro i confini tracciati dalla
Ragione, ancorati ai vincoli linguistici imposti da essa,
dunque, non necessariamente indica un buon adattamento sociale
o la certezza del benessere psicologico; invece, come suggerisce
Gille Deleuze (1993) l'orientarsi e muoversi il più liberamente
possibile entro i confini della "sragione", sembra aprire
alle infinite possibilità offerte, nel tempo, dai molteplici
e polisemici linguaggi umani e dalle continue trasformazioni
storiche nell'ordine del discorso.
NOTE
1] Nomi e luoghi sono fittizi
per garantire anonimato e diritto alla riservatezza delle
persone adulte e dei minori.
2] Citazione dal film di
Mathieu Kassovitz "La Haine" (1995).
3] Corsivo nostro.
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